La mia è una riflessione tanto semplice quanto inconcludente. Ma non ‘semplice’ in virtù di una mia presunta ‘semplicità’ di carattere, e non ‘inconcludente’ perché necessiti, in un certo qual modo, di concedermi la libertà della possibilità.
Semplice e inconcludente perché, forse, contenente più realismo e oggettività di quanto sia mai stato capace di concedere al mio ‘pensare’ la libertà e la possibilità.
La settimana che i coniugi H. erano venuti a trascorrere a casa nostra, dall’altra parte del ‘loro’ mondo bagnato da altri mari, sorvolato da altri cieli e caratterizzato da tante altre sfaccettature utili a descriversi solo se si mira a spicciola retorica…era passata nella graduale ma ben poco sorprendente presa di coscienza che io non avevo assolutamente nulla a che spartire con loro.
Le occhiate feroci di mia moglie che, nell’atto di servire la colazione in veranda, parevano ammonirmi e assieme supplicarmi, mi erano sembrate esplicative e vagamente intimidatorie nel loro tentativo ingenuo di impormi un ‘savoir faire’ che nessuno era mai stato in gradi di inculcarmi.
Non vorrei, con quest’ultima affermazione, far passare il messaggio di credermi persona ‘ribelle’ o ‘pienissima’ di sé, che questo sarebbe l’errore più grossolano che potrei compiere nel descrivermi e assieme davvero, in quel caso, reale atto di superbia.
La realtà è ben diversa.
Mentre il signor H. mi illuminava con la sua scienza marittima e si prodigava in ogni modo nel tentativo di spiegarmi la differenza che passava tra una barca a remi e una gondola; nel momento in cui la signora H., gesticolando elegantemente, con quella sua manina dai contorni così delicati, così nobile nel suo compiersi in magre dita affusolate, ci erudiva, mia moglie e me, sulla bontà del sistema universitario del loro paese, lì, dall’altra parte del mondo, bè, avrei voluto con tutto il cuore sentirmi veramente interessato ai loro argomenti.
A me hanno sempre rimproverato di parlar poco, ma mai, almeno non direttamente, di non avere affatto argomenti.
Credo che ciò sia da imputare alla tendenza naturale delle persone a voler piacere al prossimo.
Ecco che il signor H., infatti, terminato con le barche a remi, evidentemente incoraggiato dal mio silente e sorridente annuire, si lanciava in una coraggiosa apologia del ‘timido’ in quanto ‘soggetto’.
Lui stesso era sempre stato un timido, mi aveva confessato. Era stato un timido fino ai vent’anni, aveva aggiunto, in vena di confidenze.
-Oh sì che era timido! – aveva esclamato la signora H.
-Ma non mi dire! – avevo risposto io diretto a lei.
- Ma sì che te lo dico! Pensa un po’ che quando ci siamo conosciuti ha atteso due mesi prima di invitarmi a cena.
E mentre lei aveva continuato a sciorinare le simpatiche mancanze di lui dovute alla sua timidezza, io non avevo potuto far altro che cedere al naturale concatenarsi dei miei più intimi pensieri e delle mie ‘certezze’.
Dalla veranda sul mare, comodo sulla mia sedia di vimini, avevo di fronte lo spettacolo di un tramonto. Ma lungi dal provocare in me romantici e sognanti sentimenti, quell’immagine così sublime stampata nel cielo già scuro, portava a galla le mie proverbiali angustie, quelle che mia moglie, più saggia e allo stesso tempo più pratica di me, chiamava semplicemente ‘fisse’.
Il caso aveva poi voluto che il signor H. si accorgesse del mio sguardo ‘aggrappato’ all’orizzonte e che con commossa poeticità mi domandasse: “ Amico mio, cos’è che ti ispira questo spettacolo?”.
Avrei voluto rispondergli con sincerità, e cioè che in quel tramonto io ci vedevo tutto e niente, l’attuazione di ogni possibilità, ma tali che, le possibilità, non potevano essersi ancora attualizzate. Gli avrei detto insomma che quello era una specie di magma ribollente in un grosso contenitore, e che in esso si mescolava tutto, ma tale che quello non riusciva ad essere nulla. E gli avrei detto che tali erano le mie certezze: un magma ribollente, tutto e niente.
Ma, aimè, l’occhio di mia moglie era vigile e severo, tanto scaltro quanto rapace. Così, sospirando, gli avevo risposto: “ Amico mio, quello…è l’Amore!”.
Semplice e inconcludente perché, forse, contenente più realismo e oggettività di quanto sia mai stato capace di concedere al mio ‘pensare’ la libertà e la possibilità.
La settimana che i coniugi H. erano venuti a trascorrere a casa nostra, dall’altra parte del ‘loro’ mondo bagnato da altri mari, sorvolato da altri cieli e caratterizzato da tante altre sfaccettature utili a descriversi solo se si mira a spicciola retorica…era passata nella graduale ma ben poco sorprendente presa di coscienza che io non avevo assolutamente nulla a che spartire con loro.
Le occhiate feroci di mia moglie che, nell’atto di servire la colazione in veranda, parevano ammonirmi e assieme supplicarmi, mi erano sembrate esplicative e vagamente intimidatorie nel loro tentativo ingenuo di impormi un ‘savoir faire’ che nessuno era mai stato in gradi di inculcarmi.
Non vorrei, con quest’ultima affermazione, far passare il messaggio di credermi persona ‘ribelle’ o ‘pienissima’ di sé, che questo sarebbe l’errore più grossolano che potrei compiere nel descrivermi e assieme davvero, in quel caso, reale atto di superbia.
La realtà è ben diversa.
Mentre il signor H. mi illuminava con la sua scienza marittima e si prodigava in ogni modo nel tentativo di spiegarmi la differenza che passava tra una barca a remi e una gondola; nel momento in cui la signora H., gesticolando elegantemente, con quella sua manina dai contorni così delicati, così nobile nel suo compiersi in magre dita affusolate, ci erudiva, mia moglie e me, sulla bontà del sistema universitario del loro paese, lì, dall’altra parte del mondo, bè, avrei voluto con tutto il cuore sentirmi veramente interessato ai loro argomenti.
A me hanno sempre rimproverato di parlar poco, ma mai, almeno non direttamente, di non avere affatto argomenti.
Credo che ciò sia da imputare alla tendenza naturale delle persone a voler piacere al prossimo.
Ecco che il signor H., infatti, terminato con le barche a remi, evidentemente incoraggiato dal mio silente e sorridente annuire, si lanciava in una coraggiosa apologia del ‘timido’ in quanto ‘soggetto’.
Lui stesso era sempre stato un timido, mi aveva confessato. Era stato un timido fino ai vent’anni, aveva aggiunto, in vena di confidenze.
-Oh sì che era timido! – aveva esclamato la signora H.
-Ma non mi dire! – avevo risposto io diretto a lei.
- Ma sì che te lo dico! Pensa un po’ che quando ci siamo conosciuti ha atteso due mesi prima di invitarmi a cena.
E mentre lei aveva continuato a sciorinare le simpatiche mancanze di lui dovute alla sua timidezza, io non avevo potuto far altro che cedere al naturale concatenarsi dei miei più intimi pensieri e delle mie ‘certezze’.
Dalla veranda sul mare, comodo sulla mia sedia di vimini, avevo di fronte lo spettacolo di un tramonto. Ma lungi dal provocare in me romantici e sognanti sentimenti, quell’immagine così sublime stampata nel cielo già scuro, portava a galla le mie proverbiali angustie, quelle che mia moglie, più saggia e allo stesso tempo più pratica di me, chiamava semplicemente ‘fisse’.
Il caso aveva poi voluto che il signor H. si accorgesse del mio sguardo ‘aggrappato’ all’orizzonte e che con commossa poeticità mi domandasse: “ Amico mio, cos’è che ti ispira questo spettacolo?”.
Avrei voluto rispondergli con sincerità, e cioè che in quel tramonto io ci vedevo tutto e niente, l’attuazione di ogni possibilità, ma tali che, le possibilità, non potevano essersi ancora attualizzate. Gli avrei detto insomma che quello era una specie di magma ribollente in un grosso contenitore, e che in esso si mescolava tutto, ma tale che quello non riusciva ad essere nulla. E gli avrei detto che tali erano le mie certezze: un magma ribollente, tutto e niente.
Ma, aimè, l’occhio di mia moglie era vigile e severo, tanto scaltro quanto rapace. Così, sospirando, gli avevo risposto: “ Amico mio, quello…è l’Amore!”.
Opera scritta il 28/07/2015 - 09:55
Da Luca M.
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