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I CAPPONI DI NONNA GINA

A metà degli anni cinquanta, in molte case rurali della pianura padana e dell’appennino parmense, l’economia della famiglia contadina era basata oltre che sull’allevamento di capi di bestiame come mucche, asini e cavalli anche su quello di diverse specie di animali da cortile, in particolare polli, maiali, tacchini, oche e anatre, per soddisfare le necessità alimentari dei numerosi membri del nucleo famigliare.
Pertanto alla fine dell’inverno la padrona di casa “reclutava” nel pollaio alcune chiocce per far loro covare le uova, dalle quali, dopo circa venti giorni, sarebbero nati i primi pulcini.
Nel giro di qualche mese, pertanto, il pollaio era rinnovato dalle nuove leve di pollastrelle e galletti che sostituivano le vecchie galline finite in pentola.
A primavera avanzata, quando i tempi erano maturi, nonna Gina sceglieva il galletto più fortunato da lasciare con le giovani pollastrelle per svolgere il suo compito di “gallo del pollaio”, mentre tutti gli altri galletti (meno uno di riserva nel caso il gallo sopra menzionato non fosse stato idoneo al suo compito) sarebbero stati destinati (ahimè!) al rito della castrazione per diventare prelibati capponi.
Così di buon mattino, tenuti i giovani galletti a digiuno dalla sera precedente, uno per volta, prelevati dal recinto del pollaio, con l’ausilio di un rasoio da barbiere, un paio di forbici, una bacinella di acqua fresca, ago, filo di cotone e ditale, nonna Gina procedeva all’intervento chirurgico.
Dapprima il povero pollo, a capo in giù e con le zampe bloccate, era spennato nella parte posteriore, poi, senza anestesia naturalmente, col rasoio affilato si procedeva al taglio della pelle per la lunghezza di alcuni centimetri al fine di avere accesso con almeno due dita della mano all’interno della cavità toracica, appena sopra la schiena del pollo, dove naturalmente erano collocati gli organi sessuali che letteralmente sarebbero stati strappati dalla loro sede.
Una volta raggiunto lo scopo (a volte l’intervento riusciva a metà per la difficoltà di raggiungere il punto esatto) al pollo erano sistemate alla bell’e meglio le interiora eventualmente fuoruscite e poi la pelle addominale ricucita con ago e filo.
Le disavventure del povero pollo non erano terminate: per renderlo riconoscibile come “cappone” era tagliata col rasoio la cresta e con le forbici i bargigli.
Poi un tuffo della testa dell’acqua fresca - per rinfrancarsi le idee (!?!) – una manciata di piume appiccicate sulle ferite a mo’ di cotone emostatico e via nel recinto dei castrati, dove sarebbe rimasto per alcuni giorni di convalescenza.
I più robusti dopo lo shock iniziale si riprendevano velocemente nella loro nuova veste di “eunuchi”, i più deboli invece, è il caso di dirlo, ci lasciavano le penne.
Trascorsa l’estate, ingrassati a dovere con cereali e vitamine, al calar dell’autunno i capponi passavano tutti a miglior vita nel freezer per andare a esprimere la loro migliore “performance” nel prelibato brodo di cottura degli anolini di Natale.



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Opera scritta il 17/03/2019 - 23:07
Da Domenico De Marenghi
Letta n.785 volte.
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Commenti


Un racconto "verista" che ha il pregio di descrivere tempi che non torneranno mai più. Al giorno d'oggi i pochi contadini che fanno la castrazione, la fanno per via chimica...gli altri comperano i giovani capponi, anch'essi castrati chimicamente.
Scritto anche bene. Ciao.

Giacomo C. Collins 18/03/2019 - 14:49

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