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UNA GIORNATA AR S. GIOVANNI DE ROMA (reparto ortopedia) febbraio 1989

Dovevo da passa’ li cinquant’anni
pe’ dove’ rimeddiacce ‘na gran botta
e ave’ ‘na spalla co’ ‘na cianca rotta
e sta’ ricoverato ar San Giovanni.
Penzi che basta quer che m’è successo?
Senti come funziona indé ‘sto cesso.


Doppo ‘na lunga notte de dolore
è ancora scuro che te pare sera
opreno tutto pe’ lava’ per tera
e ogni matina rischi er rifreddore
e a controlla’ ‘sta bella pulizzia
sarebbe da chiama’ la polizzia.


Dopp vie’ quer cornuto de Santino
co’ la cariola de le colazzioni
e pure lui ce roppe li cojoni
portanno latte e tè ma gnente vino.
A vorte guarda, scappa e nun ritorna
come pe’ dimostra’ che cià le corna.


Doppo un oretta ecchete er primario
che vie’ a vede’ le lastre der pazziente.
Passeggia tra li letti indiferente
illuminato come un lampadario
cor seguito de sette o otto “pippe”
che guasi sempre vie’ chiamata “equippe”.


E questo è certo un òmo de rispetto:
porta a bòn fine ogni operazione. (meno la mia)
Sarvete celo quanno va in penzione
e, poveraccio chi rimane a letto,
perché je basta solo fa’ ‘na mossa
che co’ du’ botte t’ariggiusta l’ossa. (meno le mie)


Parlo de lui, si, proprio de Costanzo!
Er primario che drento l’ospedale
pe’ fatte bene, prima te fa male
e je rimane sempre quarche avanzo.
È savio si, ma manco fosse matto
acchiappa er tutto e l’arigala ar gatto.

Le pippe? Lingua mia nun me fa’ un guaio.
Te vòi parlà? Ma dimme: chi te sente?
Lasseme fa’ er mestiere der pazziente
e damme retta, zitta, daje un tajo.
Che tanto er più pulito cià la rogna
e sarebbe de mettelo a la gogna.


Ma intanto so’ le dieci de matina.
Te ciai bisogno de svòta’ l’ucello
e già da un pezzo sòni er campanello
mentre che er piscio core pe’ la schina.
E si la cosa è un po’ più sostanziosa
ringrazzia er celo si nun viene Rosa.


Perché si è lei, te vie’ co’ un aria perza
e dice: -Anvedi!- Poi te da ‘no sguardo
e fa: -Oddio, ma qua ce vo’ Riccardo
che m’aiuta a cammiatte la traverza.
Poi se ne va e doppo un ora bòna
capita ch’er pazziente j’arisòna.


Ma ner frattempo er turno è già cammiato.
Viene Patrizio co’ ‘na faccia scema
che subbito te fa: -Indo sta er probblema?-
-Er probblema sei te, morammazzato!-
Ma intanto mentre sto a strilla’ e me incazzo
La merce ha già passato er materazzo.


Subbito lui comincia a fa’ la spola
tra er magazzino e la medicheria.
Poi doppo -un accidente che je pia-
se presenta co’ un paro de lenzòla
e intanto -un accidente che lo accora-
so’ già passate armeno un paro d’ora.



Così l’operazzione è rimannata
a doppo pranzo, perché già Graziella
assieme co’ la monaca sorella
stanno distribbuenno la pappata:
minestrina e bistecca senza l’osso
mentre la merce te la tenghi addosso.


Finito er pasto c’è la terapia.
Ariva Fabio con un’aria stracca
e te fa ‘na puntura su la cacca;
t’ammolla ‘na pasticca e scappa via
co le deta sur naso. Evviva Fabio!
E te navighi ancora ne lo stabbio.


È inutile strlla’, nun ce so’ santi.
Te sòni e Piero o Paolo o Carmela
s’affacceno un istante e fanno tela
li possino ammazzalli tuttiquanti.
Però, pe’ ognuno c’è ‘na bòna stella:
oggi ce so’ de turno Gianni e Ornella.


Gianni è er più mejo e Ornella è la più ricca
de còre e de coscienza. Io me vergogno?
Ma loro pe’ qualunquesia bisogno
so’ sempre li più mejo de la cricca.
Nemmanco che lo chiedo o ch’arzo un dito
e già me trovo bello che pulito.


Ma ecco è sera, so’ le dieci e passa
de un giorno come un artro in ospedale.
Massimo fa la terapia serale:
te inietta ar culo ‘na sostanza grassa
e, hai voja te a strilla’ come un ossesso
te ce vorebbe un iniezzione appresso


pe fa’ carma’ er dolore de la prima.
Ma mo scusate, adesso me ce vonno
armeno du’ pasticche pe’ pijà sonno.
Poi, so’ rimasto a corto de la rima.
E mo si posso, sì, se m’è concesso
Vojo scorda’ li guai che me da er gesso!


Ma prima de dormi’ penzo a ‘na cosa:
ar posto de la pappa, da domani
preferisco ‘na “flebbo” da ‘sti cani
che pure quella è tanto sostanziosa.
E so’ sicuro che ‘na flebbo armeno,
de quella sbobba puzzerà de meno.

PS: Questa poesia l’ho scritta nell’89 durante la mia degenza
All’ospedale S: Giovanni di Roma dove dopo un incidente
stradale sono stato ricoverato per 40 giorni e dove quel gran
chirurgo su mensionato mi ha asportato la testa dell’omero destro
perché incrinata senza inserire una protesi con la scusa che detta
protesi avrebbe la durata di 10\15 anni e che era conveniente aspettare
per fare un intervento definitivo. Pensate, sarei rimasto col braccio al
collo dai miei 56 anni fino fino a l’età di 70 anni. Inoltre la gamba destra
fratturata, per un gesso sbaliato stava andando in cancrena e grazie alle
mie invettive dopo 27 giorni è stato riaperto il gesso e la carne tumefatta
veniva a brandelli. Rifatto il gesso, l’ho dovuto portare 7 mesi.
Se avessi chiesto un risarcimento avrebbero dovuto vendere l’ospedale
ma essendo inesperto di queste cose non lo feci.
Dopo qualche anno un ortopedico guardando le radiografie mi disse che
non serviva togliere la testa dell’omero ma lasciarla in sede aspettando
che sarebbe ricresciuto il periosteo e in seguito fare un intervento
di rimodellamento e avrei recuperato il 95x100 del movimento
che ora è del 15x100 e con dolore e fatica. Insomma, mi ha reso invalido.


NB: i nomi dei personaggi citati sono tutti reali e la poesia è
stata esposta nella bacheca dell’ospedale per tutta la mia degenza.




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Racconto scritto il 28/09/2017 - 16:26
Da enio2 orsuni
Letta n.1077 volte.
Voto:
su 4 votanti


Commenti


ENIOOOOO...cosa da Roma in giù....vorrai dire la carretta dei militari! Non mi ricordo come si chiamava il treno dei soldati ....ma penso che sia ancora quello ah ah ah Non sono al corrente di mezzi io viaggio in aereo o nave Ciao simpatia aspetto un altra tua poesia.

mirella narducci 29/09/2017 - 18:21

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grazie Paolo e Francesco Grazia e Mirella
a proposito Mirella: da Roma in giù c'è qualcosa di buono: IL TRENO PER MILANOOOOO

enio2 orsuni 29/09/2017 - 17:45

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Beh, bisogna dire qualcosa. Intanto che sono rimasto incollato alle lunghissime strofe; e mi veniva da ridere, per poi scendere piano piano (o salire) verso l'amara realtà. Che dire? Intanto complimenti per questa splendida opera; ma anche per la tua fibra. Credo che tu sia un buon esempio, di come si affronta la vita..

Francesco Gentile 28/09/2017 - 23:13

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e questo è ancora poco: fui trasferito d'urgenza dallo ospedale Spolverini di Ariccia per una tac urgente al S: Giovanni
e dopo tanti rinvii dietro chiamata dell'ospedale, dietro minacce di demolire l'ospedale mi è stata fatta dopo 7 mesi così ho perso anche metà del campo visivo all'occhio sinistro. e l'epopea che ne seguì sarebbe troppo lunga da raccontare. un caro saluto a tutti e grazie della vostra solidarietà
a tutti vvb

enio2 orsuni 28/09/2017 - 20:58

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Enio ti va tutta la mia vicinanza per la tua tristissima vicenda che hai dovuto sopportare in questo ospedale. Purtroppo i casi come il tuo sono sempre più frequenti, la malasanità imperversa. Apprezzo l'ironia che sempre non ti abbandona e ci fa sorridere anche nelle situazioni più tremende. Cari saluti e serena serata.

Paolo Ciraolo 28/09/2017 - 19:23

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ENIO...la mala sanità imperversa da sempre anzi è peggiorata tutto quello che è dovuto ai cittadini che pagano le tasse viene automaticamente negato. Che te lo dico a fare da Roma in giù è tutto uno sfacelo, nel nord funziona meglio. L'Italia unita ma dove? Prova a prendere un treno anzi (il treno) perche c'è una linea sola per andare in Puglia o Calabria ci vogliono più di 6 ore. Ciao speriamo in tempi migliori

mirella narducci 28/09/2017 - 17:13

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Enio, amara, amarissima esperienza, raccontata con il tuo inconfondibile stile, ma pur sempre amarissima. C'è davvero poco da aggiungere e nulla da commentare. La storia merita zero stelle, chi la racconta almeno 1000.

Ken Hutchinson 28/09/2017 - 16:58

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La poesia mi ha fatto ridere ma non troppo, con amarezza perchè c'è poco da ridere...
ma la nota finale mi ha fatto veramente male...
Ciao Enio schietto e sincero
Grazie per il tuo commento, apprezzo tanto


Grazia Giuliani 28/09/2017 - 16:45

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