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Il segreto del successo

«Io non vorrei che questo disagio risvegliato in me dal reiterare ciò che è condannato dalla legge di Dio e degli uomini rendesse più fragile la mia determinazione: in verità nulla di ciò che si compie è giusto o sbagliato ma è il pensiero che lo guida a renderlo tale.» Così andava ragionando la persona incappucciata che, uscita da una casa in Bishop Gate, s’incamminava a passo rapido stando il più accosto possibile ai muri della chiesa di St. Helens.
Sulla quarantina, dal portamento eretto e agile, quell'uomo possedeva un volto particolare, dove una rada barba grigia e un’alta stempiatura che si spingeva sino al sommo del capo parevano espedienti studiati sapientemente per mettere in risalto lo sguardo intelligente e curioso. Ma esibire quel viso ed essere riconosciuto era quanto di più lontano dai suoi desideri, per questa ragione aveva atteso l'oscurità e accolto come un dono gradito la nebbia che, risalita dal Tamigi, rendeva la sua invisibilità quasi perfetta nonostante il plenilunio.
Sempre di buon passo, si diresse un tratto verso ovest, oltrepassò la chiesa di San Paolo per poi svoltare a sud, attraversando la zona che un tempo ospitava il monastero dei Blackfriars e, scesi alcuni scalini, si arrestò infine sulla riva del fiume.
Qui l’uomo emise due fischi modulati, evidentemente un segnale. Infatti, la luce di una lanterna venne fatta dondolare poco distante, dove una piccola imbarcazione era accostata all’attracco. Senza una parola l’incappucciato vi prese posto e il barcaiolo iniziò a vogare prendendo subito il filo della corrente.
«Solito posto, mio signore?»
«Solito posto, e stai attento che all’approdo non vi sia alcuno.»
«Non dubitate, con questa serata da streghe e spiriti malvagi la gente se ne sta rintanata nelle case oppure a bere birra nelle taverne.»
L’incappucciato trasalì a queste parole. Possibile che il barcaiolo sapesse più di quanto doveva? Poi scrollò le spalle: il popolino era superstizioso e molte leggende circolavano, sussurrate di bocca in bocca. L’importante era che non ci fosse gente per le strade: il suo volto era familiare in tutta Londra, e non solo tra il popolino.
Il suo scopo e la sua meta dovevano restare assolutamente segreti. Per questa ragione doveva affidarsi al barcaiolo: attraversare il Bridge era fuori discussione, più che il rischio vi era la certezza di incappare nella ronda e dover fornire spiegazioni.
L’uomo alla voga interruppe il filo dei suoi pensieri.
«Signore, che notizie avete della Regina? E’ così malata come si dice?»
La Regina Elisabetta, che lo aveva onorato del suo favore, che aveva voluto le fosse presentato, e al primo incontro ne erano seguiti altri. La Regina dalla grande intelligenza, dall’acuto senso critico e dal grande sapere, tutte cose che lo avevano dapprima piacevolmente stupito e poi pervaso di un profondo senso di rispetto, ricordò con tristezza l’incappucciato.
«Sì, mio buon Harry, ella forse ci dovrà abbandonare presto e si preparano tempi difficili, non avere eredi lascia i Tudor senza un successore, temo che molti pretendenti si faranno avanti non senza spargimento di sangue.»
«E’ triste ciò che dite, mio signore. Sentiremo molto la mancanza della buona regina Bess.»
Senza più domande, Harry governò in modo da scendere il fiume tagliando nello stesso tempo verso la riva opposta e, lasciandosi andare a qualche imprecazione per la difficoltà di trovare i riferimenti nella nebbia, prese infine terra a South Wark, non lontano dal Globe, il nuvo teatro.
«Attendi qui, tornerò prima del chiarire dell’alba, ma se non mi vedessi ancora al battere delle sette, va via e dimentica di avermi visto.»
«Che il Cielo vi sia propizio, mio signore.»
«Non è nelle stelle che è conservato il nostro destino, ma in noi stessi, ricordalo sempre mio buon Harry. Ma, comunque grazie.»
Il passeggero non aveva dubbi, il barcaiolo era un uomo fedele e lo avrebbe atteso, e poi la ricompensa era generosa, come le altre volte.
Presa la lanterna, s’incamminò lungo una stradina che dal fiume, evitando il Globe e la fila di casupole che si affollava sulla riva, pareva perdersi nella campagna. Era evidente che conoscesse la via, tanto era sicuro il passo pure alla scarsa luce della lanterna.
In pochi minuti arrivò a un’alta siepe di tasso che racchiudeva uno spazio incolto e un’abitazione fatiscente. Strani arbusti contorti e privi di foglie gareggiavano con i rami adunchi di un’antica quercia a rendere spettrale l’angusto sentiero che conduceva alla porta della casa.
Un lume acceso e il battente semiaperto stavano a indicare che l’ospite non giungeva inaspettato.
Senza esitare l’uomo varcò la soglia e si ritrovò in un ambiente illuminato soltanto da un camino acceso. Tre figure, avvolte in panni lerci e rattoppati, erano intente a una discussione con toni da cantilena:
«Dove sei stata, sorella?»
«Ad ammazzare porci.»
«E tu sorella, dove?»
«La moglie di un marinaio aveva nel grembiale delle castagne e biascicava, e biascicava: "Dammene un po' ", faccio io. "Fatti in là, strega!" grida quella rognosa cibata di frattaglie. E allora… ma il nostro ospite è arrivato, sorelle, su, che non ci paga generosamente per udire i nostri discorsi da vecchie.»
«No, no» disse l’uomo che nel frattempo, liberatosi del mantello, si era seduto su di uno sgabello sgangherato «il vostro parlare è interessante, mai arriverei a immaginarlo dovessi io scriverlo dal nulla.»
«Vossignoria è sempre molto buono con noi» rispose untuosamente la donna che aveva parlato per prima, e così facendo voltò il viso verso l’uomo che, pur avendolo già veduto, non seppe trattenere una piccola smorfia di disgusto per quel volto oscenamente grinzoso e quasi barbuto, tanta e tanto fitta era la peluria giallastra che ne ricopriva labbra e mento.
La vecchia parlava anche in nome delle altre, quasi bisbigliando:
«La luna è piena e tutto è preparato secondo la vostra richiesta, ma né il cielo, che sia maledetto, né la profondità dove regnano fiamme e tormenti, possono assicurare che avverrà ciò che volete che avvenga.»
«Ben lo so, non abbiate preoccupazione, che il vostro compenso è garantito in ogni caso, tranne quello in cui le fiamme dell’inferno ghermiscano pure me.»
«Siate prudente e parlate solo quando ne avrete il nostro permesso, senza mai offendere e soprattutto senza nominare o invocare il cielo né i santi o altri che non sia colui che verrà. In questo caso tutto andrà per il meglio.»
«Molto bene, sarò prudente, ma ora è tempo di iniziare. Dal passato ho capito che l’evocare gli spettri, specialmente quando se n’invoca uno in particolare, è cosa che non si compie senza attese e inganni.»
E molto tempo passò infatti, durante il quale le tre megere, liberatesi dai vestiti, a tratti danzavano urlando parole incomprensibili, in altri momenti si gettavano a terra distese, mormorando oscene cantilene; più volte orrende forme presero corpo nella cappa del camino, scheletri ghignanti ancora riempiti di visceri, corpi mutilati e corrotti, ectoplasmi a contorcersi sopra le fiamme sfrigolanti, ma furono tutti respinti e dissolti da gesti e grida delle celebranti quel rito demoniaco.
L’uomo, apparentemente calmo ma intimamente atterrito, assisteva in silenzio dall’angolo più distante, sino a quando apparve una forma completamente umana tranne per la mancanza quasi totale del naso. Era senz’altro colui che era atteso: si sapeva come avesse perduto il naso per un colpo di spada nel corso di un duello e in vita portasse una protesi d’oro, certo rimasta nel sepolcro assieme ai suoi resti mortali.
«Ora potete parlare, ma rammentate ciò che vi abbiamo detto» sussurrò una delle streghe.
L’uomo si fece avanti, cercando con tutta l’arte di cui era in possesso di celare l’emozione e la paura.
«Siete voi quel Tycho Brahe che scrutando il cielo da Uraniborg, nel regno di Danimarca, svelò tanti misteri del cosmo sino a quando perì di malattia subitanea non più di un anno orsono?»
«Sì, io fui quell’uomo di scienza, acclamato e onorato nel regno di Danimarca e non solo, e ora condannato a errare nella notte per molto tempo fin che siano purgati i peccati da me commessi in terra. Ebbi nel mio letto centinaia di donne lascive, ira, gola e superbia furono altri miei peccati. Ma a portarmi anzitempo tra le fiamme degli inferi non fu la malattia.»
«Questo è il mormorio che, varcando il mare, giunse sin qui ed essendo io in procinto di scrivere del regno di Danimarca, mi spinse a evocarvi. Si è affermato che voi foste colpito da ferale malore al termine di un grande banchetto, dove vi fu esagerazione da parte vostra nell’onorare cibi e bevande. Non fu così?»
«Dunque ascolta! Se mai pietà alberga nel tuo cuore, tu devi rendere noto a tutti il mio assassinio!»
«Assassinio? Allora non fu una morte naturale la vostra, seppure improvvisa e dolorosa?»
«Turpe assassinio, qual è in ogni caso anche il più giusto; ma questo fu di tutti il più nefando, il più mostruoso e il più innaturale.»
«Ditemi tutto, affrettatevi che l’alba s’avvicina.»
«Ascolta, è voce generale ch'io sia morto per quel terribile malore mentre dormivo nel giardino: è così che gli orecchi dei Danesi e del mondo tutto sono stati ingannati da una falsa versione dell'evento. Sappi, invece, che mano assassina fu quella di mio cugino Erik, ma colui che lo mandò a togliermi la vita fu mio figlio!»
«Vostro figlio? Ma è mostruoso!»
«Ancora più mostruoso ti apparirà quando saprai che il figlio dannato in eterno per questo delitto è colui che regge lo scettro di Danimarca e ignobilmente si chiama Cristiano, quarto del suo nome.»
«Ma come potete voi, uomo di scienza, aver per figlio un monarca regnante?»
«Oh, è facile. Quell'adultera bestia lasciva che fu moglie del precedente sovrano, con me giacque più volte e insieme generammo quel mostro che mai fu rinnegato e divenne il principe erede al trono di Danimarca. Una volta divenuto re e reso edotto da un cortigiano delle sue vere origini, egli prese a odiarmi nel timore assurdo che io un giorno potessi rivelare la verità, causando così la mia e la sua rovina.»
«Io non posso che credervi, può mai uno spettro dannato mentire? Quel regno è dunque corrotto ancor più di quanto io avessi immaginato. Ma dite, se la cosa non vi causa troppo dolore, come avvenne la vostra uccisione? Fu davvero cosa tanto abile da trarre tutti in inganno?»
«Abile e vile. Già conosci che il giorno della mia morte io partecipai a un convivio, ma si trattò di qualcosa di più. Gola e lussuria furono i peccati che commettemmo, per il troppo cibo servito e per due femmine discinte che iniziarono a toccarsi tra loro il seno, e poi altro ancora. E come le cagne in calore aizzano i maschi a gettarsi su di loro, così fecero quelle peccatrici che infine si concessero senza vergogna alle voglie di ciascun commensale.»
«Fu dunque un’orgia degna più di Babilonia che della cristiana Danimarca?»
«Così fu, per la dannazione dell’anima mia. Avvenne che dopo aver gustato i cibi, essermi abbandonato all’allegrezza portata dalle libagioni ed essermi preso il piacere che una di quelle femmine mi offriva, provato dal vino e dalle fatiche dell’amore io mi ritirai nei miei appartamenti. Tu forse conosci quella sensazione, quando la casa con saggezza sembra abbia approfittato dei tuoi momenti d’euforia per prepararsi a riceverti nel più accogliente dei modi. Così, mollemente cullato dalla mia illusione di sicurezza e riposo, mi addormentai nel giardino; e in quel sonno mi sorprese l’uccisore, con una fiala piena d'infame succo di quisquiano, e dentro il padiglione dell'orecchio mi versò quella lebbra distillata d'effetto sì nemico al sangue umano da serpeggiare come argento vivo e far che il sangue si rapprenda, come in latte aceto a gocce.
Così fui spogliato della mia vita, falciato senza comunione, senza poter contrire l’anima mia, spedito a rendere il mio conto a Dio col fardello di tutti i miei peccati.»
«Orribile! Tremendamente orribile!»
«Se conservi in te natura d'uomo, non consentire che il regno di Danimarca resti impunito. Rendi noto al mondo quale nido di lussuria, incesti ed assassini siano le mura di Elsinore.
Ma sento già il respiro del mattino, è forza ch'io ti lasci... Addio.»
Il fuoco nel camino si spense sfrigolando come se qualcuno vi avesse gettato un secchio d’acqua, lasciando la stanza nell’oscurità rotta solo dal rosseggiare di qualche brace. Le tre streghe, oppresse da un’invincibile spossatezza, crollarono al suolo pronunciando un’ultima bestemmia.
L’uomo, svanita di colpo la tensione e la paura che lo avevano dominato per lunghe ore, si sentiva a sua volta molto provato ma, come lo spettro, doveva affrettarsi: l’alba oramai era prossima.
Gettò sul pavimento un borsellino con dieci corone, il prezzo pattuito per quella spaventosa nottata come per le altre che l’avevano preceduta, poi si avvolse nel mantello e uscì.
Non era tranquillo mentre ripercorreva la strada verso il luogo dove l’attendeva il barcaiolo. Ciò cui aveva assistito era al di sopra della comprensione ma certamente metteva a rischio la sua vita, la sua fortuna, la sua anima. Valevano tanto la fama, gli onori e il denaro? «Dubbi, sempre dubbi» pensò. «Essi sono dei traditori che spesso fanno perdere ciò che si potrebbe ottenere soltanto perché non si ha il coraggio bastante per tentare».
Sì, era un rischio che valeva la pena di correre, anche questa volta aveva avuto nuove, terribili rivelazioni. La sua memoria, allenata in tanti anni di mestiere d’attore, era in grado di rammentare tutto ciò che aveva udito quella notte e lo avrebbe usato per rendere ancora più efficace il nuovo lavoro. Certo non poteva scrivere la verità, ma poteva impiegare metafore e ricalcare situazioni.
In giornata avrebbe iniziato una profonda revisione del testo che aveva già abbozzato. Se non vi fossero stati imprevisti, entro un mese avrebbe convocato la compagnia per le prove.
Così ragionando giunse in riva al Tamigi. Già lanciava un segno d'intesa al barcaiolo, ma si voltò un istante a guardare la sagoma del Globe che si stagliava nel diradarsi della nebbia.
Sorrise al pensiero che poneva fine a ogni altro ragionamento:
«Il dubbio è meglio lasciarlo nell'anima e sulla bocca dei miei personaggi; presto la folla gremirà quel teatro per applaudire il nuovo dramma, figlio di questa notte.»
Sul suo volto il sorriso si spense, sostituito da un’espressione di profonda tristezza, poi un’idea gli attraversò la mente donandogli nuovo entusiasmo.
«“La storia di Hamlet!” E’ il nome che darò al frutto del mio lavoro, per far vivere in eterno il ricordo del virgulto del mio stesso sangue, quell’Hamnet che mi fu tolto da un fato crudele.»



N.D.A il racconto, per sua stessa natura, contiene citazioni non virgolettate da “Amleto”, “Macbeth” e altre opere di W. Shakespeare.




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Racconto scritto il 24/04/2016 - 11:23
Da mario malgieri
Letta n.1031 volte.
Voto:
su 1 votanti


Commenti


Grazie Angela, per tutto il commento e le stelline. Ebbene sì, nell'anniversario della sua morte (almeno come data ufficiale) un mio minimo omaggio a uno dei miei idoli indiscussi

mario malgieri 24/04/2016 - 15:21

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Molto bello questo racconto...bravissimo...e poi un applauso per le citazioni di shakespeare, nell'anniversario della m0orte. complimenti. 5 stelle

Angela Avella 24/04/2016 - 14:25

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