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Il ritorno

Jakobu K78 sedeva silenzioso e sorridente insieme agli altri. Erano seduti in venti dentro quel vano di quindici metri quadri, ma non importava. Erano tutti finalmente felici. In quel momento si sentiva soltanto il flebile sferragliare dei motori. Nessuno era invena di parlare. Tutti erano presi dal pregustare quello stato d'animo che ormai credevano che non avrebbero mai provato: la speranza.
Jakobu in tutta la sua vita non l'aveva mai conosciuta. La sua condizione gli aveva insegnato a non coltivarla fin da quando era bambino. Quando sei uno schiavo, la speranza è come una malattia, che alimenta nel tuo cervello continue illusioni, sogni che non si avverano mai. In una condizione come la sua essa era la via per la più cupa disperazione. Presto, prestissimo Jakobu aveva imparato a soffocare quel sentimento che non poteva avere spazio nella sua vita ed era diventato una sorda macchina da lavoro.
Ma ora tutto era diverso. Jakobu e gli altri stavano tornando a casa: la VERA casa. Essi la conoscevano soltanto dai racconti dei loro genitori, che a loro volta li avevano appresi dai propri genitori, e questi ultimi dai propri. I genitori di Jakobu e gli altri l'avevano descritta sempre come una terra lussureggiante, piena di vegetazione e di vita, in cui i loro avi avevano costruito ricche e grandi città, sedi di grandi imperi e regni, governati ora da grandi guerrieri, ora da principi saggi. Jakobu volava con la sua mente ora tra grandi montagne, ora in mezzo a grandi foreste, attraversate da fiumi e torrenti impetuosi. S'immaginava di tuffarvisi felice e di sguazzarvi. Poi il suo pensiero tornò di nuovo a volare verso il cielo, dove grandi esseri alati sfrecciavano tra mille piroette, e quelli più piccoli, riuniti in grossi branchi disegnavano sul firmamento le più belle figure e i più bei colori del creato. La sua mente fu rapita in un turbinio irreale. Da lassù poteva ammirare una splendida vallata, al cui interno scorse una città. Era in rovina? A prima vista sì, ma poi guardando meglio Jakobu si accorgeva che non erano rovine, bensì una città in costruzione. Un immenso cantiere brulicante come un formicaio, che costruiva una grande, nuova città, la più bella che si fosse mai vista.
Un ricordo gli attraversò la mente come un lampo. La sua memoria l'aveva sepolto chissà in quale anfratto, ma ora, senza che nemmeno lui se ne rendesse conto era riemerso come fosse successo ieri. Era una notte di tanti anni fa, Jakobu era ancora un ragazzino ed era seduto per terra nella sua baracca, dove abitava con la famiglia. Sedeva per terra e guardava la lampada calorifera attaccata ala soffitto. Si era alzato in piena notte perchè non riusciva a prendere sonno. Ad un tratto qualcuno gli mise la mano sulla spalla. Jakobu si voltò e vide dietro di lui suo nonno. Egli si ricordava ancora la mano del nonno sulla sua spalla, quella mano verde e squamosa come la sua, ma le cui squame erano rese più dure dall'età, e quegli occhi gialli come i suoi che fissavano il vuoto, e che il tempo e la cecità avevano reso di uno spento color paglierino.
- Che fai qui? - chiese il nonno a Jakobu
- Niente - rispose Jakobu - non riesco a dormire -
- Dammi una mano, ragazzo, voglio sedermi anch'io! Prendimi quella cassa là in fondo... -
Jakobu prese la cassa e diede al vecchio una mano per sedersi.
Suo nonno a quel punto gli disse: - Ascolta ragazzo, i tuoi non vogliono che te lo dica, ma io ci tengo che tu lo sappia. Tu non sei Jakobu K78! Quello è il nome che LORO, i nostri padroni, ti hanno dato! Quando sei nato tua madre ti ha chiamato Tiliaq. Tu sei Tiliaq Pihrome del clan dei Wazdileh, grandi e forti guerrieri del popolo degli Emyd del pianeta Eslor! Dovunque tu vada, ricordati il tuo vero nome! Ricordati chi sei! Promettimelo! -
Tiliaq promise, ma non mantenne la promessa. Col tempo dimenticò il suo vero nome, come tutti quelli come lui, se mai l'avevano saputo. Era diventato Jakobu lo schiavo proveniente dal campo 'K', famiglia '78'.
Ora però tutto era cambiato. I padroni, coloro che avevano deportato e schiavizzato il suo popolo erano stati sconfitti e i vincitori avevano concesso agli Emyd la libertà e la possibilità di tornare nel loro pianeta d'origine. L'astronave dove viaggiava Tiliaq era una delle centinaia che in quel momento viaggiavano verso Eslor.
I suoi pensieri furono interrotti da una voce meccanica in lingua aliena: - <Il veicolo è giunto a destinazione! Trenta minuti all'atterraggio!> - questo era più o meno il messaggio. Tiliaq e gli altri, impazienti, si alzarono e si assieparono attorno al portellone d'uscita. Quei trenta minuti sembravano un'eternità, poi finalmente la voce disse: - <Veicolo in atterraggio, attenzione> -
Ci furono una serie di scossoni poi l'astronave si fermò. Il portellone si aprì piano piano. Gli occhi di Tiliaq e degli altri brillavano di eccitazione. Una ventata di aria calda li investì: - Strano - pensarono - Deve essere il caldo dei motori -
Gli Emyd videro davanti a sè un immenso deserto, una distesa sabbiosa interrotta da qualche arbusto e da qualche albero secco; più in lontananza un piccolo lago. Allora essi capirono: per decenni la gente dalla pelle rosa, che li aveva portati via da lì aveva abbattuto le foreste per farci campi coltivati e pascoli per il bestiame, scavato miniere fino nel cuore del pianeta, per reperire materie prime per le loro centrali, fino a spoliare il pianeta di quasi tutta la sua ricchezza. Gli Emyd erano tornati, ma del loro vecchio pianeta non era rimasto molto. Probabilmente sarebbero sopravvissuti, ma essi non sarebbero stati più il popolo fiero e potente di una volta. Questa era la verità che essi stavano comprendendo, mentre si guardavano attorno smarriti. Molti si lasciarono cadere in ginocchio. E piansero.



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Racconto scritto il 29/01/2013 - 15:53
Da Alexander Schnabel
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