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Il ritratto di Saverio Giusti

Mi misi subito al lavoro, restaurando un quadro, olio su tela, ritratto di un antenato del conte, di 103 cm per 73 cm, non voglio annoiarvi con i dettagli del processo di restauro. A lavoro ultimato, il conte Giusti dopo avermi elogiato per il restauro svolto, mi dice che il ritratto, raffigura il fondatore della stirpe Saverio Giusti e incomincia a raccontarmi la storia del suo avo. Iniziando nel dire: La cavalleria rappresentava essenzialmente l’aristocrazia. I valori a cui si rifaceva erano di stampo feudale e vassallatico, in primo luogo la forza fisica, il coraggio, il senso dell’onore, fedeltà alle gerarchie ecclesiastiche e feudali, ma soprattutto per conquistare la donna amata. Aggiunse: amava alla follia Isabella, ma il loro amore era contrastato dalla famiglia di lei, che avevano promesso la figlia a un altro nobile; il mio antenato non si perse d’animo e rapì Isabella. Mise al corrente del suo intento, all’abate del monastero, dove aveva lo scopo di sposarsi nella chiesa del convento; questi fece la spiata alla famiglia di lei e furono catturati durante la fuga. Isabella fu rinchiusa in un convento di suore, mentre Saverio fu costretto ad abbandonare la città e con il veto di non metterci più piede! Fu un grande scandalo per quei tempi e non si parlava d’altro in città; ci volle parecchio tempo, per mettere fine alle chiacchiere. Il conte replicò: erano molte le storie d’amore contrastate e le fughe erano considerate dei veri e propri crimini, a quel tempo; al giorno d’oggi racconti del genere, non suscitano interesse. Prosegui: Saverio con il cuore infranto vagò senza meta, alla caccia di gloria, con ardimentose avventure per placare il suo spirito deluso. Il solitario cavaliere si troverà coinvolto negli eventi più importanti del secolo. “Si era gettato in quella guerra con slancio cieco, come l’ultimo disgraziato che si arruola nell’esercito; ha riflettuto su se stesso più tardi, con grande pena, e sulla indifferenza dei suoi sentimenti nell’osservare la rovina degli uomini”. Il conte Giusti con un saluto si congedò e io rimasi a riflettere sul racconto appena ascoltato. Mi aveva molto colpito, la sua considerazione sulla guerra, che è la rovina degli uomini, perché mi hanno sempre inculcato, che per i cavalieri, le gesta di battaglia erano i migliori momenti di gloria e rappresentavano lo spirito più elevato, per cui valeva la pena di vivere. Dopo aver cenato, andai nella mia stanza e mi sdraiai sul letto, ma non riuscivo a prendere sono, mi tornavano in mente l’amore contrastato, lo scandalo, le chiacchiere della gente, le battaglie, il tradimento dell’abate, l’esilio, la clausura forzata di Isabella, che mi fecero girare la testa. Mi addormentai di colpo e mi ritrovai nella battaglia di Lepanto, ero con l’armata cristiana che stava ferma sulla sua linea. Le galeazze erano sei, e dovevano mettersi a due per due all’innanzi di ciascuno dei nostri corpi, due per l’ala di Barbarigo, due per il centro di don Giovanni, due per l’ala del Doria. Se non che sulla nave, dove stavo si diresse verso il pieno del golfo, girò fin troppo il bordo allontanandosi al largo più di quanto si credeva opportuno. Si avvicinò una galea turca, che cercò di speronare la nostra galeazza, ma il nostro timoniere fu lesto ad evitare la prua della nave nemica e con una manovra da manuale si accostò di fianco alla galea, mentre le altre navi delle rispettive flotte, si davano battaglia a colpi di cannoni. A distanza ravvicinata, la superiore potenza di fuoco dei nostri fucili a miccia produsse effetti micidiali tra i Turchi, che persero un gran numero di uomini prima che la galea riuscisse ad avvicinarsi. Al comando dato dal capitano della galeazza, andammo all'arrembaggio, io con la mia cima balzai sulla galea e mi feci strada tra le file nemiche, prima con il fucile e poi con la spada e feci molte vittime al mio passaggio. Dopo una estenuante e cruenta battaglia riuscimmo a catturare la nave ammiraglia turca e ottenere la sua resa. Ormai con le spalle al muro, Ali Pascià implorò di essere lasciato in vita, promettendo un enorme riscatto, ma io con un assestato fendente lo decapitai. La vista della testa di Ali Pascià infilzata su una picca demoralizzò i Turchi, che, dopo la morte del loro comandante, smisero ben presto di combattere. Mi svegliai di soprassalto, per l'orrore che avevo commesso nel sogno e che mi lasciò un senso di timore profondo: inorridire per la guerra e per la morte. Come d'abitudine diedi un rapido sguardo alla porta e l'acchiappasogni era al solito posto, apparso dal nulla, per farmi vivere notti di terrore. Era ormai giorno, mi rimanevano gli ultimi pezzi da restaurare e con buona verve mi rimisi a lavoro. Il maggiordomo bussò nella stanza che avevo adibito da laboratorio e che chiudevo a chiave, per non essere disturbato durante i lavori di restauro. Aprii la porta e il domestico mi riferì, che il conte mi pregava di raggiungerlo in biblioteca; aveva assoluto bisogno di parlarmi. Al cospetto del conte Giulio Giusti, lo salutai e gli chiesi: " avete chiesto di parlarmi signor conte"? Certo! Rispose il conte e aggiunse: sarò breve, sono molto soddisfatto dei lavori di restauro; mi congratulo con lei per il piglio e la professionalità, che ha messo nella realizzazione dei restauri, ma io per un paio di giorni non ci sarò! Bene risposi e incalzai: "Cosa vuole che faccia"? Il conte rispose: " se vuole rimanere, rimanga"! "Se vuole prendersi una pausa di due giorni e tornarsene a casa, anche"! Signor conte preferisco rimanere e finire quando prima il lavoro, risposi garbatamente. Va bene così! "Ora la lascio, devo prepararmi per la partenza", replicò il conte. Ritornai al mio lavoro che smettevo durante la pausa pranzo e cena, grazie alla solerzia del maggiordomo. Ormai era giunta l'ora di addormentarmi, tolsi sempre l'odioso oggetto fatto di piume e cerchietti di legno dalla porta e feci finta di dormire. Quando un ombra con cautela, senza fare rumore, ripone l'acchiappasogni sulla porta e a fatica riesco a scorgere la sagoma del conte. Mi domando che ci faceva il conte nella stanza? Non era partito? A parte che mettere l'oggetto sulla porta. Intanto il conte, credendo di non essere stato visto, come era venuto, così se ne andò, attraverso una porta segreta della parete della stanza, in cui ero ospite. Mi alzai e trovai il meccanismo, che faceva scattare la parete girevole; entrai e percorsi un lungo corridoio, dove mi condusse alla segreta sotterranea della casa. Con stupore notai all'interno c'era la pecora nera della famiglia Guidi, fratello gemello di Giulio, sembra che egli avesse un carattere iroso e incline al vizio, primo fra tutti quello irrefrenabile per il gioco delle carte. Il conte aveva l’abitudine di sedersi al tavolo ogni giorno e si circondava di servi, ospiti e parenti che dovevano assecondarlo per appagare la sua bramosia di vincere. Un giorno che nessuno volle giocare, andò su tutte le furie, gridando: “Riuscirò a giocare, anche col diavolo in persona”! Per un curioso scherzo del destino, uno straniero alto e avvolto da un lungo mantello si presentò al castello, ansioso di sfidarlo. Entusiasta, egli acconsentì e si rinchiuse insieme all’ospite nel proprio studio, riferendo di non voler essere disturbato da nessuno e per nessun motivo. Il maggiordomo, incerto sulla sicurezza del suo signore o più banalmente incuriosito, si accostò alla porta ad origliare. Fra vivaci bestemmie e improperi di rabbia, sembra che dopo qualche ora egli avesse già perso buona parte dei propri averi e non avesse più come saldare le vincite al misterioso giocatore. Questi, gli offrì allora la possibilità di un’ultima partita, con la quale egli avrebbe potuto riprendersi tutto. In cambio, in caso di un’ennesima sconfitta, avrebbe dovuto cedergli il bene più prezioso di cui disponesse: la sua anima. Il conte Paolo Guidi, accecato dal demone gioco e disperato più che mai acconsentì ma dopo qualche colpo di poker si ritrovò ancora una volta sconfitto. Accade allora qualcosa che lo sconvolse al punto tale da indurlo a uscire in preda al panico fuori dalla stanza, con in viso un’espressione di vivo terrore. La servitù irruppe nella stanza per interpellare lo straniero, ma egli era misteriosamente svanito nel nulla. Trascorsero cinque anni, durante i quali il conte visse timoroso perfino della sua ombra, come in attesa di un infausto destino; quindi morì. Da allora, si narra che una volta l’anno dalla stanza segreta si odano le urla strazianti e le bestemmie di un’interminabile partita a carte e che il diavolo, nei panni dello straniero, abbia condannato il conte Paolo Giusti a giocare per l’eternità. Al ritorno del conte Giulio Giusti, i lavori di restauro erano terminati; si ritrovò con tutte le sue opere, ritornate all’antico splendore e la gioia dell’uomo era palese. Io misi al corrente il conte, degl’ultimi avvenimenti e di quello che era successo, in quella fatidica notte. A quel punto il conte, mi raccontò la storia del fratello gemello; a parte quella già descritta in precedenza. Mi disse, che dopo la morte di Paolo, la sua anima vagava per la casa e riponeva l’acchiappasogni appeso alla porta, ogni qualvolta era occupata dagli ospiti, per liberarsi dalla maledizione. Mi raccontò di avere sperimenta meno la “solitudine” e forse più precocemente la “gelosia”; la sua relazione con il fratello, fin da piccolo non era idilliaca ed era un continuo litigio. Reciprocamente percepivano le stesse emozioni, gli stessi dolori e riuscivano a sentire quando l’altro era in pericolo. Paolo era uno scavezzacollo, che conduceva una vita sregolata, sempre alla caccia di emozioni forti e per questo si metteva sempre nei guai. Lui al contrario era una persona riflessiva, assennato, prudente e giudizioso e si prodigava in tutte le maniere, per togliere il fratello da spiacevoli situazioni. Poi mi fece una grossa confidenza, che inavvertitamente gli capitò il diario del fratello tra le mani e cominciò a leggerlo. Rimase molto scosso, quando arrivò alla pagina, dove c’era scritto: “…Sono in vena di suicidarmi, ma servirebbe a qualcosa? … Porto in testa le prove recenti di quanto sia penosa la vita con il mio gemello. Avrò la forza di ucciderlo? A quel punto il conte chiuse il diario inorridito e incominciò ad aver paura del fratello, comunque ben sapendo che il quel periodo Paolo non aveva tutte le rotelle a posto, ed era trascorso pochissimo tempo dall’episodio della maledizione. Siamo stati a parlare per ore e non solo del fratello; ma la conversazione avuto il suo apice, quando abbiamo discusso d’arte. Il conte asseriva: “Nella pittura rinascimentale i segni di contorno sono praticamente assenti, mentre la rappresentazione del confine tra aree di luminosità o di colori diversi diventa più realistica e molto vicina a ciò che viene percepito nella visione reale. Il colore è uno degli aspetti più attraenti di ciò che vediamo ed è anche uno degli elementi che rivestono un maggior ruolo nell’arte pittorica per la sua capacità altamente evocativa”. Io replicai: Nella pittura l’artista può scegliere tra una rappresentazione con ricchezza di dettagli, così come sarebbero visibili a occhio nudo, e una più sfumata dai contorni meno netti. Anche la fotografia, considerata arte minore a cavallo tra Otto e Novecento, attualmente è entrata prepotentemente nel sistema dell’arte contemporanea, sembra che oggi non vi possa essere alcuna istituzione museale-espositiva che non presenti appena possibile una mostra fotografica, come se il non farlo significasse automaticamente il dimostrarsi fuori dal tempo e lontani dalla realtà”. Dopo quello scambio d’idea sulla pittura, ci congedammo. Prima che lasciassi la sua casa, mi ricompensò lautamente per il lavoro svolto; presi le mie cose e il maggiordomo prese il cappotto ripiegato dall’armadio e me lo diede, mi accompagnò alla porta e con un inchino mi salutò; gli risposi: buona notte e uscii lentamente. Appena fuori, nemmeno il tempo di accendere il motore della mia cinquecento, si mise a piovere, la nebbia apparve e il cielo grigio, senza stelle. Ripensai a tutto ciò che mi era capitato in quella casa e ne dedussi: Il buio rende gli spettri interiori terrificanti, perché non più relegabili nella irrealtà ed è lo spazio del “tutto possibile”. Nel buio abbiamo uno sconfinamento della nostra interiorità, che non trova argini nella visibilità e la paura del buio è tanta più forte, quanta la nostra interiorità è abitata dai mostri.



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Racconto scritto il 14/09/2016 - 14:04
Da Savino Spina
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