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LE MASCHERE

Era notte. Una notte fonda, ma piacevole.
Le stelle illuminavano il cielo e io, da quello scomodo sedile del treno mi divertivo ad osservare le costellazioni.
Le riconoscevo tutte: orsa maggiore, piccolo carro, leone, toro…
Per me il cielo era come un disegno, pieno di colori e nuove immagini da scoprire.
Mi stavo dirigendo verso la casa di una psicologa sotto consiglio dei miei genitori.
Ero vittima di bullismo, un male che mi aveva distrutto la mente,, perchè certe volte crea più dolore di un calcio violento.
Il treno spesso barcollava e mi faceva sobbalzare sul sedile.
Eravamo pochi viaggiatori: due uomini, sulla quarantina, alla mia sinistra, e tre donne belle e giovani davanti a me.
Mi stavo per addormentare quando sentii la voce metallica del capotreno pronunciare: “Fermata due, Lecco”.
La mia mente si illuminò: dovevo scendere.
Una strada all’apparenza deserta si presentava davanti ai miei occhi.
Mi accorsi che una nebbia fitta mi invadeva, non si vedeva nulla, solo la luce fioca di alcune case immerse nell’oscurità.
Iniziai a camminare a passo svelto, altrimenti sarei arrivato in ritardo e la puntualità è uno dei miei punti di forza.
Subito una strana sensazione mi avvolse, ma pensai che fosse a causa della stanchezza.
Vedevo le poche persone presenti in strada con al viso delle maschere, che ne oscuravano le identità.
La nebbia si stava piano piano diradando e il paese iniziava ad accogliermi con le sue prime case.
Pochi isolati e sarei arrivato.
Finalmente. dopo quasi un’ora di cammino raggiunsi una casa.
Era la sua.
Premetti il campanello e la voce di una donna sulla mezza età domandò: “Chi è?” “Sono Giacomo” risposi un po’ titubante. “Oh, ti stavo aspettando, prego entra pure.” concluse la donna.
Appena varcai la soglia di casa un odore nauseabondo di lavanda evase le vie respiratorie.
L’appartamento era piccolo, su un unico piano; degli oggetti strani e un tantino bizzarri si trovavano sugli scaffali.
Pareva di essere nella casa di una fata. Mi scappò un risolino.
“C’è qualche problema caro?” “No...no…” risposi imbarazzato.
“Prego, accomodati” aggiunse la signora.
Mi sedetti su una poltrona alquanto bizzarra, ma comoda.
Iniziammo a parlare di me, fino a quando mi pose la domanda peggiore che potesse rivolgermi: “Cosa ti è successo?”
Io… io non lo sapevo, mi erano successe talmente tante cose che ora erano sparse nella mia mente e proprio non riuscivo a dirle.
Provai a cambiare argomento, ma lei mi disse: “Non avere paura…”
Solo mentre pronunciava quelle parole mi resi conto che il suo volto stava cambiando, si stava trasformando in Beatrice, la bulla che mi aveva fin da sempre tormentato.
“Non avere paura, dai…” Ripetè.
Anche la sua voce stava mutando, era stridula, la stessa che mi sembrava di udire tutti i giorni quando tornavo a casa da quell’inferno della mia scuola.
“Non avere paura…”
I suoi vestiti da fata erano diventati neri, proprio come quelli di Beatrice. Il collo le si era allungato e i capelli scuri le scendevano lungo la schiena.
Notai solo un particolare: aveva una maschera bianca sul volto, simbolo della perdita della sua identità.
Ed ecco che iniziarono a comparire tutti i miei compagni di classe: Luca, Luisa, Alessia, Gianni…
C’erano tutti e tutti avevano la maschera.
Lanciai un urlo di terrore e mi misi a correre per tutta la città.
Ogni tanto mi voltavo e li vedevo, parevano leoni arrabbiati contro di me che mi inseguivano pronti a sbranarmi.
Ad un certo punto però, sentii che i passi alle mie spalle si stavano fermando… Poi degli urli, uno dopo l’altro, forti e taglienti.
Mi voltai e solo in quel momento scoprii l’identità delle maschere: avevano rubato l’anima ad alcuni miei compagni che ora erano spariti.
Lanciai un urlo di terrore e mi misi correre ancor più velocemente.
Ogni tanto sentivo delle grida e i miei compagni sparivano.
Erano rimasti in cinque: Alessia, Marco, Nicola e Sara.
Loro erano i peggiori, era di loro che avevo il massimo terrore.
Le gambe non mi reggevano più dalla stanchezza; le maschere avevano rapito l’anima anche degli altri.
Ed ora era rimasta solo lei: Beatrice Gardner.
Il mio corpo sottile e minuto ormai non reggeva più.
Vidi un angolino nascosto tra le case in lontananza.
Pensai di nascondermi lì.
Beatrice mi inseguiva rapidamente e non sembrava nemmeno stanca…
“Ancora uno sforzo… ancora uno sforza dai!” ripetevo tra me e me.
Il nascondiglio si faceva sempre più nitido e vicino, ma Beatrice mi inseguiva correndo sempre più veloce.
Finalmente svoltai l’angolo e sentii un grido più tagliente degli altri; sembrava spezzare il tronco di tutti gli alberi e...e poi… mi ritrovai solo nel mio letto, il cuore mi batteva forte nel petto: TUM, TUM, TUM…
Presi il giornale dal mio comodino e lessi: Beatrice Gardner, morta in un incidente stradale.



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Opera scritta il 24/03/2020 - 20:30
Da Eleonora Bassi
Letta n.758 volte.
Voto:
su 4 votanti


Commenti


Brava, scritto molto bene, un testo che si fa leggere tutto d'un fiato...

Grazia Giuliani 26/03/2020 - 18:18

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Un gran bel racconto,complimenti!

Maria Luisa Bandiera 26/03/2020 - 09:41

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Che emozione leggere un racconto dove Giacomo ( il mio nome ) racconta di questo suo incubo in prima persona. Un racconto originale, ben scritto, tant'è che si legge come se si stesse pedalando in discesa, e dal quale posso trarre alcuni spunti, dal momento che mi piace questo genere onirico che però è uno dei pochi, insieme al fantascientifico, che non mi riesce bene, come scrittore. Brava, ti aspetto con altri racconti.

Giacomo C. Collins 26/03/2020 - 07:25

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Un bel racconto...quasi una catarsi per vincere la sofferenza. Brava

Margherita Pisano 25/03/2020 - 23:54

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