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Chi si arrende non ama... VI parte

4





Aprì gli occhi, trovandosi davanti ad un soffitto bianco e sentendosi addosso dei tubi.
Abbassò poi lo sguardo e osservò un infermiere girato di spalle intento a mettere delle cose in un armadietto.
“Ciao”.
L’uomo si girò improvvisamente guardò il ragazzo e urlò chiamando il dottore del reparto che accorse.
“Ciao Adam”, disse il medico.
“Dove mi trovo?”
“In Ospedale, sei in coma da un mese”.
“Che è successo?”
“Hai cercato ti proteggere, da un’auto che lo avrebbe investito, un bambino che ha attraversato la strada, lasciando la mano della mamma”.
“Come sta?”
“A parte lo spavento bene”.
“Che cosa sono tutti questi tubi?”
“Servono a monitorare le tue condizioni, comunque più tardi li togliamo e domani mattina ti trasferiremo di reparto”.
Adam trascorse il pomeriggio a guardare il soffitto e a pensare al sogno che aveva fatto mentre era in coma.
Continuava ad avere davanti agli occhi tutto ciò che aveva sognato.
Non dimenticava e non voleva scordare ciò che aveva incontrato nelle sue immaginazioni oniriche.
Stesso pensiero ebbe la sera prima di addormentarsi, dove non incontrò nessuna visione.
Arrivò finalmente la mattina e lo trasferirono di reparto.
Era una stanza piccola in cui c’era solo lui e di fianco un letto vuoto.
Pareti tristi di un bianco quasi pallido in voga in ogni Ospedale, tinte da una vergogna che mostrava le loro nudità.
Infondo le mura di una casa di cura non fanno altro che mostrare la vitalità dormiente di un ambiente che dovrebbe fare vedere soltanto colore e sorrisi.
Nessun dottore sa come guarire una persona, trascorrono il tempo a curare con farmaci a volte inutili, trattando i loro pazienti come cavie.
Tanto se la gente ammalata dovesse morire il loro posto di lavoro, non si tocca.
I soldi addormentano il loro entusiasmo, quando da ragazzi volevano aiutare le persone a guarire e ora sono servi col camice di una banconota padrona del mondo.
Senza contare che molti medici sono figli di papà, totalmente inetti ad amare.
La degenza in quell’Ospedale diventò lunga perché col trascorrere dei giorni i dottori si erano accorti che Adam aveva un’emorragia interna e come spesso dicono, avevano fatto il possibile ma non avrebbe retto tanto.
I giorni trascorrevano tra dolori sempre più forti e febbre.
Una notte si addormentò e si mise a sognare …
Si ritrovò dentro una stanza con pareti di ogni colore, tra quelle quattro mura non c’era niente, soltanto una scrivania con una sedia davanti a essa.
“Prego, siediti adesso arrivo”.
Il ragazzo si chiedeva da dove provenisse quel suono vocale, fece alcuni passi e si mise a sedere.
Trascorso qualche attimo, apparve Dio.
“Ciao Adam”.
“Ciao, ci si rivede”.
“Ho sentito che non te la passi bene”.
“Già”.
“E ti hanno dato per spacciato”.
“Si mi sa che tra poco vengo a trovarti”.
“Ti arrendi così?”
“I dottori mi hanno detto che non vivrò ancora a lungo”.
“Cosa ti fa pensare che la loro parola è l’ultima? Vedi possono anche aver ragione ma non possiedono la certezza”.
“Mi hanno demoralizzato”.
“Se sei convinto di morire morirai! Non arrenderti Adam. La tua vita è solo tua, non darla a nessuno!”
Il ragazzo lo guardava e sentiva in quelle parole la motivazione che cercava, era come se stesse urlando libertà.
Libertà di non essere schiavo della falsa certezza.
A un tratto poi comparve un vassoio con delle tazze e del tè.
“Ti va un tè Adam?”
“Prendere un tè con Dio, questa mi mancava”.
“Perché non si può?”
“No, dico soltanto che è insolito”.
“Preferisci da bere?”
Il vassoio spari e comparvero due bicchieri vuoti.
“Perché i bicchieri sono vuoti?”
“Prima dimmi che vuoi e te lo riempio”.
“Io prendo quello che prendi tu”.
“Ok”.
I bicchieri si riempirono di un liquido violaceo, poi apparve il ghiaccio con una cannuccia e degli ombrellini.
“Pure gli ombrellini, ghiaccio e cannuccia?”
“Volevo un po’ abbellirli, non ti piace?”
“Sì, hai fatto un bel lavoro, degno di un barman ma che roba è questo liquido viola?”
“Non lo so, ho pensato a una bevanda fatta di tanti frutti ed eccola qui”.
“Non era meglio una tequila?”
“Non bevo alcolici”.
“Ci avrei scommesso”.
“Che fai mi sfidi? Come sfidi il tuo Dio per una bevuta e non riesci a sfidare i dottori che dicono che sei un uomo morto”.
“…”
“Cos’è adesso stai zitto?”
“Hai toccato un tasto dolente”.
“E’ dolente solo se lo vuoi, io non ti ho creato solo fisico”.
“No ma serve”.
Adam sentiva che qualunque cosa avesse detto sarebbe stata sbagliata.
“Tu sei più utile e l’uomo non è solo corpo, quello è solo un coperchio e ora è meglio che bevi”.
“Ti sei arrabbiato?”
“No, mi hai sentito alzare la voce?”
“No”.
“Cercavo solo di spronarti ad agire”.
“Grazie”.
Il ragazzo poi si mise a bere e mentre beveva, ciò che aveva intorno spariva compreso Dio.
“Ricorda, vivi, perché nessuno ti regala niente”, diceva una voce che aleggiava per la stanza.
Si sveglio da quel sogno e il cielo era ancora scuro ma la notte stava salutando il vento.
Non riuscì più ad addormentarsi e rimase a guardare il cielo, ripensando al sogno che aveva fatto.
Le parole di Dio lo stavano riempiendo di convinzione.
Si promise che non avrebbe più trascorso un giorno senza ascoltarsi perché la sua anima era la prima persona che doveva avere voce.
I giorni trascorrevano e i dolori diminuivano, Adam si sottopose a una T.A.C. e i dottori videro che l’emorragia si stava riassorbendo.
Il ragazzo si faceva sempre più coraggio, le parole di Dio lo avevano caricato come non mai.
Credeva ogni giorno di più in ciò che aveva visto e sentito, nessuno gli avrebbe mai fatto credere il contrario.
Non avrebbe più dato retta a chi gli diceva determinate cose, lui avrebbe sempre e soltanto ascoltato il suo cuore perché soltanto nei cuori di ogni persona dorme la verità che aspetta di essere destata.
Un giorno il dottore del reparto entrò nella stanza del ragazzo.
“Ciao Adam”.
“Salve”.
“Le tue condizioni sono migliorate, non so come l’emorragia si è riassorbita e nei prossimi giorni dovresti uscire”.
“Anch’io non so come”.
“Sei stato fortunato?”
“No, non so come lei faccia il dottore se non lo sa fare”.
“Perché dici così?”
“Ciò che mi ha fatto guarire non è stata fortuna ma voglia di farcela mentre voi dottori vi preoccupavate solo del giorno che sarei morto, mai una parola di conforto o d’amicizia”.
“Questo non puoi dirlo, per te abbiamo fatto il possibile”.
“Per voi il possibile non è sedervi a un tavolo, studiare il caso insieme, vedere che fare ma soltanto somministrare le medicine, siete bravi soltanto a prendere lo stipendio, avete una vita appena sufficiente, guardate le persone dal basso verso l’alto, vi sentite dei padreterni, invece siete soltanto dei poveracci”.
“…”.
Il dottore poi uscì dalla stanza.
I giorni trascorrevano e le condizioni di Adam miglioravano finché non arrivò il giorno in cui sarebbe dovuto uscire.
Firmò le solite scartoffie e si diresse verso casa.
Con malinconia guardava chi come lui usciva dall’Ospedale ma al contrario del ragazzo, era accompagnato.
Lui tempo addietro aveva scelto di stare solo per ritagliarsi un po’ d’indipendenza.
La sua famiglia non voleva che se ne andasse ma lui, si era intestardito.
I suoi cari non sapevano neanche dell’incidente altrimenti sarebbero accorsi.
Lui però era un tipo taciturno e non voleva che nessuno entrasse nella sua vita, in nessun momento.
Si diresse poi verso casa, era una mattina soleggiata tirava una leggera brezza che accompagnava i molti pensieri del ragazzo.
Continuava a pensare al sogno che aveva fatto, a quello che era successo.
Le parole di Dio lo avevano spronato a ricercare la guarigione dentro di lui.
Ogni malattia è guaribile basta volerlo e ogni uomo conserva in se una forza pari a muovere qualsiasi sogno.
Niente è impossibile all’amore.
Solo noi con le nostre paure e i nostri limiti fabbricati nella nostra testa su fondamenta di niente, possiamo sconfiggere noi stessi.
Arrivò poi nel suo appartamento.
“Ciao casa!”
Si diresse nella sua stanza.
Continuava a portare con sé mille pensieri che e non voleva togliersi dalla testa.
Erano troppe le cose che aveva imparato da quella sua esperienza.
Sorrideva perché era ancora vivo e la cosa era tutt’altro che scontata.
Scontata, sarebbe stata la sua morte senza il suo risveglio.
Entrato in casa, si diresse verso il balcone della cucina e cominciò a osservare il cielo.
Si guardò le gambe immobili sulla sua sedia a rotelle e ripensò a Dio.
Era come se i suoi arti lo guardassero e gli dicessero che era ora di rivincita.
Nella Bibbia il Qoelet dice che c’è un tempo per … e un tempo per …
C’è stato un tempo in cui Adam dormiva e si accontentava ma ora sentiva più che mai che quel periodo era finito.
Fu invaso da un senso come di rabbia.
Si aggrappò con le mani alla ringhiera del balcone in cucina e cercava di tirarsi su, si sentiva pesante ma non aveva voglia di demordere.
Pensava alla sua speranza a tutti quei desideri che aveva lasciato assopiti, infondo alla sua anima.
Stava facendo molta fatica e quella giornata abbastanza calda cominciava a disegnare gocce di sudore sulla sua fronte.
L’ora di pranzo era trascorsa, aveva fame ma quella sua voglia di rivincita non voleva fermarsi.
Nel cielo poi vide apparire il volto di Dio che gli sorrideva e per lui fu un incentivo a continuare.
Le lacrime di stanchezza continuavano a uscire dalla sua fronte.
Era come sollevare un peso dieci volte più grande di lui, ma non poteva frenarsi lui credeva in quello che stava facendo.
Anche la sete cominciava a farsi sentire ma non voleva fermarsi.
Le ore intanto trascorrevano e lui continuava a stare in quella posizione.
Il colore del cielo intanto stava cambiando il vespro cominciava a mostrare un chiarore più accattivante.
Fermarsi sarebbe significato arrendersi e non era arrivato fino a quel punto per frenarsi.
In quell’istante le nemiche più grandi erano fame e sete ma non voleva sentirle.
Con la coda dell’occhio poi vide che di fianco a lui su un tavolino che teneva in balcone a poca distanza, c’era una boccia d’acqua che sembrava lo guardasse.
La aprì con i denti perché aprirla con la mano, voleva dire lasciare la ringhiera.
Bevve un sorso con cui si bagnò la bocca, si sarebbe tracannato l’intera bottiglia ma pensò che potesse andare avanti ancora per un po’, decise quindi di conservarla.
Il tempo intanto trascorreva e il crepuscolo si arrese alle avance della notte.
Nonostante che il tempo passasse lui era lì imperterrito e non aveva nessuna voglia di smettere, anche se si sentiva molto stanco.
Era una fatica immane quella che stava facendo, ma si sentiva aiutato ed era convinto che quello sforzo pesasse di più, senza quella sensazione.
La notte era cominciata ma lui non voleva cessare la sua fatica.
Da lontano si sentiva il canto dei grilli con le loro melodie tranquille che facevano compagnia al suo vestito di fatica e sudore.
Continuava a vedere il volto di Dio, nel cielo, gli sorrideva come se approvasse ciò che faceva il ragazzo e quella visione dava energia ai suoi muscoli.
Adam sentiva i morsi della fame, era forte la tentazione di fermarsi ma sarebbe stato un fallimento per lui arrendersi ora.
La fatica aveva portato con sé il sonno ed erano numerosi gli sbadigli che uscivano dalla sua bocca.
I suoi occhi guardavano il riposo delle luci ormai spente.
La brezza si era fatta più fitta c’era un po’ di fresco, il ragazzo indossava una t-shirt a maniche corte ma quel vento sembrava non colpirlo.
Aveva intorno a lui come un’aurea di pensieri bloccati dalla fatica che gli faceva ascoltare soltanto i suoi sforzi.
Stringeva gli occhi per disegnare un buio che gli teneva compagnia, nel quale vedeva mille facce alcune che conosceva altre no che lo incitavano a continuare.
Aprì per un attimo lo sguardo e vide che il cielo stava mutando il suo colore mostrando gli sbadigli arancioni di un’alba ancora assonnata.
Stava nascendo un nuovo giorno e lui era ancora lì, aggrappato a una ringhiera che cercava di sollevare la sua speranza.
Un uccellino si posò sul parapetto lo guardò e cinguettò come a dirgli che avrebbe fatto il tifo per lui.
Adam aprì gli occhi, sorrise e l’animale volò via.
Lo stomaco urlò ma fu indifferente a quel lamento.
La fatica che faceva trasportava con sé una gran fame ma lui se ne fregava e continuava.
Le sue sensazioni fisiche erano come urla che incitavano alla resa.
Cercava di alzarsi ma era come se un macigno lo schiacciasse verso terra.
Guardò nuovamente nel cielo e rivide Dio che gli sorrideva e per lui era un incentivo a continuare.
Respirava affannosamente ma quello era il respiro della sua vita fatta di salite senza fine.
Raramente aveva trovato strade che riposavano su una pianura senza tempo.
Era uno sforzo immane, quello che faceva per risollevare il suo corpo incatenato da un male che affondava le sue radici nel silenzio.
Ora però era il momento di parlare, l’ora della voce senza suono era morta.
L’unica voce che sentiva era l’urlo della sua anima …
“Puoi farcela, non mollare!”
Il tempo intanto trascorreva, non sentiva i minuti ma soltanto il suo tempo.
La sua ostinazione non cessava, per lui quello era l’ultimo round e nessuno l’avrebbe messo ko né la fame né la stanchezza.
Sapeva che solo ciò che in lui era male, voleva che si fermasse.
Era passato qualche tempo ma non aveva intenzione di fermarsi.
“Chi si arrende non ama!”, sentiva urlare dal suo cuore.
Era convinto che fosse Dio a incitarlo ed era quella voce a motivarlo.
Il tempo intanto trascorreva tra fatica e sudore.
Sentiva dolore alle mani, prima era un lieve bruciore ma ora quella sofferenza cominciava a parlare.
Spostò i suoi palmi e vide la ringhiera che si era tinta di rosso.
Girò allora le mani per guardarsele e vide che aveva un taglio per ognuna, non era una ferita profonda ma usciva del sangue.
Forse nella foga Adam aveva stretto troppo il metallo un po’ ruvido di quel parapetto, doveva almeno metterci dei cerotti ma andarli a prendere voleva dire fermarsi e lui non voleva.
Adesso oltre alla fatica che stava facendo, doveva anche sopportare quella sofferenza.
L’ora di pranzo era vicina, lo stomaco urlava ma la voce della sua anima era più forte.
Chiuse gli occhi e cominciò a concentrarsi sul suo dolore.
Per cacciarlo pensava a quanto fosse più grande il dolore di qualcuno che si arrende all’evidenza senza provare a cambiare le cose.
I suoi giorni anche quelli con il sorriso erano stati vissuti a metà, non si era mai veramente sentito completo, ed era ora che quei giorni terminassero.
Voleva prendersi tutto e voleva farlo adesso.
Non aveva più intenzione di limitarsi, lo aveva fatto per troppo tempo ed era ormai stanco di quella vita.
Le ore continuavano a trascorrere, il cielo stava cambiandosi l’abito e si stava vestendo con un indumento più scuro.
Adam era stremato ma la sua stanchezza non era più grande del suo sogno.
Aveva voglia di fermarsi ma quando pensava di smettere nel cielo appariva Dio che gli sorrideva ed era invaso da un vento di forza e coraggio.
Pensò a quando da ragazzo andava a giocare e divertirsi con gli amici, quel tempo era lontano ma lui si sarebbe riavvicinato a quegli istanti.
No, non era solo il tornare a muoversi o correre che voleva, il suo era desiderio di farcela.
Tornare a camminare è un sogno di chi non può farlo, ma è inutile se non dai un senso, a ciò che fai.
Riuscire in quello è soltanto la punta dell’iceberg.
Andando a piedi, percorri strada ma le gambe sono soltanto piccoli passi ciò che ti permette di viaggiare della vita è ciò che riesci a saper guardare con la tua testa.
Adam sentiva i morsi della fame, gli occhi pesanti, dolore nelle mani e nel corpo.
“Non ce la faccio più, mi fermo”.
Vide poi Dio nel cielo ma stavolta non sorrideva.
Il ragazzo si sentiva in colpa per aver tolto il sorriso a quello che per lui era un amico e come tale non andava deluso.
Per tutta la notte offrì al vento i suoi respiri di fatica, l’acqua, anche se bevuta a piccoli sorsi era finita.
Fu così anche per tutto il giorno successivo.
Le mani si erano gonfiate, la fronte madida di sudore, aveva fame e anche sete, la fatica lo stava assalendo.
Cominciava ad avere delle nausee e si sentiva addosso un'enorme fatica, ogni forza fisica ormai l’aveva abbandonato.
Fece un ultimo sforzo per tirarsi su.
Gettò un urlo …
“Ah!”
Svenne e ci fu il nulla.
Si risvegliò tre giorni dopo.
Quando aprì gli occhi, si trovò sul suo letto.
“Che ci faccio io qui?”
“Finalmente ti sei svegliato”.
Il ragazzo mosse lo sguardo verso quella voce ed era Amireh.
“Sei reale allora?”
“Certo”.
“Da quant’è che sono qui?”
“Tre giorni”.
“E tu sei rimasta qui con me?”
“Sì, Dio mi ha chiesto di controllarti”.
“Lui?”
“Era impegnato e non è potuto venire”.
“Ricordo che stavo in balcone che volevo alzarmi credo di essere svenuto perché non ricordo niente”.
“Sì sei svenuto, ti ho messo io a letto”.
Il ragazzo poi si guardava le mani, ma le vide completamente guarite”.
“Le mie ferite sulle mani?”
“Te le ho medicate io”.
“Complimenti hai fatto proprio un buon lavoro”.
“Grazie”.
“Ti dispiace prendermi un po’ d’acqua?”
“Perché non puoi andarci tu?”
“E come?”
“Come ci andrebbe una persona che ha sete … camminando”.
“…”
“Prova ad alzarti”
Adam provò a muovere le dita dei piedi.
Fu un po’ faticoso ma dopo qualche attimo li vide spostarsi.
“Si muovono!”
Dopo quell’urlo scoppiò in lacrime.
Erano anni ormai che i suoi arti erano muti e non gli sembrava vero.
Provò poi a muovere polpacci e ginocchia che restituirono ad Adam un timido gesto.
L’emozione che ebbe fu grande e stava piangendo di gioia.
Infine tentò di spostare le cosce e anche quella parte di corpo gli obbedì.
Provò ad alzarsi.
“Forza Adam, puoi farcela”.
Dopo tanto tempo trascorso immobile aveva quasi paura a mettersi in piedi.
“E se poi cado?”
“Ti rialzi”.
Poggiò i piedi in terra e si sollevò dal letto.
Provò poi a muovere qualche piccolo passo.
“Queste ti possono aiutare”.
Amireh fece comparire delle stampelle e le diede al ragazzo.
“Sì, grazie”.
Sorrideva felice era sicuramente quella l’emozione più grande che avesse mai provato.
Era vero che i sogni potevano realizzarsi se uno ci credeva.
Quello che stava facendo per lui era sempre stato soltanto un sogno.
Ogni piccolo passo era un mattone per fabbricare la sua nuova vita.
Tutto adesso sarebbe cominciato da capo e sarebbe stato come rinascere.
Aveva lasciato che i suoi occhi cominciassero ad aprirsi.
Ogni cosa aveva profumo di eterno.
“Amireh”.
Non rispose nessuno.
“Amireh”.
La risposta continuò a essere buia.
Adam allora decise di rigirarsi e tornare verso la sua stanza.
Qualche passo dopo …
“Amireh, perché non rispondi?”
Vide che la sua camera era vuota e c’era un foglio sul letto.
Andò verso quella pagina bianca.
C’era scritto qualcosa sopra e lo lesse.
“Te la caverai bene da solo, ora. Ciao Amireh”.




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Racconto scritto il 01/09/2014 - 20:39
Da Giuseppe Greco
Letta n.939 volte.
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