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L'immortale Quarta parte

L'uomo cominciò ad urlare e lei a ridere ed a singhiozzare
al tempo stesso, sempre affondandogli il coltello
fra le carni.
Poi, approfittando della sua nudità, prese ad accarezzarlo
sui genitali, sempre sussurrandogli qualcosa, questa
volta con la bocca vicino alle orecchie. Cercava di
eccitarlo evidentemente, ed incredibilmente, ci riusciva
anche! Mi venne in mente di aver letto qualcosa del genere,
una prassi sulla terra, non so se Somala o Tuareg,
popoli presso i quali spesso erano le donne che torturavano
i prigionieri.
L'uomo urlò come un maiale scannato quando lei lo
evirò. Lo spruzzo di sangue sembrò il getto di una fontana.
L'urlo dell'uomo e quell'orribile spettacolo mi scossero,
raggiunsi la donna la scostai, con un braccio e con
il kalashnikov RPK che avevo ricaricato (non si era inceppato:
era solo finito il caricatore) lo uccisi con una breve raffica, per
mettere fine al suo strazio.
La donna soffiò come un gatto arrabbiato e fece per
attaccarmi con il coltello, poi si fermò, non so se perché
ci aveva ripensato o perché le puntai contro il kalashnikov.
Si voltò e si diresse verso la donna che era con lei, si
chinò e la scosse gentilmente. Quella disgraziata era ancora
viva. Parlarono un po', l'una con fatica, l'altra piangendo.
Poi la più giovane estrasse uno stiletto dai capelli
della donna ferita e quasi con delicatezza pose fine alle
sue sofferenze pugnalandola al cuore.
Non dissi niente e non intervenni. Avevo visto la ferita
della donna e non so cosa avremmo potuto farle, se
non abbreviare le sue sofferenze.
A quel punto la giovane assassina cominciò a piangere,
lentamente, dolcemente, come di chi è solo triste e
non sa perché.
Recuperai la carabina e scesi al fiume, mi lavai del sangue e
della polvere che avevo addosso, poi tornai al carro, presi le mie
armi, raccolsi una balestra e delle frecce e mi fermai vicino
alla donna, ad un paio di metri.
— So che non mi capisci, ma sarà meglio che ti sforzi.
Da un momento all'altro su questa strada potrebbe
passare qualcun altro, e potrebbero essere gli amici di
questi assassini. Se vuoi venire con me le feci il gesto
di me e di lei ed indicai verso la montagna, devi venire
ora. Lei mi guardò, pensierosa, poi si guardò intorno. Chi
dice che il linguaggio è un povero mezzo di comunicazione?
Ci sono momenti in cui ci si capisce perfettamente
ed al volo, anche se non si parla la stessa lingua.
Annuì con la testa. Si alzò e fece una cosa che lì per lì
pensai dimostrasse che era impazzita: si spogliò completamente
dei suoi abiti femminili e rimase nuda.
Inebetito stato in cui ero rimasi stupito da quanto era bella.
E muscolosa.
Si diresse al suo carro e ne estrasse dei fagotti da cui
trasse abiti da uomo: pantaloni, casacche, mantello, stivali,
che indossò. Poi raccolse una cotta di maglia di una
delle guardie e delle armi: scelse una balestra leggera,
una daga, uno stocco e tre faretre; prese una sacca che
riempì con dei viveri.
Poi tornò verso la sua compagna e le sciolse dai capelli
un nastro multicolore, con il quale legò i suoi. Poi
venne verso di me e mi guardò come a dire:
— Allora, bello, dove andiamo?
Tornammo alla mia capanna, anche se ci misi il doppio
del tempo per fare dei giri lunghi e viziosi; non volevo
che lei potesse ricordare con facilità come ci si arrivava.
Camminammo in silenzio; ed in silenzio rimanemmo
per le due settimane successive, non solo perché non
parlavamo l'uno la lingua dell'altra ma soprattutto perché
lei evidentemente non aveva una grande voglia di
socializzare. Io la mia voglia di parlarle, l'avevo vista
volatilizzarsi nel momento in cui ripensavo al suo spietato e
crudele comportamento nei confronti dei suoi assalitori.
Lei spesso piangeva, anzi, passò le prime tre notti a piangere.
Passai le prime tre notti sveglio.
Non so se fosse la presenza di lei ad agitarmi, o cosa.
Però pensai a lungo a cosa avevo fatto. Avevo ucciso degli esseri
umani. Ero un assassino come loro. Razionalizzai facilmente,
è ovvio, non c'era dubbio sul fatto che, almeno
quelli che avevano ucciso in quel modo barbaro gli uomini
e la prima donna, erano degli assassini che meritavano
la morte. E dopo era stato semplicemente uno
sporco e confuso affare.
Ma avrei potuto evitarlo? E mi rispondevo di no,
non avrei potuto. Se avessi tentato mi sarei ritrovato prigioniero
ed esposto a morte o a schiavitù (e quella era senza dubbio una
civiltà schiavista: ne avevo visti molti di schiavi in catene
dentro al forte).
E allora? Alla fine mi accorsi che se stavo ancora lì a
pensarci tanto era solo perché c'era una parte di me, un
residuo di uomo civile, chiamiamolo così, che non credeva
a quello che ero stato capace di fare e che non lo
poteva sopportare. Capito questo decisi che, di quella
parte di me, non me ne importava assolutamente più
niente. E mi addormentai.
Cominciammo a tentare di comunicare verso il ventesimo giorno
che era lì e fu lei ad insegnarmi la sua lingua. Era una buona
cacciatrice ed una discreta cuoca, così ci alternammo nel fare
l'una o l'altra cosa, a turno, anche per partire da oggetti concreti
ed azioni utili per imparare il suo vocabolario.
La sua lingua. Conoscevo tutte le lingue sulla terra e riuscivo ad
interpretare scritture antiche e simboli con facilità, a quanto pare
o perso questa capacità, ma non del tutto, ricordandomi che la
radice di tutte le lingue europee è comune e che risale, insieme al
Sanscrito, alla famosa migrazione indoeuropea con relative
lingue.
E che questo è particolarmente evidente mettendo a confronto
le lingue europee per quel che riguarda alcune
parole fondamentali, come madre, padre eccetera.
Sarei riuscito a capire la lingua di Stella Gialla su Triluno, così
avevo battezzato il pianeta per le tre lune.
Non riuscivo ad immaginare perché e decisi
che non ci avrei sprecato sopra troppi pensieri. Ma era
una lingua familiare in qualche modo; molto meno aliena
degli squali a sei zampe che avevo visto in pianura.
O della neve.
Fu facile impararla anche se all’inizio abbiamo gesticolato per
farci capire; è ovvio che la comunicazione con i gesti è stata la
prima lingua, poi non avevamo molto da fare e a quel punto,
dopo un anno di solitudine, avere vicino una persona con la
quale parlare e non poterlo fare, era una piccola tortura.
Quando fummo in grado di capirci mi raccontò la sua
storia: si chiamava Stella Gialla, per via dei suoi capelli biondi;
era una ballerina ed una acrobata e quella massacrata al guado
era la sua famiglia.
Era tradizione delle ballerine della sua tribù (una tribù
di nomadi diffusa ovunque, disse lei) fare l'amore a pagamento,
soprattutto con i nobili dei castelli dove andavano
a fare i loro spettacoli; anche sua madre e sua sorella,
le due donne uccise, lo facevano ed i loro mariti
non ci avevano mai trovato niente da ridire, anche perché
era quasi impossibile sfuggire alle mire dei principi
locali quindi tanto valeva approfittarne; ma mai, nessuna
di loro, sarebbe entrata in un harem di un "Superios",
un nobile; prostitute sì, tranquillamente; ma sempre libere
di scegliere e di dire sì o no.
Il "Superios" comandante del forte, giù nella valle
era di altro parere, e quando lei si era rifiutata, le aveva
mandato dietro quegli armigeri per punire lei e la sua famiglia.
Ma era solo questione di tempo: era un "Zombies",
un uomo morto che cammina anche se ancora non lo
sapeva nessuno.
Uomini e donne della sua tribù erano tutti addestrati
al combattimento, per necessità. E quelli che aveva ucciso
al guado non erano i primi per lei. Devo dire che
era affascinante, bella (da ricordarmi Claudia), energica, spietata
e dolce al tempo stesso. Mi faceva, onestamente anche un po'
paura. Facemmo l'amore alla fine del terzo mese che era da
me. E fu lei a sedurmi. Anzi, dovrei dire, fu lei a violentarmi.
Una abitudine degli abitanti di quel pianeta, a quanto sembrava.
Un giorno, al ritorno da una impegnativa caccia, arrivati nella
radura con un cervo di traverso ad una sbarra, ci fermammo a
riposare, ansanti: lei disse che era affamata, estrasse il coltello ed
aperto il fianco del cervo ne tirò fuori il fegato ancora fumante,
che morse avidamente; ne mangiò un paio di morsi emettendo
gridolini di piacere, poi ne tagliò una fettina che pulì bene, con la
lingua per altro, sporcandosi più che mai il mento di sangue, e
me la offrì ridendo ed emettendo piccoli grugniti e guaiti, come
giocando; io risposi al gioco e morsi il fegato e lo staccai a morsi
dalle sue dita.
Così facendo le morsi, leggermente e per caso, le
dita; lei me le lasciò mordere, anzi spinse un po' di più
le dita verso le labbra e la bocca. Io continuai a mordicchiarle
ma giuro che per me era niente di più che continuare il gioco.
Per lei però no. Si fece seria, smise di guaire, e mi si
avvicinò; mi abbracciò ferocemente, quasi per bloccarmi,
ansando eccitata; poi mi gettò a terra e mi si mise
sopra. E mi baciò quasi con violenza con la sua bellissima
bocca sporca di sangue di cervo.
Facemmo l'amore lì all'aperto, fino a sera, sotto il sole
e sull'erba e devo dire che, sarà stato per l'astinenza di
ormai quasi due anni, sarà stato per le circostanze, ma fu
qualcosa di veramente memorabile.
Dopo mi disse che non capiva perché non l'avessimo
fatto prima; lei si aspettava da un momento all'altro che
io la prendessi, era ovvio: me lo doveva, non fosse altro
per gratitudine; ma credeva di non piacermi o che non
volessi o non potessi farlo per un voto o per impotenza.
Solo per questo aveva aspettato tanto. E quella mattina
non aveva proprio resistito: la caccia la eccitava sempre.
Una belva. M'ero messo in casa una belva, io che avevo solo
convissuto con una donna in vita mia (Claudia) completamente
all’opposto di lei!
Quando Stella Gialla mi chiese come mi chiamavo,
le risposi Ciro Imperiale.
Lei sorrise e disse che il nome, non le piaceva e me lo avrebbe
dato lei.
Ci pensò un po' poi sorrise e disse:
— Ecco, l'ho trovato, quando ti ho visto la prima volta,
quando mi hai salvato la vita, al fiume, io ho pensato
che tu fossi il dio del fiume, perché eri bagnato e venivi
dall'acqua, e quel fiume si chiama Tuono. E tu sarai Tuono, il
Guerriero dai Grossi Attributi Virili, Con Le Armi Che
Tuonano, E Che Vive Sulla Montagna!
E rise con la più bella risata che io abbia mai sentito
in vita mia.
Qualche volta ho pensato che la pelle liscia delle donne
giovani, bionde e di carnagione chiara sia una buona
prova dell'esistenza di Dio.
L'inverno venne e passò, ma quasi non me ne accorsi
questa volta. C'era Stella Gialla a farmi passare il
tempo con una velocità incredibile. Quando la primavera
tornò le dissi che dovevo tornare a valle. Lei non mi
chiese nemmeno perché, disse solo una cosa:
— Quando partiamo?
Ma io me lo chiesi, il perché.
Perché tornare a valle? Per cercare di capire qualcosa
del perché e per come ero lì?
No, a questo avevo rinunciato. Non solo non sapevo
perché ero in quel mondo, non me ne importava più
niente; anzi, erano mesi che non ci pensavo più.
Ci ripensai solo perché mi accorsi che ero curioso di
altro: cosa c'era in quel mondo? Che gente, che popoli,
che vita si faceva? Come potevo cambiare la mia?
Perché la lingua Nap, che fra l'altro era una sorta di
lingua veicolare diffusissima sul pianeta, era così simile
alle lingue indoeuropee? Visto che non sembrava potessi
in nessun modo andarmene da lì, non valeva forse la
pena di restarci al meglio? E quindi di conoscere tutto
quello che c'era da sapere?
Capii che io "volevo" restare lì.
Anche se avessi potuto tornare indietro alla mia vita
di prima, non lo avrei fatto. Era una vita feroce, e selvaggia
quella che avevo fatto lì, fino a quel momento.
Ma mi aveva cambiato. Ero più sicuro di me, ero indurito, ero
capace di centrare un uomo a trecento metri, di
uccidere con il coltello e di combattere come non ero
stato nella prima immissione.
E del resto per quale motivo avrei dovuto diventare
un buon tiratore sulla Terra? O un killer? A quale scopo?
La vita su quel pianeta mi aveva dato una occasione per
realizzare i miei sogni infantili, forse, quelli di onnipotenza
sadica. Anche se, finora, a proposito di sadismo,
io ero più una vittima che un carnefice: ero addirittura
già morto e risorto.
Di sicuro quel mondo mi aveva cambiato. Io non ero
più quello che ero.
Ed era senza dubbio un mondo affascinante. Stella
me ne aveva parlato a lungo e mi aveva descritto i luoghi
ed i popoli che aveva incontrato e le meraviglie che
aveva visto oltre a quelle di cui le avevano parlato. Anche
facendo la tara su quanto diceva di una qualche esagerazione
infantile, sembrava comunque un mondo affascinante
a dir poco.
E poi io stavo benissimo.
C'era qualcosa in me che finalmente percepivo completamente.
La mia non era solo forza da esercizio, da
addestramento. Era qualcosa di più. Ero pieno di una
energia che non aveva spiegazioni possibili. Avevo già
notato che nel farmi rinascere il mio corpo era stato ricreato
identico all'originale, sì, il viso era il mio, le mani
erano le mie, le riconoscevo; ma ad esempio i denti erano
di nuovo tutti miei: quelli che avevo perso e sostituito con
capsule erano stati rimessi al posto loro.
Denti veri, non protesi.
Avevo poi scoperto che l'energia che avevo si esplicava
anche in altri modi. Ad esempio nel fare l'amore con
Stella. Ero instancabile.
In altre parole chi mi aveva "rifatto" il corpo, me lo
aveva migliorato. E con tutta questa energia "giovanile"
in più, potevo restare a fare la vita del pensionato nella
casetta in montagna?
Quando decisi di scendere a valle, Stella Gialla
non mi disse nulla e se ne stava zitta. Ma il suo perché lei lo
aveva ben chiaro in mente.
Voleva ammazzare Arp, il "Superios" comandante del
forte che aveva ordinato di violentare lei, sua madre e
sua sorella e di uccidere tutti gli uomini della sua famiglia,
perché lei gli si era rifiutata.
Me lo disse mentre scendevamo.
Non mi pareva una buona idea, e glielo dissi.
Lei sorrise e disse ridendo:
— Oh, no, è un'idea bellissima. Però lo voglio catturare
vivo per torturarlo con comodo. Ho pensato a molte
cose interessanti che potrò fare ai suoi testicoli. Non
morirà né presto, né facilmente.
E sorrise di quel suo bellissimo e luminoso sorriso.
Qualche volta mi faceva ancora paura.
Nei dieci giorni che ci mettemmo per arrivare di nuovo
in vista del forte non ci fu verso di farle cambiare
idea.
E più io gli dicevo che era una pazzia, più lei sorrideva
e mi prendeva in giro. Semplicemente dava per scontato
che stessi scherzando!
Al forte giungemmo come due Frati Cercanti. Fu un'idea
di Stella. Disse che i Frati Cercanti vanno
sempre in giro con un saio con un cappuccio che gli copre
quasi completamente il viso perché sono tutti uomini
o donne che devono espiare una grande colpa e non
vogliono farsi riconoscere, così possono a volte fare del
bene a coloro cui hanno fatto del male, che se li riconoscessero
potrebbero ucciderli o perdonarli troppo facilmente.
Porta male guardare sotto il cappuccio di un Frate
Cercante, per cui nessuno (o quasi) lo fa.
Si raccontano leggende di persone morte fulminate da
un qualche dio per aver guardato sotto il cappuccio; ma
i più scettici dicono che non è stato un dio, ma lo stiletto
del frate che non si vuole far riconoscere. Insomma, o
per l'uno o per l'altro motivo, il risultato è lo stesso: nessuno
vuole sapere chi siano. Anche perché portano sempre
con sé notizie o beni preziosi d'altro tipo.
"E poi che ne sai di chi è parente un Frate Cercante?"
Recita un proverbio noto ovunque.
I sai ce li procurammo lavorando delle stoffe che avevo
con me. Raccolsi nelle bisacce diverse cose che
avrebbero potuto essermi utili, ci caricammo di armi di
tutti i tipi, ma scegliendo le più leggere; ed io "chiusi
casa".
Ci avevo abitato felicemente per due anni, in fondo, e
un po' mi dispiaceva lasciarla. Sperai di rivederla prima
o poi, ma riuscii a separarmene con una leggerezza che
non era mia; voglio dire, non ero così, due anni prima,
quando ero arrivato lì: allora ero com'ero sulla Terra, ormai
ero diverso; non mi attaccavo più ai luoghi e alle
cose. Ormai volevo e dovevo andare altrove, senza lasciare
niente dietro di me.
Liberai gli animali che avevo con me, chiusi ogni pertugio
e lo mascherai con rovi e pietre, sperando che nessuno
trovasse mai la casa, nell'eventualità avessi voluto
tornarvi. Ma sapevo che non vi sarei mai tornato.
Entrammo al forte senza incertezze. Io avevo la
mano, sotto il saio, sul mio kalashnikov RPK silenziato e con il
selettore di tiro sul colpo singolo; e tenevo a portata di mano
altre cose un po' più pesanti, come una bomba "ananas"
e altro ancora. Ero nervoso ma in fondo non più di tanto.
Stella non aveva voluto armi da fuoco, lei
preferiva spada e stiletto.
I Frati Cercanti avevano sempre merci "magiche" con
sé: spezie, medicamenti, droghe. Per cui ci dirigemmo
subito dall'unico speziale del forte a mostrare le nostre
merci e per avere in cambio più che denaro, informazioni.
Sax, lo speziale disse che nulla di ciò che mostravamo
lo interessava (e non era vero: l'oppio che avevo con
me era purissimo, senza dubbio più puro di quello del
pianeta e quello lo voleva, oh, se lo voleva!) ma ci offrì
un tè e dei pasticcini e un po' di conversazione.
Esattamente ciò cui noi tenevamo di più.
— Il vecchio signore Arp? — disse ad un certo punto,
dopo mezz'ora di banalità — Ah, sì, ma ora è a valle,
con la sua scorta, all'altro forte di scambio, quello più
ricco e comodo della pianura. Eh, Arp sa fare bene i suoi
affari. Di forte in forte, arriverà alla capitale, vedrete!
Ci bastava. Troncammo i convenevoli e passammo
alle trattative.
Le trattative le condusse Stella.
— Speziale, vuoi l'oppio? È cento volte più potente di
quello cui sei abituato, quindi stai attento quando lo usi.
Ma se lo vuoi devi darci una libbra di sangue di vena nera.
Cosa fosse, non ne avevo la più pallida idea. Ma dalla
faccia che fece Sax, capii che non doveva essere una
bella cosa.
— Ma cosa dici? Io non ne ho! È merce proibita dalla
legge, lo sanno tutti!
Stella estrasse il suo stiletto e glielo puntò
alla gola. — Mastro speziale, tu hai almeno due libbre di sangue
Di vena nera, lo so di sicuro. Noi ne vogliamo una
sola. Ora scegli tu: o ci dai ciò che vogliamo in cambio
di due libbre dell'oppio più potente che avrai mai; o noi
prenderemo ciò che vogliamo dopo averti tagliato le
palle ed avertele infilate in gola prima di tagliartela...
Era un tipino convincente, Stella. Aveva venti anni,
era una ballerina, una prostituta part-time, una donna
bionda bellissima, una amante dolce come il miele; ed
una maniaca omicida sadica e torturatrice. Con la fissa
di castrare la gente.
Sax ci dette tutto quello che volevamo. E noi gli demmo
l'oppio che lui voleva. Lasciammo subito il forte,
dopo aver comprato due muli da un mercante. Lungo la
strada gli chiesi cosa fosse il sangue di vena nera e
come facesse a sapere che lui ce l'aveva.
— Lo sapevo perché glielo aveva venduto mio padre
quando venimmo al forte. È un potentissimo allucinogeno,
ma solo in dosi infinitesimali. Altrimenti è un veleno
letale e rapidissimo. Ci potrà servire a molte cose: con
quello che abbiamo, sciolto in un acquedotto, potremmo
distruggere o addormentare una città. Mi piace uccidere
con lo stiletto, ma molto, molto di più con il veleno...
Non mi stava portando su una buona strada, lo sentivo.
Due mesi dopo avevamo finalmente raggiunto l'ultima
destinazione di Arp. Al forte di pianura avevamo saputo
che aveva avuto (o comprato o usurpato, le versioni
erano contrastanti) un'altra promozione e che ormai
era a Salenap, una città vicino al mare. Era lontana e
avremmo dovuto viaggiare a piedi ed a lungo. Ma Stella
non esitò un attimo a decidere anche per me. E ci avviammo
lungo la pista dei carri.
Strada facendo fummo aggrediti dai banditi ben tre
volte. Solo la prima volta corremmo qualche rischio e
solo perché stavamo facendo l'amore.
Era notte fonda, e noi eravamo su una piattaforma costruita
da altri viaggiatori, su un albero, per evitare i predatori
della pianura: lupi per lo più che non si arrampicano
sugli alberi.
Ma Stella era irrequieta e scherzava, e mi
spingeva e rideva. Quella sera mi irritava. Alla fine la
presi per i capelli, sulla nuca, e glieli tirai dicendogli di
smettere. Lei gridò brevemente, poi cominciò ad ansare
leggermente, passandosi la lingua sulle labbra. Come
una gatta. L'avevo imparato da un pezzo ormai: un po'
di brutalità nel fare l'amore la eccitava sempre.
E mentre facevamo l'amore sul ramo principale, sotto
di noi alcuni briganti stavano salendo in silenzio.
Erano vestiti di verde scuro e li notammo all'ultimo
istante. Io avevo il kalashnikov RPK a portata di mano.



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Racconto scritto il 03/07/2016 - 00:13
Da Savino Spina
Letta n.1225 volte.
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Commenti


70 letture senza un commento...e non lo faccio nmmeno io.

Quattro Stagioni 03/07/2016 - 15:59

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