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Una cena particolare

…in quel lontano 1943, la nostra famiglia era così composta; il nonno e la nonna, poi il papà e la mamma, mio fratello Pietro di dodici anni, mia sorella Maddalena di undici anni, Ester di nove anni, io e Simeone, il più piccolino.
Si viveva in campagna, in una piccola fattoria a pochi chilometri dalla città e come per tutte le case di campagna di allora, anche noi avevamo una stalla con una mucca e un cavallo, un pollaio con galline (poche), oche (pochissime), conigli (molti, ma loro erano intoccabili perché servivano per essere venduti al mercato) e un cane dal pelo color ruggine di nome Cola (in seguito ogni nostro cane ebbe lo stesso nome). Quella specie di babau ringhiante era il vero signore del cortile, tant'è che gli altri animali dovevano sempre tener conto dei suoi umori mentre l'attraversavano.
Cola, oltre che essere mio personale amico, aveva un compito primario; impedire l'ingresso e l'uscita a tutti gli intrusi o presunti tali… compresi i tedeschi.
Avevamo anche una gatta nera come la notte, ma di lei ci si doveva fidare poco, specialmente quando iniziava a sfregarsi contro le gambe di chi le capitava a tiro, poiché all'improvviso poteva mordere e scappare e per questa sua predisposizione finiva quasi sempre con il buscarsi qualche colpo di scopa e i rimbrotti della nonna, che era solita scacciarla con le solite parole:
«Vai fuori brutta farabutta di una ladrona, vai a dare la caccia ai topi».


Lei, «la gatta», non aveva un vero nome, la chiamavano tutti soltanto «la gatta» e probabilmente questo nomignolo non doveva essere di suo gradimento, perché senza far torto a nessuno, lei si dimostrava scontrosa e scorbutica con tutti i membri della famiglia.
Di solito «la gatta» si cibava di quel poco, anzi pochissimo, che riusciva a trovare incustodito (ricordo il giorno in cui vidi piangere la mamma perché la pantera nera era riuscita a rubarle un intero pezzo di burro che era costato una mattina di lavoro), oppure dando la caccia ai topi che in campagna non mancavano di certo.


D’inverno se ne stava beatamente sul tetto a ridosso della cappa del camino, al riparo delle tegole, mentre la notte preferiva trascorrerla nella legnaia dove si conservava, oltre alla legna da ardere, tutto ciò che in casa non serviva, compreso il materiale che il babbo non utilizzava nella sua bottega di maniscalco e soprattutto tanti stracci d'ogni genere perché la nonna era sarta e lavorava in casa con altre due vicine, stracci che venivano barattati ogni tre o quattro mesi con lo stracciaiolo, ricevendone in cambio attrezzi per la casa e a volte qualche pezzetto di preziosa liquirizia.
Perciò «la gatta» trovava sempre modo di starsene al calduccio anche fuori di casa.


Come dicevo, c’erano le oche e le galline, anche queste ultime erano intoccabili per via delle uova che servivano per noi bambini, mentre le oche, prima di essere mangiate (obbligatoriamente a Natale) dovevano mangiare.
Controllare le oche era il compito di noi due più piccoli, ma in realtà soltanto mia responsabilità.
Infatti mi rivedo con in braccio il piccolo Simeone che non aveva ancora compiuto tre anni, e in mano il bastoncino che serviva a "guidare" le oche, avviarmi al solito posto, una striscia di prato con una pozzanghera naturale che diventava il loro pascolo e anche il mio luogo di gioco.
Non ero mai libero del tutto, perché sebbene qualche volta per giocare trascuravo i miei compiti di custode, sia Samuele che le oche non correvano pericoli.
Insomma una vera fatica anche giocare!
Poi, con mio sommo piacere, le oche cominciavano a diventare sempre più grasse e questo significava che il Natale si avvicinava, ed allora cominciavo a pregustare la tavolata di Natale.
Il Natale di quell'anno l'attendevo per quattro diversi motivi: Primo per essere finalmente autorizzato a partecipare alla preparazione del presepe. Secondo per la bella tovaglia bianca che la mamma avrebbe usato per apparecchiare la tavola (che da sola mi dava l’idea della festa grande e delle cose buone da mangiare). Terzo per la mia prima letterina che avrei messo sotto il piatto del babbo e quarto, per la scatola di matite colorate che avrei ricevuto in dono, (sempre la stessa!) che era già stata il balocco dei miei fratelli maggiori e che pochi giorni dopo sarebbe «sparita» per riapparire il Natale successivo.


Finalmente venne la grande sera, ed io, che fino ad allora non mi ero reso ben conto della guerra (A quel tempo avevo sei anni), ebbi modo di farne la conoscenza proprio la notte di Natale!


Quella mattina la mamma aveva guidato la mia mano a scrivere la letterina da mettere sotto il piatto del babbo, e con tanta fatica avevo impiastricciato poche righe che avrebbero dovuto avere questo senso;


Questa mattina ho chiesto al mio cuore:
"Suggeriscimi tu qualche parola
da dire al babbo in ogni momento.


E il mio cuore ha risposto contento:
Fagli un sorriso e digli soltanto:
Ti voglio bene...ma tanto, tanto, tanto..."


Il cenone come lo chiamavamo noi era atteso da tutti noi e consisteva in un bel piatto fumante di polenta gialla e dalla nostra oca con patate cotte nel suo grasso. Una vera leccornia!
Non potrò mai dimenticare il delizioso profumo dell’oca che arrostiva nell’enorme tegame sulla stufa a legna e soprattutto l'emozione dell'esilarante sorpresa che il babbo mostrò al ritrovamento della mia letterina sotto il suo piatto, quando improvvisamente un rumore sordo e cattivo riempì l’aria terrorizzandoci tutti.
Il nonno prese noi piccini e ci portò di corsa nella bottega del babbo, ci fece sdraiare sotto la forgia e si raccomandò di non muoverci.


Obiettivo dell’incursione degli aerei alleati era un piccolo aeroporto poco distante dalla nostra casa.
La paura fece del suo meglio per prendersi il bambino che ero stato e per la prima volta capii che da allora tutto sarebbe cambiato per colpa della guerra… proprio nel giorno tanto atteso del presepe, della letterina, della tovaglia bianca e dell’oca!


Dopo una mezz'ora, passato il pericolo, nell'uscire di sotto la forgia, sentii il grido disperato della nonna: «l’oca, l’oca!»
Era successo che nel trambusto creato dal bombardamento, nessuno aveva curato «la gatta», che sfidando bruciature e scopa, aveva scoperchiato la grossa pentola e si era impadronita del nostro prezioso cenone natalizio.


Per fortuna mio fratello Pietro recuperò l’oca in un angolo del cortile, un po' lacerata dalle sue unghie, ma ancora in carne e così il nostro cenone ebbe inizio tra i mugugni della nonna e il «magone» della mamma.


Che nottata fu quella! La paura della guerra, sommata al dispiacere della mamma, mi tolse la gioia della festa.
Ma si sa, noi bambini facciamo presto a perdonare e grande fu il mio stupore quando, due settimane più tardi, una domenica, in tavola, oltre alla solita polenta c’era un fumante e profumatissimo coniglio arrosto che divorai con gusto.


Alcuni anni più tardi, ricordando con i miei fratelli quell'episodio, mi meravigliai molto di certi loro ironici sorrisi e quando volli conoscerne il motivo, intuii con dolore che forse la «rapitrice» della nostra oca era stata punita e il pranzo natalizio riscattato… Ad ogni modo preferii non fare domande e restare con il dubbio.




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Opera scritta il 16/12/2015 - 05:04
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Commenti


Molto bello il tuo racconto!
Ci hai fatto assaporare la fatica, la paura e la fame che a quei tempi succhiava le forze e l'anima.
Ci hai fatti entrare a casa tua e siamo stati testimoni delle situazioni da te ben descritte, ma ho l'impressione che per la gatta senza nome fosse sempre Natale...fino ad un certo punto!
Bravo!

Millina Spina 16/12/2015 - 11:52

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Bigazzi lo ha detto in TV, i gatti, durante la guerra, facevano una brutta fine. D'altra parte sono soprannominati "lepri di tegole"...

Glauco Ballantini 16/12/2015 - 09:07

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