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La Magia sta nella polvere

LA MAGIA STA NELLA POLVERE


Angie, poco più di quarantanni, si accarezza la schiena sotto il collo, quando è tesa prova sempre una lieve fitta dentro l'osso, e lei accennando un tiepido sorriso, vi passa la mano, come se rincuorasse un'amica infelice.
Gli anni hanno solcato appena il suo viso e il suo aspetto è delicato, fragile, i suoi occhi calamite per chi incontra il suo sguardo, parlano di una donna senza nebbia, che lascia passare la luce tra se e il resto del mondo.
A quindici anni aveva allineato i suoi pensieri come nemmeno lei sapeva di poter fare e, si era allontanata dalla sua famiglia; quel pomeriggio era passata dal soggiorno, un vecchio borsone di tessuto blu con borchie di ottone sulle spalle, dove la fitta si faceva sentire più forte quasi a commentare quel momento; suo padre sprofondato nella poltrona nello stesso modo in cui lo era nelle sue frustrazioni, alzò la testa con scatto come se un allarme avesse suonato di colpo nella sua mente, solo un attimo, prima di riprender posizione nella precisa forma che il suo corpo aveva lasciato nella stampa fiorita “ Mangia Angie, sei troppo magra “. Come sempre con gentilezza, con un tono di amore sommesso, quasi celato, da nascondere al mondo circostante, lei avrebbe voluto percorrere quei pochi metri che la separavano da lui, mettersi in ginocchio e prendersi un po' di quel bene in lui compresso, ma il dolore all'altra spalla arrivò come una sferzata così come la voce di sua madre “ Te ne vai senza aver pulito il tuo letto, tutti quei granelli di polvere? Vorrei sapere che cosa ci fai nel letto tu?!? Non avrai mai un uomo che dorma accanto a te, nella tua polvere! “.
La voce di suo padre le aveva piegato le ginocchia, togliendole un po' di quella forza necessaria, ma sua madre con maestria le aveva ricompattato i muscoli, ora la mano pallida era sulla maniglia, i suoi occhi seguivano la striscia di luce che lentamente si faceva spazio sul pavimento scuro, il sole la accecava solo il tempo di un attimo “ A presto papà “......
Ventisei anni dopo, il 10 marzo, ad Arabba, fa freddo, la neve indugia sui bordi in ombra delle strade, Angie cammina con fatica verso la fermata del pulman, deve camminare per un chilometro forse, ma lei, da sempre da quando era piccola, ha questa strana ritrosia nel muovere i piedi; osserva le pietre scorrere sotto i suoi stivali come se contasse quanti sassi ancora devono sottostare alle sue suole, prima di arrivare al centro radiologico, Fabio l'ha pregata tanto di fare qualcosa per il dolore, quello che lei accarezza come qualcosa che le appartiene.
Lui non è una vera e propria storia d'amore, non come quelle tipiche della sua vita, le rivive ora mentre brandelli di neve incorniciano il suo percorso, il sole entra ed esce da un varco nel cielo
grigio cenere, dove il suo raggio colpisce qualcosa si scioglie.
Angie aveva vissuto le sue passioni con un cuore grande, ma se ne era sempre andata, come da quel soggiorno, prima che le cose cambino, prima che coloro che si amano si trasformino in tronchi alla mercè di correnti, in balia di ore vuote di parole e gesti, mossi a caso, su un mare di silenzi, attaccava i suoi occhi a quelli del lui del momento, lo baciava e gli spiegava che non poteva andare oltre, usciva dalla loro vita con garbo senza pesantezza.
Fabio, al bar dove lei faceva colazione, l'aveva approcciata in modo sgradevole, così aveva pensato sul momento “ Angie così ti chiamano qui, vorrei annusarti, sentire il tuo odore per capire se siamo compatibili “ ma, subito dopo le aveva parlato con passione di un libro che stava leggendo, che ci aiuta a capire certi nostri istinti, repressi.
Era nata un'amicizia, una comunione di pensieri e tanti piccoli incontri che riempivano i numerosi spazi vuoti delle loro vite, forse entrambi avevano un limite interiore invalicabile ma quel 10 marzo probabilmente la neve fiocco dopo fiocco, stava assottigliando i loro muri.
In attesa della tac, con un dolore sempre più acuto alle spalle, Angie esce sul piccolo balcone al centro radiologico, afferra con le mani la ringhiera facendosi spazio tra la neve su di essa accalcata, osserva il bosco di fronte a lei, abeti di un'altezza imperiosa attirano il suo sguardo, ricordandole che Fabio, operaio di un'impresa di manutenzione delle linee di alta elettricità, quella mattina deve liberare un cavo dai rami più alti degli abeti; mette a fuoco il suo sguardo, intravede un uomo su un carrello elevatore intento a tagliare i grossi legni, troppo, troppo vicino al cavo.
Un dolore lancinante sotto le sue spalle, come se le sue scapole partorissero in preda a dolori di spinta, Angie grida di paura, di dolore mentre i suoi occhi non si staccano dall'abete lontano davanti a lei, un istinto, mette i piedi su i riccioli di ferro della ringhiera, li usa per salire sulla parte più alta di essa, l'infermiera che sta per finire il suo turno, la vede, urla...due strappi alla schiena, i muscoli si aprono e due ali enormi si spiegano come due bianche vele, Angie si tuffa, nel vuoto, sorretta da quell'imponente movimento, vola, vola verso il bosco, gira in cerchio al di sopra degli abeti, con naturalezza seguendo il suo naturale istinto, si abbassa vicino a Fabio sul carrello, che impietrito la guarda nel suo splendore, investito da un'aurea di amore inimmaginabile.
Da piccola Angie, aveva iniziato a camminare in ritardo rispetto alla media, lei sapeva di essere un angelo, ogni sera prima di addormentarsi saliva sulla finestra della sua camera e da essa si lanciava, con gioia spiegava le sue piccole ali bianche e sotto lo stupore degli occhi di suo padre e la delusione di quelli di sua madre volava sopra le case della sua città.
A 11 anni, una sera suo papà a causa di un guasto al furgone con cui consegnava merci, non era rientrato e sua madre aveva ospitato in casa un prete di sua conoscenza, per liberare la bambina da quel fenomeno imbarazzante; con voce stranamente dolce lo aveva accolto e fatto salire nella camera della piccola, “ non ho mai visto un angelo” le aveva sussurrato lui mentre con la mano ruvida e il crocifisso penzolante dal collo le toglieva le mutandine.
Così era successo quella notte sua madre con l'aiuto dell'amico prete le avevano segato le ali, piccole ali che le servivano per volare, recise da chi doveva amarla e proteggerla; era rimasto un dolore alle spalle, una polvere di stelle che usciva ogni notte dalle sue scapole per illuminare il suo sonno, una strada difficile lunga da percorrere prima di tornare a volare e amare senza paura.




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Racconto scritto il 17/03/2017 - 20:49
Da Grazia Giuliani
Letta n.1284 volte.
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Commenti


Un racconto tra realtà e fantasia. Apprezzato. Giulio Soro

Giulio Soro 18/03/2017 - 10:54

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