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Lamentazione di Orfeo ( I )

Qual la folgore parte del tempo
vernale accende e del cielo,
tolti alle tenebre,
dallo scorrere dell’ eterne ore afferra
un secondo, usalo, se può l’antico amore,
dagli ostili regni per udire inutil gemito.
Ricorda alla luce dei lampi,
per vedermi, fuor di ragione,
quale ombra sui ceneri massi riflessa.
Battuto, mezzo vittoriosa corsa,
modo pessimo e più,
che non regge giustificazione.
Ora qui, piegato, in notte calda,
l’ Olimpo di fiamme fregiato
è l’ unico squarcio, e quelle,
qual candela in candela,
alimento dell’ angoscia.
Brusio, estivo compagno, nel buio aleggia,
il cuore riempito dai sassi
non sta più nei suoi passi.
Come corpo tra pietre, di vergogna
l’anima è coperta; scendono lacrime
e Naiade fonte, d’ Olimpo soccorso,
i fuochi in egual modo spegne;
ora resta ideare e porre i fini.
Paura è giogo misero dei sentimenti,
grande la menzogna di Giove,
“la fede dà coraggio”.
Battono gli orrori della mente
ché più non voglio volgermi al ricordo,
e non giova pestare e calciare
arbusti e insetti. Scomparse
sono le luci e pure
il calore del fuoco,
l’animo è spento
e pieno di brividi.
L’ istante sereno giunge,
ausilio al riflettere.
Sono io, con la mia carne,
soffocata la fede mia,
più robusto d’ un argine e irrompere,
devastatrici delle mie paure,
alle acque degli affetti fu impossibile?
Prevale sempre la ragione?
Come eroe da quell’antro sarei sorto.
Franco



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Opera scritta il 13/10/2016 - 20:10
Da Franco Tommaso
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