Il dono di Rosi
Fuori nevica, il televisore non funziona e qui in montagna non c’è il computer, vi va bene un gioco?
Non preoccupatevi, niente tombola con i fagioli, parlo di un indovinello, anzi un quiz come quelli della televisione; se darete la risposta esatta vi spetta un premio.
Qual è il premio? Semplice: non vi racconterò una delle mie noiose storie, affare fatto? Bene, ecco la domanda:
Sapete cos’era l'A.O.I. ?
Lo so che è difficile, non sono in molti a ricordarlo e i libri di scuola ne parlano poco. Volete un aiutino?
D’accordo, anche se sono stonato vi canto il ritornello di una canzone di quei tempi, vi assicuro che dovrebbe aiutarvi parecchio:
“Faccetta nera, bell'abissina
Aspetta e spera che già l'ora si avvicina!
Quando saremo insieme a te,
Noi ti daremo un'altra legge e un altro Re.”.
Scena muta? Mi dispiace ma i patti sono patti, non avete indovinato e sono costretto a raccontarvi una storia.
Iniziamo con la risposta alla mia domanda: nel secolo scorso l’Italia aveva conquistato delle terre nella lontana Africa e A.O.I. vuole dire Africa Orientale Italiana, cioè le colonie di quello che fu un impero di breve durata proclamato da Mussolini, il Duce, nel 1936.
Forse non sapete neppure il significato di “colonie”, è una parola che per fortuna è quasi caduta in disuso. Ve lo spiego con un esempio. Immaginate che qualcuno entri qui, in casa nostra, usando la forza e facendoci poi questo discorso: “Io sono più forte, più civile, più intelligente di voi, quindi ora questa è casa mia, voi lavorerete per me e guai se protestate”.
Ecco, in sostanza le colonie funzionavano in questo modo e tutti gli stati più potenti dell’Europa avevano conquistato le loro colonie.
Per farlo in modo che sembrasse una cosa buona, si usava la scusa di portare la civiltà a popoli che secondo il nostro parere non l’avevano. In realtà si volevano solo le loro ricchezze e le loro terre da sfruttare.
Come vi ho detto, l’A.O.I. era una colonia italiana e comprendeva città, villaggi, deserti, laghi, altopiani, montagne, per un territorio grande quasi sei volte l’Italia stessa e popolato da tribù e civiltà molto diverse tra loro. La sede del governo coloniale era Addis Abeba, che vuole dire “nuovo fiore” in amarico, la lingua dei fieri Etiopi che l’avevano eletta capitale della loro nazione dopo che la regina Taitù la volle costruire dal nulla, vicino alle fonti termali che amava tanto.
La mia storia inizia proprio ad Addis Abeba e parla di due persone, Giovanni e Rosi, che erano arrivate sin lì dall’Italia per motivi diversi.
Giovanni era un funzionario del governo italiano, uomo del sud, idealista, generoso e molto religioso. Era nato nel 1899 e proprio l’idealismo lo aveva portato, all’età di diciassette anni, a fare una cosa sbagliata per un motivo considerato nobile: aveva falsificato la firma di suo padre per arruolarsi volontario tra gli “Arditi Incursori”, cioè i soldati destinati alle missioni più pericolose, in quella che viene ricordata come “Grande guerra”; in realtà di grande ebbe soprattutto il numero spaventoso di vittime: oltre quindici milioni. Avete difficoltà a immaginare questa cifra? Pensate di mettere in fila gli abitanti, tutti quanti, di dieci città grandi come Milano.
Molti ragazzi di diciassette anni fecero come Giovanni e si arruolarono volontari. Oggi naturalmente non ce ne sono più, avrebbero centotredici anni, ma sono ancora ricordati con affetto come “i ragazzi del ‘99”.
Giovanni sopravvisse alla guerra, riportando qualche ferita e una medaglia di bronzo. Più tardi decise di andare in Africa per amore dell’avventura e per spirito di servizio. Aveva ottenuto un buon posto governativo grazie alla sua laurea in legge e al suo passato di soldato valoroso, cosa che all'epoca aveva una certa importanza.
Rosi era la figlia di un ingegnere tedesco e di una bella signora milanese. Quel brillante ingegnere era stato mandato in Italia per costruire centrali elettriche e la vita di Rosi era stata felice per pochi anni, durante i quali la famiglia si spostava per l’Italia, da nord a sud, seguendo il lavoro del padre. Un brutto giorno sua madre morì… ma questa è un’altra storia, che da sola potrebbe diventare un romanzo all’antica, di quelli con povere orfanelle, matrigne cattive e tanta disperazione. Forse un’altra volta ve la racconterò. Basti dire che Rosi andò in Africa, una terra ricca di promesse, per cercare una vita migliore.
Ma torniamo ad Addis Abeba.
Una sera del 1940, davanti alla farmacia di Piazza del Littorio si fermò una Balilla, una di quelle automobili che oggi ci sembrano brutte e buffe ma che a quel tempo erano moderne e lucenti. Ne scese un bell’uomo, con una barbetta nera, gli occhi vivaci e un carattere romantico. Acquistò un medicinale e al momento di pagare fu catturato dagli occhi verdi e dal sorriso gentile della cassiera.
Rosi e Giovanni si conobbero così, e si sposarono dopo due mesi da quel primo incontro.
A Giovanni il governo italiano aveva assegnato, oltre alla Balilla, una bella villetta a nord della città, dove le alture di Entòtto, ricche di alberi, iniziavano a salire per formare lo spartiacque di Gara Gorfù. Nel grande giardino ombroso, una piccola gazzella veniva a prendere le carezze di Rosi, condividendole amichevolmente con un grande cane alano. “Questo non essere cane, essere vitello” diceva Abebe, un ragazzo del posto che si prendeva cura del giardino e faceva piccoli lavori domestici.
Al confine con la foresta, un muretto di pietra serviva da appoggio per le bottiglie vuote che Rosi e Giovanni usavano da bersaglio per allenarsi con la pistola. La terra era ancora selvaggia e anche i civili, donne comprese, andavano in giro armati, un pò’ come si vede nei film del far-west. Il motivo principale erano i branchi di iene che si aggiravano ai margini della città. Chi ha visto il film “Il re leone” sa bene che le iene sono pericolose come i leoni, ma ancora più scaltre. Un altro motivo ancora più preoccupante erano i “banditi”, come spesso vengono chiamati coloro i quali non accettano di essere sottomessi a chi ha invaso la loro terra e continuano a lottare per la libertà. Intorno ad Addis Abeba operavano molti “banditi” che, nel combattere gli invasori italiani, non facevano molta distinzione tra soldati o funzionari del governo, tra uomini e donne.
Il luogo però era bellissimo, il clima era quello piacevole dell’altopiano che, a oltre 2000 metri di altezza, domava la calura africana rendendola simile a un'eterna primavera, quella di Rosi e Giovanni era una vita comoda, si volevano molto bene, e quindi alla coppia pareva che la fortuna avesse rivolto loro uno sguardo molto benevolo.
La fortuna dell’Italia invece volse rapidamente al tramonto. I rovesci della guerra, la seconda guerra mondiale che si era scatenata da poco, fecero diffondere la convinzione che i nemici, gli Inglesi, sarebbero presto arrivati sino lì. Qualcuno tra i coloni italiani andò a vivere in capanne nella foresta sino alla fine del conflitto, ma Rosi e Giovanni rimasero. Giovanni aveva fortissimo il senso della responsabilità e della Patria, tanto da pagare di tasca propria gli stipendi agli impiegati locali quando dall’Italia non fu più possibile ricevere qualsiasi cosa.
"Che sciocco" penserà qualcuno. Sì, questa cosa può sembrare sciocca, ma Giovanni viveva in un altro tempo, un tempo dove Patria, Onore e Dignità avevano un significato che oggi non conosciamo.
Poi i soldati inglesi arrivarono davvero. Rosi e Giovanni si videro portare via i loro averi, dalla casa sino alle monetine che avevano in tasca. Fecero appena in tempo a liberare la gazzella e consegnare il cane al fedele Abebe, poi furono fatti prigionieri, trasportati per camion a Massaua, una città lontana, sul mare, e rinchiusi in un campo di concentramento dove, assieme a molte altre famiglie italiane, finirono stipati in baracche di lamiera.
Ricordiamoci che si trovavano in Africa, non lontano dall’equatore. A noi, d’estate, quando fuori ci sono trenta gradi, pare caldissimo, sudiamo e non stiamo bene. In quel campo la temperatura toccava i cinquanta gradi e le baracche di lamiera diventavano dei veri forni. I civilissimi Inglesi, nei loro bungalow confortevoli, rimasero del tutto indifferenti a questa situazione e nulla fecero per migliorarla. In fondo si trattava di uomini, donne e bambini rinchiusi perché di un paese nemico, quindi erano nemici. Punto e basta.
Molti prigionieri morirono, altri, come Rosi e Giovanni ebbero delle gravi forme di insolazione e disidratazione, cioè insufficienza di acqua nel loro corpo, ma sopravvissero.
Finalmente, nel gennaio del 1944, tutti i sopravvissuti del campo furono affidati alla Croce Rossa che li imbarcò su una vecchia nave insicura e sbuffante, una di quelle che ora si chiamano “carrette del mare”. Il canale di Suez, la via più breve per tornare in Italia, era chiuso da tempo, quindi la nave dovette seguire un’altra rotta. Dopo aver puntato a Sud nel Mar Rosso, si diresse a Est per il golfo di Aden, poi puntò a Sud-Ovest sino a doppiare il Capo di Buona Speranza, quello che visto sulle carte geografiche segna la fine del continente africano. Da lì iniziò a risalire tutta la costa occidentale dell'Africa, entrò nel Mediterraneo da Gibilterra per approdare finalmente a Genova dopo un viaggio pericoloso e faticoso durato quasi due mesi.
La nostra coppia era rimasta con i vestiti che aveva addosso, senza una casa, senza un lavoro, ma erano vivi e insieme. Si ritennero molto fortunati.
Trovarono rifugio a Brescia, presso lontani parenti.
La vita continuava, e a riprova di ciò Rosi si accorse che presto sarebbe arrivato un bambino.
Se ne preoccupò ma allo stesso tempo ne fu felice.
La preoccupazione era dovuta soprattutto alle condizioni economiche: erano diventati poveri, non sapevano dove andare a vivere e come guadagnare abbastanza per mantenere loro stessi, figuriamoci un bambino. L’altro motivo era che Rosi aveva trentasette anni, a quel tempo considerati troppi per diventare mamma per la prima volta, sopratutto per una donna come Rosi, appena uscita da due anni di grandi sofferenze.
Che fossero state le preghiere di Giovanni o la voglia di essere madre di Rosi, il bambino, perché si trattava di un maschietto, venne al mondo sano e affamato, sia pure con molte difficoltà e dopo alcuni mesi d’ospedale.
Superato quel pericolo, restava il problema di guadagnare il denaro necessario per vivere.
Per quel motivo, nei giorni precedenti la nascita, Giovanni lasciò Brescia per andare a Milano, dove un amico gli aveva promesso un lavoro. Quando il bambino venne al mondo, Giovanni non era ancora tornato e Rosi era molto in pensiero: in quel periodo viaggiare in Lombardia, come in altre zone d’Italia, era difficile e molto pericoloso.
Il 2 marzo 1945 a Brescia era una giornata limpida, soleggiata, una di quelle che sembrano annunciare la primavera.
Rosi era nel suo letto, all’ospedale. A fianco, il piccino in una culla sembrava un fagottino di stracci in un cesto del cucito. Nel corridoio Rosi udì delle voci tra le quali riconobbe quella preoccupata e affannata di suo marito. Subito dopo un Giovanni con la barba lunga, i vestiti sporchi e in disordine, entrò nella stanza.
Vi posso dire con esattezza le parole che si scambiarono.
- Amore, come stai? E quello è il nostro bambino? Un maschio mi hanno detto. Hai sofferto? -
- Certo che è lui, un bel maschietto ed io sto abbastanza bene, ora che sei arrivato anche meglio, e il bambino sta bene, guardalo, è bellissimo; ma tu sembri stanchissimo, cosa ti è successo? Dovevi tornare ieri.-
Giovanni diede un bacio a Rosi, poi, a bassa voce per non svegliare il bambino, iniziò a raccontare del suo viaggio a Milano e di come fosse stato inutile. Non aveva trovato Paolo, il suo amico. La casa era vuota, alcuni vicini gli avevano detto che Paolo e la sua famiglia erano spariti improvvisamente, senza dire niente a nessuno. Correva voce che si fosse unito ai repubblichini, cioè i sostenitori della repubblica fondata a Salò dai fedeli di Mussolini per continuare a combattere a fianco dei tedeschi.
Deluso, Giovanni si era rimesso in viaggio ma il treno era stato mitragliato dagli aerei americani nei pressi di Bergamo. Nessuno si era fatto male, per fortuna, ma i binari erano rimasti interrotti per molto tempo e lui era riuscito ad arrivare a Brescia solo mezz’ora prima.
Stavano ancora parlando quando suonarono le sirene dell’allarme aereo. Questo voleva dire che si avvicinava un grande pericolo: erano stati avvistati degli aeroplani nemici che avrebbero lanciato delle bombe sulla città.
Un dottore accorse insieme a una suora.
- Presto, tutte quelle che possono camminare, fuori, svelte, al rifugio, le altre verranno prelevate dai barellieri; veloci, veloci! -
Tra la confusione generale, Giovanni aiutò la moglie a mettersi addosso un impermeabile, avvolsero il bambino in uno scialle poi, il braccio di lui a sostenere Rosi, si diressero verso l'uscita.
L’ospedale era vicino all’antica chiesa di Sant'Afra e alcuni tra i ricoverati furono indirizzati alla cripta, cioè il sotterraneo della chiesa, che era ritenuto un posto sicuro e veniva usato come rifugio antiaereo.
Rosi e Giovanni vi entrarono scendendo una ventina di gradini. Nel frattempo era arrivato sul cielo di Brescia uno stormo di bombardieri B24 “Liberator” e già si udivano le prime esplosioni.
“Liberator” cioè Liberatore: non vi pare un nome di un umorismo un pochino macabro per un ordigno di guerra destinato sopratutto a “liberare” dalla vita gli abitanti delle città bombardate?
Nella cripta trovò posto una ventina di persone, tra le quali un sacerdote che andò subito al piccolo altare ricavato sulla parete di fondo e iniziò a celebrare la Messa.
Gli scoppi delle bombe si facevano sempre più vicini, mentre le lampade di ferro battuto appese al soffitto cominciavano a oscillare violentemente.
- Rosi - sussurrò Giovanni - vieni, andiamo vicino all’altare, faremo la Comunione e sono certo che Dio ci proteggerà.-
- No! - Rosi replicò fermamente - mettiamoci invece lì, vicino alla parete, mi sembra più sicuro.-
Discussero brevemente a bassa voce, la profonda fede di Giovanni a cercare di prevalere sul senso pratico di Rosi. Infine una decisione fu presa, proprio mentre il grappolo di bombe da 250 chili, sganciato pochi secondi prima da un B-24, stava completando il suo viaggio.
Gli ordigni sfondarono il tetto di legno della chiesa, ma l'ingegno umano è raffinato: erano costruiti per non esplodere a un urto così leggero. Un istante dopo trovarono il pavimento di pietra. Là finalmente liberarono tutta la loro potenza distruttrice.
La chiesa sembrò rigonfiarsi, poi esplose. I muri secolari si sbriciolarono, il pavimento fu in parte ridotto in polvere, in parte venne scagliato giù, verso la cripta, come un martello gigantesco. Della chiesa rimase una nuvola di polvere di pietra e marmo, alcuni tronconi di muri e un cumulo di detriti dal quale si levarono le fiamme alimentate dalla copertura del tetto.
Adesso vi chiedo di dimenticarvi per qualche minuto di Rosi, di Giovanni e del loro bambino. Capisco che volete sapere cosa ne sia stato di loro, ma vi prometto che lo saprete presto.
Facciamo un salto in avanti di quasi trent’anni, però restiamo a Brescia e parliamo di un'altra bomba, purtroppo.
Siete troppo giovani e non eravate ancora nati nel 1974, ma gli adulti si ricordano bene della strage di Piazza della Loggia, è una di quelle cose che dovete farvi raccontare, occorre conoscere le cose malvagie per impedire che possano ripetersi. Per ora vi basti sapere che qualcuno, per motivi che mai potranno essere compresi e perdonati, fece esplodere una bomba tra la folla, causando morti e feriti.
Ora siamo proprio in piazza della Loggia, qualche mese dopo quell’orribile fatto della bomba.
Lasciate che vi racconti come se fossi presente e facessi "la vita in diretta", diamine, sono un nonno ma so stare al passo con i tempi!
Guardate quella coppia che passeggia. L’uomo, sui trent’anni, alto e con una barbetta nera, è emozionato. Con lui una ragazza bruna e piccolina che lo guarda con affetto, e forse qualcosa di più. Sono arrivati da Genova apposta per vedere con i loro occhi quel luogo e rendere omaggio alle vittime dell’orrore e della follia omicida esplosa pochi mesi prima.
Sono rimasti a lungo sulla piazza a osservare i segni ancora visibili e quelli apposti in seguito, le corone di fiori, le targhe per condannare e commemorare.
All’inizio erano sconcertati, ora si sentono invasi da una rabbia sorda per quell’assurdità.
Quando decidono di lasciare la piazza l’uomo, senza spiegazioni, si dirige verso un quartiere appena fuori dal centro. La ragazza lo segue in silenzio.
In pochi minuti arrivano davanti a una chiesa, non particolarmente bella, di sicuro nulla che valga la pena di una passeggiata a piedi.
- Vedi - dice l’uomo - qui una volta esisteva una chiesa più antica, si chiamava Sant’Afra. Venne distrutta nel Marzo del ‘45 da altre bombe, ma c’era la guerra. Ora non si chiama più così, sopra le sue rovine hanno costruito questo nuovo tempio dedicato a Sant’Angela Merici.
Vieni, entriamo, ti devo far vedere una cosa. -
La ragazza è un po' perplessa, tace e lo segue, è incuriosita.
Percorrono una navata, sono soli nella semioscurità. Lui che certamente è già stato li tenta di orientarsi. Alla fine trova quello che cerca, una porticina laterale vicino all'altare. Scendono alcuni scalini di pietra dall’aspetto molto più antico del resto della chiesa.
- Qui siamo in quello che rimane della cripta della vecchia Sant’Afra. Durante la guerra serviva da rifugio antiaereo, poteva contenere qualche decina di persone. Ecco, vedi ? - l’uomo indica una lapide sul muro con una lunga lista di nomi - Riporta una data, 2 marzo 1945, quella del bombardamento e della distruzione di Sant’Afra. Lì ci sono tutti, voglio dire i nomi di tutti quelli che erano qui e morirono quel giorno. Veramente, quasi tutti; nella lista ne mancano tre: quelli di una certa Rosi, di suo marito Giovanni e del loro bambino di pochi giorni. Pensa, per seguire una strana intuizione della donna, quei tre si misero a ridosso di un muro. Il pavimento della chiesa sopra di loro resse proprio lì, per quei pochi centimetri sufficienti a fornire una specie di tetto. Tutti gli altri morirono sepolti, compreso il sacerdote che stava dicendo la messa all’altare. Quella famigliola si salvò. Terrorizzati, mezzo soffocati, ma praticamente incolumi. Un miracolo. Pensa, Rosi tenne in vita il suo bambino che non respirava più tirandogli fuori con le dita i calcinacci che gli erano entrati nella bocca e nel naso.-.
Un momento di silenzio, poi l'uomo guarda sorridendo la ragazza al suo fianco:
- Quel bambino si chiama Mario, è cresciuto e ora è qui con te.-
La ragazza ha un moto di sorpresa, poi sorride. Stringe più forte la mano dell'uomo mentre si avviano all’uscita.
- Sai, cara - dice Mario una volta tornati sula strada - mio padre mi raccomandava sempre di rispettare le scelte delle nostre compagne. Mi diceva: “Le donne hanno un dono speciale che agli uomini è negato. Noi pensiamo di chiedere aiuto a Dio mentre loro, a volte, ascoltano già la Sua risposta”.
Cosa ne pensate, sarà un caso che i miei genitori si chiamassero Rosi e Giovanni, che io mi chiami Mario e sia nato a Brescia nel 1945?
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Ciao...