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Inverno a Calaone

Era una fredda domenica di febbraio. Nevicava con insistenza già da qualche giorno. L’aria rigida e secca aveva fatto aderire ancora di più la neve al suolo. Tutto era coperto da un candido manto, tutto sembrava magico e irreale. Un paesaggio incantato e fiabesco mi portava alla memoria vecchie storie di una lontana fanciullezza in cui gnomi, fate, streghe e animali immaginari, popolavano i sogni di notti fantasiose. Il cielo plumbeo e uniforme continuava a mulinare neve che scendeva leggera, impalpabile, posandosi silenziosa su tutto ciò che incontrava, cambiandone completamente l’aspetto. Un’atmosfera ovattata attutiva ogni tipo di suono. Sembrava di stare all’interno di una sfera di vetro, dove argentei cristalli, ad ogni oscillazione, prendevano vita trasformandosi in soffice neve che, lentamente, avvolgeva il paesaggio.“ Se continua così - pensai tra me - mi toccherà prendere la pala per uscire dal portone!”.Giravo per casa, nervosamente. Ogni tanto, guardavo fuori, con la speranza che smettesse di nevicare. Avevo voglia di uscire, di evadere da quelle mura che mi angosciavano. Allora, mi venne in mente una frase che dissi ad Anna, mia moglie, l’estate prima in una delle nostre tranquille camminate sui colli: “ Quest'inverno,se ci sarà neve, mi piacerebbe andare a Calaone e vedere come indossa l'abito bianco!”. Colsi la palla al balzo e, senza esitare,decisi che nel pomeriggio mi sarei organizzato per la partenza. Nel frattempo mi accorsi che una nuova luce, entrava dalla finestra. Mi precipitai a vedere. Fuori aveva finalmente smesso di nevicare. Nel cielo, prima grigio e piatto, si erano formati ampi squarci d’azzurro con qualche raggio di sole che a fatica filtrava tra le nuvole. Fui colto da un’inconscia frenesia e i solenni rintocchi di mezzogiorno, accelerarono ancor di più la ritrovata voglia di partire. Preparai un pranzo veloce. Terminato il fugace pasto, corsi a prepararmi un po’ di cose che misi alla rinfusa dentro lo zaino. Presi l’inseparabile macchina fotografica, testimone e complice delle mie emozioni e uscii. Fuori, tutto era un riverbero. Ogni cosa rifletteva di luce propria. In una zona dove la neve era più abbondante, un gruppo di ragazzini giocava a lanciarsi palle di neve, rincorrendosi con tale foga da farsi venire le facce paonazze e alla fine, stremati, si lasciavano cadere, rotolandosi felici sul soffice biancore. Altri, invece, cercavano di realizzare un pupazzo che immediatamente era preso d’assalto e demolito dai soliti dispettosi che, fra risate e grida, se la davano a gambe. Mi avvicinai alla macchina e, dopo essermi accorto che strade e marciapiedi, lentamente, si scrollavano di dosso quella coltre di ghiaccio che fin prima li attanagliava, partii. Percorsi qualche chilometro e, in breve tempo, giunsi in prossimità dei colli. Erano lì che mi aspettavano, immersi in un ambiente naturale di straordinaria bellezza, vestiti a festa con il loro mantello bianco, elevandosi come bastioni a dominare una pianura ammantata di un argenteo candore, che uniformava ogni forma di vegetazione. Dove invece la neve scarseggiava, uscivano timide dai campi appena arati le zolle di terra appena dissodate e preparate a un futuro raccolto. Ora, come avvolte da una coperta, si preparavano per un lungo sonno. Mentre mi avvicinavo alla meta, puntini fluorescenti, brillavano ai raggi obliqui del sole accompagnando, come tanti piccoli cristalli, il mio viaggio. Arrivai ad Este. Seguii l’indicazione per Calaone e iniziai i panoramici tornanti che portavano al paese. Mi fermai a uno di questi. Parcheggiai la macchina in una vicina piazzola. Volevo osservare dall’alto, come si presentava il paesaggio. Sobbalzai. Una vista mozzafiato evocava uno scenario quasi fiabesco che si apriva su tutta la pianura. Era come immergersi nelle malinconiche atmosfere di un dipinto di Monet: tinte delicate e armoniche si miscelavano all’orizzonte con la carta zucchero del cielo. Le case erano macchie di colore appena accennato mentre i rami secchi e spogli degli alberi, si innalzavano verso il cielo come le dita di una vecchia megera addolcendosi a tratti con leggere pennellate di bianco. I campi erano un tocco continuo di bianchi e grigi-azzurri con qualche macchia di marrone e ocra, a testimoniare la presenza della terra. E tutto questo andava a fondersi con un azzurro inizialmente velato che aumentava di densità, man mano che l’occhio innalzava lo sguardo. Respirai a fondo quell’attimo. Un alito di fiato uscì dalle mie labbra e si fece fumo perdendosi con tutte le sue emozioni, nell’aria fredda dell’inverno. Ripresi a salire lasciandomi alle spalle poetiche vedute. Feci gli ultimi tornanti ed ecco, arroccata in un silenzioso candore, Calaone. La immaginavo proprio così, come un caro amico che ti accoglie a braccia aperte stringendoti fraternamente a sé, felice del tuo arrivo e impaziente di raccontarti, vicino a un vivace focolare, vecchie storie di lontana memoria. Parcheggiai nel piazzale della chiesa di S. Giustina, resa ancora più bella dai raggi tiepidi del sole che le baciavano la facciata. Al suo fianco, il campanile fiero e imponente le faceva da scudiero. Mi addentrai tra i vicoli, timoroso di disturbare l’intima pace che regnava in quel luogo. Si udiva soltanto il rumore dei miei passi affondare nel bianco tappeto e le scure tracce che lasciavo, testimoniavano la presenza della mia solitudine. Passai vicino ad alcune case e in una di queste, vi erano alcuni olivi che, stoici e sempreverdi, resistevano come tanti soldatini, alla morsa del freddo. Sui lunghi rami nodosi, una spessa scia di bianco, ornava il loro profilo e tante piccole ciocche, posatesi qua e là, facevano sembrare le foglie soffici batuffoli di cotone. Ai loro piedi, uno strato uniforme di bianco, faceva intravedere qualche ciuffetto d’erba e, poco distante, risaltava la sagoma di un gattino che, intimorito forse dalla mia presenza, si raggomitolava addosso a un tronco come se cercasse, in esso, calore e protezione. Continuai a camminare, ascoltando il mio respiro in perfetta sintonia con l’ambiente che mi circondava. Le ombre lunghe che il mio corpo proiettava sulla neve erano il segnale che tra un po’ il sole si sarebbe appisolato dietro le colline, sfumando la viva luce del giorno e alzando il velo scuro della sera. Presi una stradina che tagliava in due una coltivazione di olivi, incorniciata ai lati da siepi di rosmarino. Da una parte svettava con la sua conca di trachite il Monte Cero, dall’altra, oltrepassato il campo, si poteva godere di una bellissima visuale sulla splendida pianura sottostante la cui luce cominciava a miscelarsi con le tinte offuscate dell’orizzonte. In un avvallamento poco innevato, vicino a una zona boscosa di robinia e castagneti, affusolati tronchi ben sistemati e accatastati formavano una specie di piramide ricoperta da un soffice strato di zucchero filato. Approfittai di quella muraglia di legno, per ripararmi dalle gelide folate di vento che mettevano a dura prova la sensibilità del mio corpo. Disseminati qua e là blocchi di tronchi, tagliati dai forti denti della motosega, sbucavano da sotto la neve. Mi sedetti su uno di questi. Guardai con meraviglia, il lento calare del sole che tingeva il cielo di rosei colori. Quell’atmosfera così quieta e serena mi mise addosso una strana malinconia. Flash di vita tirati fuori da chissà quale polveroso deposito del mio passato, scorrevano via veloci come la pellicola di un film. Dalle lontane coltivazioni una spirale di fumo si levava alta nel cielo e si spandeva rapidamente nell’aria posandosi leggera su orti e vigneti, sbiadendo ogni cosa e portandomi di sé un odore acre. Il sole continuava a scendere, scomparendo lentamente, dietro la linea sfumata dell’orizzonte. Il cielo si rinforzava di rossi, di arancioni, di gialli, fino ad arrivare alle tonalità del rosa e del violetto e tutte insieme si univano, in un solo abbraccio, ai toni crescenti dell’azzurro. Prima di congedarsi ed entrare nel ventre della terra, l’abbagliante sfera gialla aveva voluto regalarmi, nel suo ultimo spettacolo, un magico tramonto che mi pervase il cuore.Non avrei più voluto staccare gli occhi da tanta meraviglia,ma il freddo iniziava a pungere e a penetrarmi nelle ossa. Guardai, in un breve scorrere, le foto che avevo scattato durante il percorso. Mi alzai e nella quasi oscurità, mi avviai verso la macchina.Le fioche luci dei lampioni accompagnavano i miei passi in un distendersi irreale di bianco che dava al luogo, un tocco di sacrale misticismo. Sembrava di stare dentro a un presepe o in uno dei tanti paesaggi invernali di Pieter Bruegel. Dal cortile di una vicina casa, arrivavano le grida gioiose di bambini che giocavano a rincorrersi, tenendo fra le mani grosse palle di neve. Più avanti, un vecchio spalava a colpi di vanga il marciapiede, liberandolo dal soffice manto affinché la gente, nel transitare, non scivolasse. Il suo respiro, reso affannoso dalla fatica, provocava intorno a sé un’aureola di vapore che, alzandosi, andava a perdersi tra i rami degli alberi. Su un muretto, all’angolo di una via dove la strada procedeva in ripida salita, era seduto un ragazzino intento a bere del tè fumante. Ogni tanto ci soffiava sopra espandendo il dolce profumo nella brezza gelida della sera. Giunto nei pressi di una casa,il mio sguardo si posò sul volto di un bimbo che sui vetri appannati della finestra, si divertiva a scarabocchiare la liscia superficie con giochi di segni come se stesse disegnando su un foglio d’album. Arrivai al piazzale della chiesa dove echeggiavano dolci litanie: era l’ora della funzione serale. Capii allora che dovevo muovermi. Mi avvicinai alla macchina e nell’aprire la porta, respirai un’altra volta quell’aria che sapeva d’incenso. Tornando indietro per le strette vie del paese mi piaceva immaginare la gente del posto rintanata nel caotico brusio di un bar o di un’osteria, ad addolcirsi la vita in compagnia di un bicchiere di vino, immersa nel fumo di mille sigarette; o nelle proprie case, al morbido danzare di una fiamma che riflette di luce viva i vetri opacizzati delle finestre riscaldando, nella magica oscurità della sera, i sogni e le speranze di ciascuno. E pian piano si fa notte. Nel tiepido focolare si assopisce il crepitio delle braci e i camini addormentati emanano l’ultimo filo di fumo nel cielo stellato di febbraio.



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Opera scritta il 14/08/2014 - 17:50
Da Massimo Guercini
Letta n.1342 volte.
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Commenti


Grazie mille!!

Massimo Guercini 17/08/2014 - 00:27

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Magia, si sa, è la neve...magia la natura...E tanto altro della vita per chi sappia coglierlo...Magia il contemplare, unendo agli sguardi penetranti sensazioni, sentimenti, ricordi...In questo racconto, che sembrava tu non riuscissi mai a chiudere, talmente tanto eri coinvolto, tutto ciò hai reso con straordinaria maestria. BRAVISSIMO!

Vera Lezzi 16/08/2014 - 11:18

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