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Piano man

La porta cigolò aprendosi. Nella sua testa quel cigolio suonò come un “benvenuto, signore”. Appena entrato, il calore del fiato di decine di uomini lo colpì in faccia come una sberla. Insieme all’odore un po’ animale dei luoghi piccoli e chiusi, dove si ammassano molte, troppe persone. Ma dopo il vento gelido che aveva dovuto affrontare, là fuori, accettò di buon grado sia l’odore che il calore.
Tirò su con il naso. Cavolo se faceva freddo quella notte.
In un’altra età, in un’altra era, un’altra era, cavolo, si sarebbe preparato una camomilla calda e si sarebbe buttato sul divano. Niente di più classico, una serata casalinga in famiglia. Famiglia… Già.
Ma nessun fiore profumato sarebbe stata scomodato quella notte. No, quella sera serviva qualcosa di più forte, qualcosa che avesse più carattere, qualcosa che gli ricordasse che era ancora vivo.
“Un Whiskey”, mormorò al barista. Quello alzò lo sguardo dal bicchiere che stava asciugando e fece un cenno del capo. Okay, aveva capito. Si concentrò sul povero bicchiere, ancora costretto a subire le angherie di quel barista. Fissò i graffi, i segni, impressi sul vetro. Era uno di quei bicchieri da bar, un bicchiere da whiskey. Solido, materico. Ne rimase affascinato. Pensò quante bocche avesse incontrato, quante storie avesse bagnato, di quanto whiskey si fosse reso recipiente per scaldare il cuore di chi aveva bisogno di sentire un cuore caldo battere nel petto, almeno per un po’.
Eccolo lì, ad ammirare un banale bicchiere. A cercarne la poesia, a scovarne il significato, ad ammirarne le forme. Che male c’era in fondo? Perdersi nelle piccole cose, nelle cose umane, era così dolce, così avvolgente. Aveva incontrato poche persone nella sua vita che avrebbero capito cosa provava. Poche persone si sarebbero perse dietro un pezzo di vetro. “Viviamo in un mondo più grande di noi”, pensò, “l’abbiamo costruita noi, questa civiltà… Perché l’abbiamo fatta così tragicamente ostile all’uomo stesso? Una società che alleva uomini che non si stupiscono più della bellezza di un bicchiere usurato, che speranze ha di sopravvivere? Quante persone tristi e grigie ho incontrato… E pensare che con una ho persino…”, “Il suo whiskey”- disse il barista. Trasalì. “Mi scusi”-fece il barista. “Non si preoccupi, ci sono abituato”. Sorriso di circostanza. Il barista si stava chiaramente chiedendo se non stesse servendo alcool ad uno già abbastanza annaffiato.
Sospirò. Ci era abituato, davvero. Si perdeva nei meandri della sua mente più spesso di quanto fosse disposto ad ammettere. Trasaliva sempre quando qualcosa lo trascinava di nuovo a terra.
Abbassò lo sguardo. Sorrise. Guarda un po’ chi si rivede, il nostro bicchiere. Lo accarezzò con un dito, seguendone il bordo, inclinandolo leggermente. Osservò affascinato la superficie del liquido ambrato all’interno che si increspava e si agitava. Per un momento si immaginò piccolo piccolo, lì, dentro quel bicchiere, mentre un gigante sbadato sconvolgeva il suo mondo, annegandolo nel whiskey.
“Stai proiettando fratello”, disse una voce pretenziosa dentro di lui. Fece una smorfia. La sua parte antipatica. Parlava sempre quando non doveva e come non doveva. La odiava. Ma si, aveva ragione, la maledetta.
Lui era già piccolo piccolo, forse non sarebbe morto annegato nel whiskey, ma già stava affondando. Nelle preoccupazioni. Nelle responsabilità. Nelle aspettative. Frotte, eserciti di persone lo avevano piagato, riversando le loro frustrazioni su di lui. Andava avanti da una vita. Era stato sempre così. Fino a quella notte. Quella notte, si era ripreso la sua vita. Che botta di narcisismo, di euforia, che gli aveva dato vedere le loro facce. Stupite. Stupide. Incredule. Il karma è venuto a prendervi, alla fine. Ah ah.
Bevve un sorso. Bruciava come fuoco, ma lo aiutò un poco. Non aveva più il fisico per queste cose.
It’s nine o’clock on a Saturday… The regular crowd shuffles in… Alzò la testa e osservò il tizio con le guance rubizze dietro alla tastiera, mentre cantava. Aveva gli occhi chiusi e un’aria malinconica. Era evidentemente preso. “Siamo in due, amico” pensò. Adorava quella canzone. Ogni volta che l’ascoltava si immaginava seduto al bancone di un bar, a sorseggiare una birra con un borsalino su un ginocchio ed un trench accartocciato sull’altro. “La vita che imita l’arte”. Era tutto come l’aveva sempre immaginato. Osservò il whiskey. “Quasi tutto”. But it’s sad and it’s sweet and I knew it complete… When I wore a younger man clothes…. Che poi era stato così facile, uno strappo e via. Tutti i pesi della sua vita erano volati via. Tutti quei pensieri, pesanti come ancore, si erano dissolti come zucchero nel caffè. Non rimaneva di loro nemmeno l’odore… And he's quick with a joke or to light up your smoke, But there's some place that he'd rather be…
Si accese una sigaretta. Cristo, era troppo tempo che non fumava. Non si chiese se era autorizzato a farlo, l’autorizzazione gliela diedero metà delle persone che erano pressate lì dentro. Espirò. Il fumo azzurrognolo si contorse per un momento davanti a lui, danzando al tempo della musica. Bevve un altro sorso.
Yes, they're sharing a drink they call loneliness…But it's better than drinkin' alone….
Loneliness. Solitudine. Si, era più solo ora. Ma solo è meglio che invisibile no? Odio chi mi ruba la solitudine senza darmi in cambio una vera compagnia. Sorrise. Eccola, era tutta la sera che la temeva e l’aspettava. La malinconia. Bei ricordi. Altro sorso. Il ghiacciò tintinnò dentro il bicchiere. Gran bel suono. Lo aveva sempre trovato rilassante, consolante. Rumore bianco un corno.
…'Cause he knows that it's me they've been comin' to see, To forget about life for a while…
L’ultima volta che era stato lì aveva chiacchierato con un tedesco di Düsseldorf che adorava le Marlboro e le italiane bionde. Aveva trovato la cosa divertente. Erano dieci anni prima, e non era affatto solo. Erano bei tempi. Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato…
Sing us a song you're the piano man, sing us a song tonight… Well we're all in the mood for a melody
and you got us all feeling alright!...
Si unì agli applausi di un gruppo di entusiasti studenti americani, che si stavano evidentemente godendo la libertà data da 7000 km di acqua fra loro e le loro mamme. Buttò giù il miscuglio di alcool e ghiaccio sciolto rimasto sul fondo del bicchiere e ci butto dentro la sigaretta. Era ora di andare. Spinse via lo sgabello e si infilò cappotto e cappello. Sventolò una banconota da 10 sotto il muso del barista. “Tenga il resto.”. Guardò il bicchiere e il bicchiere gli riservò uno sguardo interrogativo. “Grazie della bevuta, vecchio mio. Al nostro prossimo incontro.”. Detto questo, si voltò e si incamminò verso la porta a passo spedito. Non si era ancora allacciato il cappotto ma non gli importava, il freddo lo avrebbe risvegliato, lo avrebbe accolto fra le sue spietate braccia, ricordandogli che era ancora vivo. “Sto arrivando!”, pensò, uscendo.
La porta cigolò chiudendosi. Il barista sospirò e raccolse il bicchiere dal bancone, rovesciando il mozzicone dentro la spazzatura, senza centrarla. Sbuffò. Lo avrebbe raccolto più tardi, forse. Sciacquò il bicchiere con scarso entusiasmo e tre secondi dopo era, almeno a parere suo, bello pulito. Lo posò sotto il bancone.
Un cigolio familiare. Passi pesanti, quasi strisciati. Un tonfo. “Del Porto, per favore.” Una voce roca, anziana, ma non troppo. La mano del barista si mosse in automatico, tastando sotto il bancone. Le dita sentirono il tocco freddo del vetro. “Subito signore”.



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Racconto scritto il 24/08/2015 - 11:08
Da Tommaso Ferranti
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