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Pietra Rosa - Storia vera di una piccola emigrante (prima parte)

Cinque sassi nella memoria
Tamburellare con le dita sul tavolo a ritmo di tango, con la mano destra e con la sinistra sgranocchiare (si può dire sgranocchiare?) nespole un po’ rattrappite dal sole mi aiuta a sopportare questo caldo malaticcio. La pigrizia ha ormai conquistato ogni mia cellula. I noccioli delle nespole sono grandi e hanno un bel colore non particolarmente definito. Non so dove metterli. Li poggio sul tavolo, ne faccio un bel mucchietto. Li guardo, ho mangiato troppe nespole. Un brano del vangelo degli Esseni dice di fare attenzione a quanto mangiamo, che bisogna mangiare sempre meno di un terzo solo così saremo graditi agli occhi di Dio. Diavolo tentatore. Smetto di mangiare mentre continuo a tamburellare guardando quei noccioli lisci, levigati, quasi tutti uguali. Quasi inconsciamente ma con maestria atavica inizio a giocare con cinque di essi facendoli girare e rigirare ora sul dorso ora sul palmo della mano. Questo gioco mi riporta inconsapevolmente indietro negli anni. Mi ricorda tutto ciò che cercavo sistematicamente di evitare di far riaffiorare nella mente. A volte si rimuovono soprattutto le cose belle, perché la speranza di poterle rivivere, man mano che il tempo passa si affievolisce sempre di più fino a scomparire del tutto, lasciando il posto alla consapevolezza che ricordarle fa solo soffrire. Per fortuna questo ostinato ricordo che si stava diramando nelle vene sostituendone il contenuto, fagocitandolo, non mi provocava nessun malessere. Anzi, una pace inaspettata si impossessava di me. Che strano! Il caldo afoso, come per magia lasciò il posto a un fresco venticello dal sapore mielato, tanta era la sensazione di piacere che scivolava sulla pelle sudaticcia. Sto bene in questo momento. Ho cinque splendidi sassi nella memoria. Nel silenzio che mi circonda, sento un tumulto di immagini e suoni lontani, vissuti, é come se il passato tornasse in piena a ricordarmi che il mio percorso non ha ancora raggiunto la meta. Questa brezza calma e potente mi porta gli odori dei giorni lontani, trasporta i miei pensieri. Non avrei potuto decidere di iniziare il racconto della mia esistenza in un momento migliore. Prendo carta e penna e incomincio a scrivere, così… di getto, senza neppure riflettere. Come se qualcuno mi stesse dettando la mia vita fino ad oggi. Eh si! La mia esistenza. Il mio viaggio su questa terra non ancora terminato.
Questo viaggio che, mi auguro, rivivrete insieme a me, è la mia storia. Non è l’esatta cronologia di eventi bellici o di tempi rispettati col tempo in cui si sono susseguiti. Probabilmente è una confusione di ricordi, oppure un ordine metodico. Chi può dirlo? È, comunque, la mia gioia, il mio dolore, la mia ansia, il mio male e il mio bene. E’ la mia vita così come é stata confusamente rivissuta e confusamente riordinata con pezzi di memoria mia e dei miei cari. Mai abbandonare i sogni. Le illusioni supportate dalla speranza offuscano perfino le certezze delle grandi delusioni.
In questo momento mi sento un ingegnere che si accinge a costruire un ponte calcolandone la portata e come lui non ha bisogno di dimostrazioni per convincersi che la prova di carico alla fine sarà positiva perché ha fiducia in se stesso e nelle sue capacità così io, mattone dopo mattone, magari con ricordi un po’ sfocati e scalfiti dal tempo, ricostruirò questa meravigliosa gita che è stata la mia vita. Senza masticare l’inutile rabbia nel ricordare i giorni tristi chiudendomi in un sacco per sfuggire alle mie responsabilità. Ora sono in grado di togliermi le mille maschere che, mio malgrado, ho dovuto indossare. Consapevole di avere il diritto di vivere felice mi sento finalmente padrona di me stessa. Anche nei momenti meno radiosi ho imparato a spalancare le braccia e volare, a prendere la vita nelle mie mani e farmi seguire. Non sento il bisogno di gratificarmi per i traguardi raggiunti ma il bisogno di raggiungere ancora mete desiderate. Ora mi guardo intorno e mi dico: “chi può impedirmi di fare ciò che desidero? Le piante, i fiori, il cielo con i suoi astri? No! Solo io potrei se volessi e non voglio.”


La forza interiore e la fiducia in me stessa mi impediscono, oggi, di fare discorsi sospesi nell’aria nel tentativo di cercare l’essenza inglobata dentro di me ma mi spronano a catapultarmi nella realtà e nella lotta per realizzare i miei desideri.
Io e mia madre
“-Non è possibile trascorrere, una vita intera, avendo nella testa la fucina di un fabbro matto che lavora giorno e notte battendo instancabilmente il martello sullo stesso pezzo di ferro. Maturità significa affrontare e superare le difficoltà della vita, essere flessibile senza rigidità mentale. Est modus in rebus (c’è una misura in tutto): la moderatezza, l’equilibrio e l’armonia sono le vere virtù verso le quali ogni essere umano dovrebbe protendere. La giusta misura permette di trovare l’asse di separazione tra l’essere e il non essere, tra il bene e il male, tra realtà e idealità. Se Icaro non avesse preteso di innalzarsi sempre più in alto le sue ali di cera non si sarebbero sciolte. Non bisogna farsi prendere dall’ebbrezza del troppo volere ma imparare a godere di ciò che si possiede. Solo così le nostre ali non si scioglieranno.”
-“Mamma, io sono un’emigrante per forza. Non è stata una mia scelta. Per te è diverso. Per papà è diverso. Avete scelto voi di venire qua. Solo il cielo si tenne fuori per fortuna, glielo chiesi io al cielo. Che mi portino pure via io resterò qui per sempre. Ci resterò assaporando il nulla, il sapore delizioso del nulla. Mi calerò nel vuoto del nulla fatto solo di luce senza immagini ma solo colori che si muovono, si sfiorano, si carezzano, si penetrano, cambiano. Il vuoto sarà la mia musica suonata da nessun musicista sarà la mia opera d’arte dipinta da nessun pennello. Sarò leggera nel mio vuoto, non mi farà vomitare e mi farà solo volare come i piccioni di piazza San Marco. Piccoli voli, bassi, lenti, voluti. Mi poserò solo dove vorrò e lì, farò riemergere e materializzare ciò che voglio.”
Di certo nei miei geni non c’era il concetto dell’accontentarsi bensì l’impertinenza di proiettare, in certi momenti, persino le cose piacevoli in una dimensione irreale di consistenza per niente idilliaca. I miei pensieri sono restati troppo a lungo senza voce. Nessuno li avrebbe ascoltati. Che importanza poteva avere il desiderio e il volere di una bambina? Avrete senz’altro assistito a scene in cui mamme, nonne, strozzano letteralmente il pianto di un bimbo che prova dolore, conficcandogli il ciucciotto in bocca, negandogli, quindi, la soddisfazione di dare sfogo al proprio dolore nell’unico modo che sa e che può. Questo succede non per il bene del piccolo, bensì per lenire egoisticamente, l’angoscia che provocano loro, le grida del bambino. Con questo voglio semplicemente dire che nella vita bisogna analizzare tutto, se ti capita di crogiolarti in situazioni create da altri, fermati un attimo. Ti stai crogiolando per un tuo desiderio o per una situazione che fa comodo a qualcuno? E quindi il tuo appagamento non è altro che un adattamento? L’intelletto tende a conformarsi alla realtà delle cose. Anche se nella vita bisogna, purtroppo percorrere sentieri che non abbiamo scelto noi, mai abbandonare la lotta. Si va avanti comunque ma la speranza che il nostro sogno si realizzi continua a crescerci dentro, anche denutrito è sempre lì come un debole fuoco che non si spegne mai, pronto a divampare prepotente al primo alito di vento. E ti riempie, ti riscalda e ti arma di nuovo. Anche quando è la disperazione a farti piegare le ginocchia quel punto fisso, quel sogno è lì che prende vita e ti dice chi sei e cosa vuoi. Ti insegna la strada della speranza e come spegnere le tue paure per condurti dritto verso la realizzazione del tuo sogno. Questa era la voce della speranza. No, non dovevo arrendermi ma affrontare i miei fallimenti. Trarre da essi gli insegnamenti per raggiungere il mio sogno.
I tuoi fratelli non si comportano così.
Mamma tu dimentichi i miei ricordi, io avevo sette anni, ero grande e nello stesso tempo troppo piccola per rendermi conto e accettare il cambiamento. Maria invece era contenta della partenza perché l’aveva accettata con gioia per il suo spirito avventuriero e Francesco era troppo piccolo per ricordare e per questo non ha nostalgia. Di cosa o di chi dovrebbe averla? Non posso nemmeno dire che si è adattato, che si è arreso. La sua vita è iniziata qui è
una piantina che tu hai comprato dal fioraio piccola piccola ma è cresciuta nel tuo giardino dove l’hai trapiantata. Cosa vuoi che ricordi una pianta piccola del terreno dove è stata seminata?. Io non mi adatto, non ci riesco, e non riesco nemmeno ad arrendermi !
Basta! Non ne posso più. Questo conflitto interiore ti ha fatto e ti farà vivere male. Vuoi capirlo? Tu hai bisogno di una tranquilla riflessione per penetrare in te stessa, solo così facendo acquisterai coscienza ed entrerai in comunicazione con la tua vita reale ottenendo una visione più chiara del quotidiano e attingere a riserve inaspettate di adattamento. Vorrei che tu riconoscessi i tuoi difetti, i tuoi torti dando prova di equilibrio e forza.
Su questo devo darti ragione. Non sono mai riuscita a conformarmi alla realtà delle cose. Il mio intelletto non è tanto intelligente. Anche se spesso sognare mi appaga più della realtà. I sogni non mi decurtano di nulla anzi, mi arricchiscono e mi fortificano dando alla mia vita lo scopo per raggiungere la meta desiderata.
Si, però stai spendendo la mia anima e alimentando la mia angoscia. Credi sia facile per me vedere, giorno dopo giorno, per anni, infranta la soddisfazione dei tuoi desideri? Credi sia facile non sentirsi in colpa?
Ma cosa dici? Non te ne faccio una colpa. Ci mancherebbe. È che mi sento mutilata di una parte di me e per questo motivo non smetto di sognare perché così facendo mi impadronisco della vita che avrei voluto e che vorrei. Con questo non voglio dire che la vita, qui, non mi abbia dato delle soddisfazioni
Prima o poi questa ricongiunzione la farai ne sono certa. Ammiro comunque la tua forza e la tua determinazione. Io invece mi sono arresa e rassegnata da tanto tempo.
Grazie mamma sapevo che in cuor tuo ha sempre albergato il mio stesso desiderio e solo per non rattristarmi non me ne avevi mai parlato. Ora abbracciami.
Sei rimasta una bambina. Vieni qua. Ti voglio bene.
La decisione
L’aveva presa mio padre la decisione di lasciare la nostra terra per raggiungere il nonno in Argentina. Il nonno era lì da trentatrè anni, non conosceva i suoi figli giacché li aveva abbandonati in tenera età.
Il perché? Nessuno ha mai osato dirmelo e ancora oggi non lo so.
La guerra era ormai finita da tredici anni. Nonostante ciò mio padre giustificò la sua decisione avanzando la paura di un’altra guerra. Non voleva che i suoi figli potessero vivere gli orrori vissuti da lui.
Avrei potuto capire e avvalorare questa scelta se fosse stata presa nel primo dopoguerra quando tutto intorno era uno sfacelo: fame, miseria, degrado di ogni genere, incertezza per il proprio futuro e soprattutto per quello dei figli.
Avevo appena quattro anni quando incominciarono i primi discorsi sulla partenza per l’Argentina.
In Europa imperava la guerra fredda. Infatti, il conflitto politico e ideologico tra i blocchi occidentale e orientale, guidati rispettivamente da Stati uniti e Unione sovietica dopo la seconda guerra mondiale, faceva temere un’altra imminente guerra e chi, come mio padre l’aveva vissuta sulla propria pelle ne era naturalmente terrorizzato.
Di questo terrore se ne parlava spesso, oggi ho capito l’esatto peso che ha avuto sulla decisione della nostra partenza. La guerra, non era finita affatto. Continuava dentro mio padre. La sua guerra non riusciva a raccontarla, non era diventata storia. Lui combatteva ogni giorno contro le ombre della sua sofferenza, della sua paura. La fetta più grossa quindi era rappresentata dalla incapacità di rimuovere, digerire quel passato bellico che gli ribolliva, sempre presente, dentro. Il resto, che rappresentava solo una goccia nel grande mare della paura, era il desiderio di mia madre di vedere suo padre. Dico vedere perché ormai non lo ricordava più.
Comunque a quel tempo, data la mia tenera età, i discorsi sulla guerra, la partenza, l’Argentina li ascoltavo ma, senza peso.
Osservavo mio padre mentre caricava con cura la nostra poca roba su un carro: le valigie con i nostri effetti personali, la macchina per cucire della mamma e tutto ciò che era possibile trasportare. I vicini di casa lo aiutavano tutti in un profondo silenzio come se qualcuno stesse per morire. Questo macellaio di poco più di trent’anni ne aveva combattute tante di battaglie, ne aveva fatte tante di lotte per la vita. Quest’uomo forte, rotto a tutte le sofferenze, caricando la sua roba sul carro piangeva. Lo guardavo ma non mi rendevo conto del perché di quelle lacrime.
- Papà dove andiamo? - Chiesi con la voce tremante.
Avevo sette anni, feci questa domanda come volessi esorcizzare una risposta che già conoscevo. Man mano che l’auto si allontanava da quel mucchio di case abbarbicate sul cocuzzolo della collina, tutte abbracciate come per difendersi e darsi calore a vicenda, gli occhi si riempivano di lacrime. Da mio padre non ebbi nessuna risposta al momento, fece finta di non aver sentito. Probabilmente voleva avere il tempo di digerire quella partenza che, sebbene fosse stata programmata da lungo tempo, sembrava improvvisa e non ancora assimilata. Voleva avere più tempo per darmi una risposta con animo più sereno e per trasmettermi una fiducia che in questo momento non aveva. Tacendo credeva di attutire il dolore come se le parole potessero ingigantirlo ulteriormente.e Del resto chi non rimanda un dolore fino al momento in cui inevitabilmente dovrà cozzarci contro?
Nonostante ciò aveva un’aria da conquistadores e nello stesso tempo da desaparacidos e questo conflitto interiore si traduceva in nient’altro che sofferenza; sicuramente soffriva più di me. La sua sofferenza era la mia sovraccaricata dalle responsabilità, dall’insicurezza e dall’ignoto.
Diedi un’ultima occhiata al mio presepe, alla mia capanna dal tetto rosso prima che scomparisse definitivamente dalla mia vista. Mio padre doveva sentirsi, come Giuseppe quando , in groppa al suo asinello, con Maria vagava alla ricerca di un posto sicuro dove poter far nascere e crescere il proprio bambino.
Io avrei voluto essere la principessa normanna Pollina e peregrinare con il mio zar Ayub fino a raggiungere quel “pizzo”, di quella collina, con quelle case e sceglierlo come lei, quale oasi felice dove farci consumare, fino alla morte, solo dal nostro amore….
Il luogo dal quale quasi scappavamo io e la mia famiglia sarebbe stato il mio punto di arrivo, il mio nido per sempre.
Che grande angoscia trasmette il sognare di arrivare, alla fine del lungo viaggio intrapreso, nel luogo da dove si parte con la consapevolezza che tutto ciò non è altro che fantasia.
Si prova per questo una sensazione strana, ma non così strana se si pensa che il vento, quando soffia, porta via dai rami le foglie, i fiori e talvolta anche i frutti, ma le radici restano salde nel terreno, pure quelle degli alberi più teneri, forse di più perché loro si piegano, “con tenerezza”, al suo volere, ora di qua ora di là.
Proprio come me.
Il vento, in quella partenza che non riuscivo a comprendere, era per me, mio padre, al quale ripetei la domanda:
Papà dove stiamo andando?
Questa volta lui mi guardò, mi sorrise e sfiorandomi il capo:
- andiamo a raggiungere il nonno in un paese molto lontano, ma molto bello vedrai, ti piacerà, ma poi ritorneremo.
Avrei voluto rispondergli:
E a te piacerà?
Ma stetti in silenzio, assentii con un lieve sorriso e come un ramoscello mi piegai al suo volere. Che altro avrei potuto fare?
C’era sicuramente un valido motivo per il quale mio padre aveva preso la decisione di abbandonare tutto, racimolare le poche cose che avevamo, chiuderle in quattro valigie e dire addio alla nostra collina e soprattutto c’era voluto molto coraggio.
Era il 1958 esattamente il quindici maggio quando lasciammo Pollina.
La salita erta, che bisognava percorrere per raggiungerla valeva la pena perché una volta in cima era cielo, mare, rocce, alberi, uno schieramento della natura che io immaginavo come gendarmi armati di tutto punto messi lì da Dio per proteggere la mia Pollina e me.
Scolpii quello spettacolo nella mia memoria rivestendolo di polverina magica con l’imprimatur del cielo e dissi:
- io sono un uccello, una rondine e un giorno ritornerò. Tu conserva per me un piccolo nido come hai fatto per la principessa Pollina. Anche se io sono solo la piccola Aurora .
Quando mi voltai di nuovo il paesaggio era completamente cambiato eppure vedevo le mie rocce che imperavano sulla vallata e adornavano il mio paese come un enorme cespuglio di rose perennemente in fiore.
La Pietra Rosa stava a pochi passi da casa mia e insieme al bellissimo anfiteatro erano sempre stati testimoni dei miei molti momenti di giochi, delle passeggiate con le zie e i cugini, del cammino di mia madre quando andava, a lavare i panni alla vasca pubblica perché nelle case non c’era l’acqua.
Durante una passeggiata con la mamma, ci fermammo accanto al muro che costeggiava la stradina a valle delle abitazioni. Quella stradina sembrava un anello con inciso sul suo suolo orme grandi, piccole, sicure, insicure, forti, deboli, claudicanti e anche qualche triste orma accoppiata al buco di un bastone. Aveva lo stesso simbolo di un anello nuziale, circondava quel pizzo di collina come per dire a tutto il mondo Pollina è mia, è la mia sposa e la proteggeva dal dirupo col suo alto muro dove mamma mi diceva: Sai Aurora, dove il cielo si tocca con l’acqua, là abita tuo nonno.
I miei occhi, allora percorrevano tutto il paesaggio partendo da quel muro fino alla montagna che entrava nell’acqua e il confine dell’acqua arrivava fino al cielo e cercavo di immaginare quello che mi diceva immedesimandomi nei suoi pensieri.
Lei era dietro di me e mi teneva stretta come per proteggermi ulteriormente.
- Come mai, mamma, non conosco il nonno?
E lei con le lacrime agli occhi:
- Nemmeno io lo conosco o quasi. Avevo quattro anni quando è andato a vivere in Argentina e non l’ho rivisto più. Non sei la sola dunque a non conoscerlo. Quando andremo in Argentina tu lo vedrai per la prima volta e….. anche io.
- Mamma, ma poi ritorniamo vero?
La risposta non arrivava mai solo, mi prendeva la mano e continuavamo a camminare.
No, non ero su quel treno ero, gomiti appoggiati sul davanzale, affacciata alla finestra della mia casa e ammiravo quelle rose di pietra. Queste, non avevo bisogno di imprimerle nella memoria, erano nel mio corredo genetico, non avrei potuto dimenticarle, anche se avessi voluto.
Chiusi gli occhi per non vedere, fuori dal finestrino, tutto quello che la velocità inghiottiva con una voracità impressionante che la mia mente, oltretutto, centuplicava rendendola, smisuratamente irreale. Eravamo saliti sul treno a Finale (Pollina nuova). Alla stazione, ad augurarci buon viaggio, c’era un nugolo di persone. Parenti, amici conoscenti. Con loro dividemmo tante lacrime e qualche risata. Io non volevo più né abbracci, né baci. In un attimo mi trovai sul treno. Non volevo vedere e registrare nella memoria quel momento. Mi sedetti alla svelta e chiusi gli occhi, se avessi potuto sarei scappata lontano da quella triste visione. Ero su quel treno con la mia famiglia: mamma, papà, Maria e Francesco, la zia Peppina, lo zio Pietro e la nonna che ci accompagnavano fino a Palermo.
Mi rimbomba ancora nelle orecchie il grande silenzio e il rumore del dolore quando il treno, inconsapevole, alla stessa stregua del postino ignaro del contenuto dolce o amaro delle missive che consegna viaggia, con la sua abituale andatura, incominciò ad allontanarsi da Finale senza pietà.
Questo momento si ripeté alla stazione di Palermo con la differenza che prima di entrare nello scompartimento, mi volsi a guardare tutto il corridoio con l’inutile speranza di vedere al mio seguito la nonna. Dovetti assolutamente sedermi, altrimenti sarei caduta a terra, non riuscivo a reggermi in piedi. L’angoscia era insostenibile.
Appoggiai la testa alla parete del finestrino. Mi lasciai cullare dal movimento del treno che per fortuna partì subito, sentivo la forza della vita uscire dal mio corpo attraverso il respiro, che si faceva sempre più lento come stessi per morire e, mi stupii, non ne avevo paura. Sapevo che non era una morte corporale, ma una morte nel cuore. La mia “vecchia vita” stava per sparire, doveva lasciare il posto alla nuova incognita vita che si avvicinava dietro a quel rollio. Sentivo il buio dentro di me. Il paesaggio scorreva veloce attraverso il finestrino, lo guardavo assonnata, cullata dal movimento del treno.
Dovevo risorgere dalle ceneri della nostalgia. La rabbia e il desiderio di invertire il percorso del treno, sarebbe stato meglio per tutti ma soprattutto per me stessa, chiuderli in un sacchetto e buttarli giù dal finestrino. Dovevo maturare in fretta.
Accanto a me sedeva mia sorella mentre, mia madre con in braccio mio fratello più piccolo e mio padre, mi stavano di fronte.
Mio padre… faceva il macellaio e tra il frastuono del treno, saettante sui binari che saccheggiava indelicatamente alberi, strade, montagne, fiumi, pensavo. Pensavo a quella bellissima giornata quando all’età di quattro anni mi stavo recando alla sua bottega ma durante il percorso cambiai itinerario. Non vedevo mia nonna da una settimana. Abitava in campagna e decisi di andare da lei. Per arrivarci dovevo percorrere una strada impervia e pericolosa, che dava su un precipizio, non era facile. Ma questo posso comprenderlo solo ora.
Dopo poco tempo la mamma si recò anche lei in macelleria e non vedendomi chiese a mio padre:
E Aurora?
Non ho visto Aurora
Come non l’hai vista?




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Racconto scritto il 10/04/2019 - 15:31
Da speranza iovine
Letta n.807 volte.
Voto:
su 2 votanti


Commenti


Le cose belle di aspettano...

Ernesto D'Onise 11/04/2019 - 18:31

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Grazia sono sinceramente commossa dal tuo commento e ti ringrazio per aver letto la mia storia, purtroppo posso scrivere solo dopo 5 giorni. Un caro saluto.

speranza iovine 11/04/2019 - 14:33

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Mi sono presa il tempo, vista la lunghezza, ma scritto così bene...è volato!
Aspetto

Grazia Giuliani 11/04/2019 - 14:03

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Grazie Ernesto non penso di farcela in due parti, forse quattro o cinque. Ciao

speranza iovine 10/04/2019 - 20:56

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Sei brava in prosa come in poesia. Aspetto la parte seconda per un commento complessivo.

Ernesto D'Onise 10/04/2019 - 18:18

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