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El Bruno sen và in città

Aveva raggiunto il limite. Prese il giaccone dal vecchio attaccapanni, i
guanti, il cappello e indossando il tutto in maniera disordinata e frettolosa
sbatte la porta di casa. Respirò l’aria umida e fredda che l’inverno aveva disteso
sui campi, come un velo impenetrabile dai raggi del sole.
Lo sguardo si disperse sulle colline abitate dagli sparuti vigneti. I rami, nodosi,
attendevano con pazienza la potatura.
Anch’egli sentì il bisogno della soppressione dal lordume che la vita gli
aveva, suo malgrado, donato.
Strinse il mazzo di chiavi nella mano callosa, la riaprì per guardarle un ultima
volta, quasi a salutarle. Il lancio fu preciso, al centro del corso d’acqua,
gonfio delle piogge dei giorni trascorsi.
Il sentiero, tra i campi, con i suoi canali scavati dai trattori, ormai ricordi di
un autunno laborioso, gli argini di acciottolati ai lati del torrente, fatiche di
un’estate calda e promettente,
si seppellivano, ad ogni passo, sotto una coltre infinita di rabbia.
Camminava col bastone in spalla ed un fagotto legato ad una estremità
contenente tutto il suo futuro.
Oltrepassò le corti, abbandonate da tempo. L’aia che aveva accompagnato
la sua crescita nei giochi adolescenziali non gli inebriava più ricordi. L’aria
di feste danzanti di tante mietiture erano effluvi scomparsi per sempre.
Tutto dava la sensazione di una pagina letta e girata, ogni passo cancellava
un rigo dal libro che inesorabilmente sarebbe tornato bianco. Era esattamente
ciò che Bruno anelava, il bianco mentale.


Aveva più volte pensato al suicidio ed aveva anche studiato come impiccarsi
attaccato alla carrucola che usava per attingere acqua dal pozzo, ma
aveva un terrore irrefrenabile della morte.
Non tanto per l’atto, di per se violento ma breve, bensì lo spaventava il
buio nell'aldilà.
L’impossibilità di vedere la natura che cresce e si riproduce intorno a lui, il
sole all’alba che lo sveglia con i suoi raggi, sfiorandogli la faccia, con il suo calore,
come piccole carezze di un neonato. Rincorrere d’estate le lepri tra i filari
di grano sapendo che mai le potrà raggiungere,sdraiarsi sull’erba, all’ombra
dei platani, dissetarsi dal pozzo con l’acqua gelata, ascoltare il canto degli uccelli,
fare il verso al tacchino come da bambino, sorridere a crepapelle senza
motivo, senza compagnia, senza.
La strada saliva e scendeva, attraversò la vecchia ferrovia. Si fermò su di
un binario con i piedi per ghermire un eventuale lontano tremore, ma nessun
treno passava da lì da più di venti anni.
Si girò, guardò la fattoria compagna da sempre, chiuse l’ultima pagina
del suo libro bianco, lo bruciò nella mente, oltrepassò i binari, calò la vecchia
sbarra del passaggio a livello e s’incamminò fischiettando. Era un motivo, tornatogli
in mente, che cantavano le mondine alle feste della vendemmia, “ El
Bruno s’en va in città”.
Le colline fiancheggiavano la strada stringendola in strette curve che Bruno
avrebbe potuto tagliare per i campi incolti ma la mancanza di una meta
non gli imponeva fretta. Il suo sguardo era oramai dritto avanti a se, la strada
era il filo logico da seguire. Arrivo' al bivio che immetteva nel paese. Un vecchio
cane gli si avvicinò, annusandolo mosse la coda, quasi l’avesse accettato,
e tornò velocemente all’ombra di una vecchia tettoia. Il paese si inerpicava su


di un colle, le case avevano l'aspetto di un'era passata, le prime persone che
incontrò lo rallegrarono con il loro fare gioioso. Entrò nella vecchia taverna
che esponeva il cartello "vini da Rolando", ordinò un quarto di rosso e si sedette
all'esterno, sulla stretta via, il passaggio delle persone lo attirava. Aveva
vissuto troppo a lungo isolato nelle campagne, adesso provava il piacere della
compagnia dei suoi simili. Gli era sufficiente vederli indaffarati nelle loro attività
per farlo sentire vivo.
D’un tratto il suo corpo iniziò a tremare, sempre con maggior violenza, le
sedie si sollevarono da terra e così il tavolino, le insegne del vinaio furono assorbite
da un vortice così come il sentiero su cui si era incamminato ed il paese
tutto fu assorbito in una gigantesca spirale al centro della quale si intravedeva
un punto bianco.
Poi il vortice iniziò a girare alla rovescia, decuplicando tutti gli oggetti che
incontrava, coprendoli di bianco, colore che dal centro si dilatava a dismisura,
un lampo immenso di luce, poi un’altro.
“Bruno svegliati, sono le quattro ore astrale, aggiornare giornale di bordo,
comunicare posizione stellare, verificare eventuale presenza asteroidi.”
“ Ricevuto Star 43, astronauta Bruno conferma.”
Lo spettacolo astrale che faceva da corolla all’astronave avrebbe creato
un’effetto placebo anche alle menti più contorte, ma Bruno eseguiva ogni
mossa con l’enfasi di un automa.
Il viaggio era iniziato da sei mesi e Marte era ancora lontano, ma lontano
era anche la sua fattoria che ogni notte gli ricordava le sue origini contadine,
lontano erano le feste di paese dove aveva conosciuto la moglie Miriam, lontane
erano le mucche della stalla pronte ad essere munte dal buon latte.


I controlli non indicavano anomalie e la trasmissione con il centro spaziale
terrestre dava conferma per rotta e tempi nella norma.
Era il momento di riprendere sonno, era il momento di tornare ad essere
il contadino che un giorno i genitori avevano mandato a studiare lontano con
estremo sacrificio per offrirgli un futuro migliore del suo, un futuro dove i loro
sogni di avere un figlio astronauta si erano avverati.
Adesso Bruno desiderava solo che un giorno, non molto lontano, il suo
sogno di fare l’allevatore ed il coltivatore si sarebbe finalmente avverato. Si
sdraiò sulla poltrona ed il computer iniettò le sostanze che lo accompagnarono
nel sonno per altri sei lunghi mesi.




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Racconto scritto il 21/08/2015 - 14:22
Da paolo signorini
Letta n.1126 volte.
Voto:
su 15 votanti


Commenti


Letto veramente con grande piacere, un finale a sorpresa ed imprevedibile. Sono i racconti che mi piacciono di più. Bravissimo Gabriele.

Anna Rossi 22/08/2015 - 05:48

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