PENSIERI DECOMPOSTI
Giulia ha deciso di dimagrire.
E’ sempre stata molto attenta a non eccedere con il peso, anche se a tavola ci stupiva tutti ripulendo il cibo dalle casseruole. Ma la costanza della palestra e le ore di step a casa la aiutavano ad avere una forma invidiabile.
Giulia aveva classe. Era nata in una culla dorata di una certa borghesia di una città del nord, sempre avvolta dalla nebbia e dalla tristezza. Forse fu per quello che lasciò quella gabbia preziosa per seguire Matteo, persona bizzarra e disordinata in una città assolata e rumorosa nel centro del nostro stivale.
Matteo non era ricco, era forte e volenteroso, anche ambizioso nel suo lavoro, ma tutt’altro che benestante, e innamorato di Giulia alla quale cercava con notevoli sforzi di garantire i confort a cui era abituata. Ma non era cosa facile, perché lo stipendio non bastava a coprire tutte le spese del loro menage e lei non era nata per lavorare ma per consumare con finta felicità la ricchezza di famiglia, quella famiglia che le voltò le spalle nel momento in cui Matteo, uomo semplice, uomo normale, entrò nella sua vita.
Più di una volta ricevette da casa il chiaro messaggio che se fosse tornata avrebbe avuto tutto, diversamente poteva anche morire di fame, a loro, la sua bella famiglia poco sarebbe importato.
Passavano i mesi e mentre nell’animo di Giulia cresceva il dolore, il suo fisico sempre curatissimo, diminuiva prima di una taglia, poi di un’altra.
Più si guardava allo specchio e meno si piaceva, il suo viso, la sua storia, quello sguardo cupo che attingeva ricordi lontani si posava sul suo corpo sempre più limato e senza curve, frutto di una ferrea volontà, quella di colpire la sua sofferenza alla radice.
Giulia si nutriva, certo, ma di soli cibi a contenuto zero di grassi, che poi espelleva in sudore sulla cyclette; ultimamente aveva preso l’abitudine di disfarsi di tutto il cibo ingerito provocandosi il vomito o assumendo una forte quantità di lassativi.
Tutto insomma finiva nella fogna, inghiottito nei lerci sotterranei della città, dove sarebbe voluta finirci anche lei, annientata, dimenticata, libera.
Vedevo Giulia di rado, ma ogni qualvolta mi trovavo a disagio nel presenziare con le mie abbondanze e cercavo di essere disinvolta nel salutarla, stando attenta a non stringerle troppo forte la mano e poggiare delicatamente la mia gota sulla sua, ormai fatta di sola pelle opaca, come la buccia di una cipolla rinsecchita.
Cercavo di non farla sentire così osservata, ma mi chiedevo come facesse uno scheletro a stare in piedi.
Mi saliva la nausea a guardarla così ridotta, mi saliva la nausea per quel senso di impotenza che non mi dava pace.
E pensavo a Matteo, al suo amore, alla sua pazienza e alla sua sofferenza.
Giulia non voleva essere aiutata da medici, diceva che le serviva solo del tempo per ritrovarsi e riprendersi, uscendo da quel tunnel.
Matteo non le faceva mancare nulla, a casa venivano anche la parrucchiera e l’estetista così che lei si sentisse sempre bella.
Le sue giornate erano scandite da questi impegni e, inutile dirlo, dalle ore passate sulla cyclette a distruggere il suo dolore.
Ma c’era una presenza che durante la giornata veniva ad osservarla: era un gatto selvatico, nel centro di quella grande città, e che si faceva avvicinare solo da lei, neanche da Matteo. Era lei che, per uno strano scherzo del destino gli preparava del buon cibo ed era solo da lei che lo accettava.
Il tempo, richiesto da Giulia per rimettersi, passò inesorabile senza alcun risultato, se non quello di vederla sempre più scheletrica e irrecuperabile nel suo intento di autodistruggersi.
Una sera d’autunno, Matteo ormai sconvolto e disperato, decise di chiamare il medico che la caricò sull’ambulanza staccandola dal suo strumento di tortura: la cyclette!
Il ricovero durò qualche settimana, nella quale Giulia ormai senza difese passò dal semplice raffreddore alla polmonite, mentre la sua pressione su un cuore ormai indebolito scendeva, non riuscendo ad instillarle battiti di vita, spiragli di luce.
Ed una mattina piovosa di novembre Giulia guarì. Guarì per sempre.
Matteo la riportò a casa, nella triste nebbia dentro una bara lucida di noce dove alloggiavano le leggerissime ossa scarne di Giulia, i suoi dolori e tutti i suoi pensieri ormai decomposti.
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Dopo qualche settimana Matteo trovò sotto il nespolo del giardino il povero gatto selvatico che si era lasciato morire proprio come Giulia. Che aveva deciso di dimagrire.
E’ sempre stata molto attenta a non eccedere con il peso, anche se a tavola ci stupiva tutti ripulendo il cibo dalle casseruole. Ma la costanza della palestra e le ore di step a casa la aiutavano ad avere una forma invidiabile.
Giulia aveva classe. Era nata in una culla dorata di una certa borghesia di una città del nord, sempre avvolta dalla nebbia e dalla tristezza. Forse fu per quello che lasciò quella gabbia preziosa per seguire Matteo, persona bizzarra e disordinata in una città assolata e rumorosa nel centro del nostro stivale.
Matteo non era ricco, era forte e volenteroso, anche ambizioso nel suo lavoro, ma tutt’altro che benestante, e innamorato di Giulia alla quale cercava con notevoli sforzi di garantire i confort a cui era abituata. Ma non era cosa facile, perché lo stipendio non bastava a coprire tutte le spese del loro menage e lei non era nata per lavorare ma per consumare con finta felicità la ricchezza di famiglia, quella famiglia che le voltò le spalle nel momento in cui Matteo, uomo semplice, uomo normale, entrò nella sua vita.
Più di una volta ricevette da casa il chiaro messaggio che se fosse tornata avrebbe avuto tutto, diversamente poteva anche morire di fame, a loro, la sua bella famiglia poco sarebbe importato.
Passavano i mesi e mentre nell’animo di Giulia cresceva il dolore, il suo fisico sempre curatissimo, diminuiva prima di una taglia, poi di un’altra.
Più si guardava allo specchio e meno si piaceva, il suo viso, la sua storia, quello sguardo cupo che attingeva ricordi lontani si posava sul suo corpo sempre più limato e senza curve, frutto di una ferrea volontà, quella di colpire la sua sofferenza alla radice.
Giulia si nutriva, certo, ma di soli cibi a contenuto zero di grassi, che poi espelleva in sudore sulla cyclette; ultimamente aveva preso l’abitudine di disfarsi di tutto il cibo ingerito provocandosi il vomito o assumendo una forte quantità di lassativi.
Tutto insomma finiva nella fogna, inghiottito nei lerci sotterranei della città, dove sarebbe voluta finirci anche lei, annientata, dimenticata, libera.
Vedevo Giulia di rado, ma ogni qualvolta mi trovavo a disagio nel presenziare con le mie abbondanze e cercavo di essere disinvolta nel salutarla, stando attenta a non stringerle troppo forte la mano e poggiare delicatamente la mia gota sulla sua, ormai fatta di sola pelle opaca, come la buccia di una cipolla rinsecchita.
Cercavo di non farla sentire così osservata, ma mi chiedevo come facesse uno scheletro a stare in piedi.
Mi saliva la nausea a guardarla così ridotta, mi saliva la nausea per quel senso di impotenza che non mi dava pace.
E pensavo a Matteo, al suo amore, alla sua pazienza e alla sua sofferenza.
Giulia non voleva essere aiutata da medici, diceva che le serviva solo del tempo per ritrovarsi e riprendersi, uscendo da quel tunnel.
Matteo non le faceva mancare nulla, a casa venivano anche la parrucchiera e l’estetista così che lei si sentisse sempre bella.
Le sue giornate erano scandite da questi impegni e, inutile dirlo, dalle ore passate sulla cyclette a distruggere il suo dolore.
Ma c’era una presenza che durante la giornata veniva ad osservarla: era un gatto selvatico, nel centro di quella grande città, e che si faceva avvicinare solo da lei, neanche da Matteo. Era lei che, per uno strano scherzo del destino gli preparava del buon cibo ed era solo da lei che lo accettava.
Il tempo, richiesto da Giulia per rimettersi, passò inesorabile senza alcun risultato, se non quello di vederla sempre più scheletrica e irrecuperabile nel suo intento di autodistruggersi.
Una sera d’autunno, Matteo ormai sconvolto e disperato, decise di chiamare il medico che la caricò sull’ambulanza staccandola dal suo strumento di tortura: la cyclette!
Il ricovero durò qualche settimana, nella quale Giulia ormai senza difese passò dal semplice raffreddore alla polmonite, mentre la sua pressione su un cuore ormai indebolito scendeva, non riuscendo ad instillarle battiti di vita, spiragli di luce.
Ed una mattina piovosa di novembre Giulia guarì. Guarì per sempre.
Matteo la riportò a casa, nella triste nebbia dentro una bara lucida di noce dove alloggiavano le leggerissime ossa scarne di Giulia, i suoi dolori e tutti i suoi pensieri ormai decomposti.
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Dopo qualche settimana Matteo trovò sotto il nespolo del giardino il povero gatto selvatico che si era lasciato morire proprio come Giulia. Che aveva deciso di dimagrire.
Millina Spina, 10 Settembre 2015
Ho solo cambiato i nomi, ma purtroppo questa storia è vera.

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Commenti
Ecco una gradita segnalazione per l'opera letta e volentieri già commentata. Brava, Millina: ti lascio tanti complimenti!!


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Grazie anche a te Arcangelo per il tuo commento ed apprezzamento.
Buon sabato!
Buon sabato!


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Un racconto molto intenso ed altrettanto triste, in quanto ispirato ad una storia vera, come tante se ne sono sentite su questo argomento. A volte, la nostra mente si lascia prendere da qualcosa più grande di noi e non trova la forza di reagire, arrivando, purtroppo, anche a livelli estremi. Che aggiungere d'altro, se non dirti che è un testo che fa molto riflettere, ben scritto e che ho davvero apprezzato.


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Grazie Rocco e Luciano Guidotti.
Purtroppo l'anoressia inizia in maniera subdola, serpeggia, si maschera con la voglia, lecita, di perdere peso per poi esplodere in tanti atteggiamenti dai quali è veramente difficile tornare indietro. Tanti, troppi drammi di questo genere son vissuti in assoluta solitudine.
Purtroppo l'anoressia inizia in maniera subdola, serpeggia, si maschera con la voglia, lecita, di perdere peso per poi esplodere in tanti atteggiamenti dai quali è veramente difficile tornare indietro. Tanti, troppi drammi di questo genere son vissuti in assoluta solitudine.


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Una racconto veramente triste di cui si percepisce,con dovizia di particolari e attenta descrizione, la cruda realtà.Purtroppo insieme a tante altre forme di autodistruzione rappresenta uno scivolo a imbuto da cui è molto difficile tornare indietro e le cui conseguenze sono spesso tragiche.Complimenti per l'argomento trattato e per la capacità di aver concentrato in così poco spazio una storia tanto grande.


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Un profondo quanto toccante racconto... Serena giornata Millina.












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