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Il mio gigante buono

Che dire di te, il mio gigante buono.
Quando il lavoro non ti portava via riempivo i miei occhi della tua presenza.
Ti gironzolavo intorno felice, cercando una tua carezza. Ero affascinata dalle righe che avevi sulla fronte, e quando facevi qualche lavoretto in giardino, mi piaceva guardare quelle righe riempirsi di tante goccioline luccicanti.
Rimanevo estasiata a guardarle e le seguivo con lo sguardo fino a quando lentamente scendevano giù, e la terra assetata te le rubava.
Eri un uomo bello e forte, temprato dal duro lavoro di miniera, non avevi bisogno del mio aiuto, eppure intuivo, che non ti disturbava la mia presenza.
Mi rendevi partecipe della tua fatica spiegandomi ciò che facevi.
Io a dire il vero non capivo molto, ma ti ascoltavo con interesse e tu mi sorridevi teneramente.
Ero talmente innamorata di te che pur di starti vicina, avevo fatta mia la tua passione”il pugilato” e tante notti pur di non lasciarti solo, stavo con te davanti al televisore a seguire l’incontro. Un’altra tua grande passione era la poesia e devo dire che questo amore, questa tua sensibilità credo di averla ereditata anche io. Sedevo accanto a te e ti ascoltavo rapita. Diventavi molto poetico specialmente dopo aver bevuto un bicchierino di troppo, a dire il vero non reggevi molto bene l’alcool, ma in quei momenti non eri mai cattivo, anzi ti lasciavi andare a decantare in rima il tuo immenso amore per “Teresina del mio cuore” così chiamavi la mamma. Lei non ti rimproverava mai, almeno non in mia presenza. Ti lasciava dire, mentre amorevolmente ti accompagnava a letto e ti rimboccava le coperte, come si fa con un bimbo. Gli anni passavano, io crescevo. Avevo quindici anni quando mi innamorai di un amore forte e bello che ha resistito al tempo. Tu non ostacolasti mai quel giovane amore che nasceva e nei momenti in cui mi vedevi triste, perché per lavoro il mio lui era lontano: per distrarmi recitavi alcune poesie. Le improvvisavi così, al momento, e sembrava proprio che mi leggessi dentro. Due poesie che ritengo molto significative e belle le conservo ancora gelosamente. Ogni tanto nei momenti di fragilità le tiro fuori dal cassetto, mentre le leggo sento l’animo divenire leggero, perché so che mi sei accanto oggi, come allora.
Avevo diciassette anni quando ti ammalasti, tu solo sessanta. Inizialmente quando la mamma mi parlò del tuo male, non ne capii la gravità. Avevo un’età in cui ci si affaccia alla vita, ero spensierata, innamorata, tu eri una roccia, la morte non poteva sfiorarti, non a te. La mia mente rifiutava quella idea, ma i miei occhi non potevano non vedere, il mio cuore non poteva non sanguinare, vedere e vivere la tua sofferenza era un continuo strazio, il mio gigante buono diveniva ai miei occhi ogni giorno più piccolo. La malattia ti consumava, ma i tuoi bellissimi occhi nocciola, seppur affossati, conservavano tutta la loro fierezza. Mai un lamento in mia presenza, eppure ti scrutavo, alcune volte ti spiavo. Quando eri convinto di essere solo, ti lasciavi andare alla sofferenza e piangevi tutto il tuo dolore. Ripresi a gironzolarti intorno come facevo da piccola, ti tenevo d’occhio pronta ad accorrere in tuo aiuto, oramai eri diventato fragile, tutto pelle e ossa, ma io ti davo il braccio e ti facevo fare delle piccole passeggiate, lungo il corridoio. C’erano giorni in cui il dolore sembrava volesse darti un po’di tregua, allora una piccola fiammella di speranza si accendeva nei nostri cuori. La mamma non ti disse mai, il nome della tua malattia; quasi a volerla scongiurare, e tu non domandasti mai nulla. Era come se tra di voi ci fosse un tacito accordo, eppure la parola cancro non faceva che rimbombarmi nella mente. Ci fu un giorno in cui chiedesti alla mamma di chiamare il sacerdote e con la famiglia riunita domandasti la benedizione prima per noi, poi per te. Un altro giorno esprimesti il desiderio di mangiare in compagnia di tutta la famiglia, era da tanto tempo che non ti alzavi dal letto e chiedesti ti venisse cucinata la carne di coniglio. Fu per noi tutti, una richiesta alquanto strana, a te non era mai piaciuto il coniglio. Da lì a due giorni la malattia andò peggiorando e noi, i tuoi sette figli e la tua tanto amata Teresina, ci stringemmo accanto a te in un ultimo forte abbraccio.
Il distacco dalla persona amata non è mai facile, eppure per un attimo, giusto il tempo di salutare ognuno di noi, ognuno con una frase diversa, perché diversi eravamo. Per un attimo mentre mi salutavi dicendomi: <<arrivederci figlia mia.>> In quel breve attimo, ho rivisto tutta la tua grandezza, tutta la tua fierezza. Tu mi lasciavi non con un addio, ma con una frase di speranza, una frase che ha dato un senso a tutta la mia vita, perché ieri come oggi so, che un giorno riabbraccerò, il mio tanto amato gigante buono:- Arrivederci babbo, ti voglio bene .



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Racconto scritto il 06/08/2012 - 14:32
Da Claretta Frau
Letta n.1576 volte.
Voto:
su 7 votanti


Commenti


mi ha emozionata tanto..

Sofia V 14/04/2013 - 15:46

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Rievocare il ricordo di un genitore è sempre splendida prova di maturazione nella interpretazione del proprio sentire. Emozionante racconto nostalgico.

Gianmarco Dosselli 14/04/2013 - 13:30

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Mirella ti ringrazio per le belle parole anche perché non è da tanto che ho trovato il coraggio di rendere partecipi gli altri di ciò che ho sempre conservato gelosamente nel cuore.ciao un abbraccio

Claretta Frau 04/09/2012 - 15:10

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Claretta, è bellissima il tuo ricordo di figlia l'hai espresso in maniera sublime,bravissima. Complimenti per la vittoria meritatissima.Ciao un bacio

Mirella Narducci 04/09/2012 - 13:57

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E' vero e stato difficile scrivere questa storia sopratutto perchè è la mia storia. La storia di un padre meraviglioso che ha seminato e raccolto amore, non solo dai suoi figli ma anche da chi ha avuto la fortuna di conoscerlo. Un brava non a me ma all'uomo di cui ho avuto la fortuna di essera figlia. grazie.

Claretta Frau 22/08/2012 - 17:40

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Ma, se possibile, ancora più triste è il ricordo del Gigante buono che, conscio della sua prossima fine, chiama a se i suoi cari per un “ arrivederci ”. A questo punto, alla tristezza potrebbe aggiungersi il rimorso per non avere, magari, capito in tempo il travaglio interiore dell’Uomo buono. E’ un racconto che tocca i cuori e che, purtroppo, per tanti si ripete ogni giorno.
Mi sia consentito un bravo all’Autrice per l’eccellente esposizione.
Con simpatia.

nello maruca 22/08/2012 - 16:18

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Che racconto! Che strazio! Rivivere il consumarsi della vita di chi si è voluto e si vuole ancora bene, rivivere i giorni della sua implacabile penitenza, rivedere l’Uomo grande soggiacere ai rigori della tempestosa malattia, sentire i suoi dolorosi lamenti quanto si pensa solo, rivedere con gli occhi della mente quell’Uomo affaticarsi nei suoi lavori, ricordare il sudore della sua rugosa fronte che lentamente gocciola assorbito dall’arsa terra, sono certamente ricordi che segnano l’animo.

nello maruca 22/08/2012 - 16:17

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