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Catina: Ovvero l'amore che sa attendere

“Catina, oh Catina”, sospirava Giovanni, la sua risata squillante, argentina gli apriva l’animo. In casa sua, no, simili manifestazioni di allegrezza non c’erano; sua madre Serafina, buona donna, paciosa e serafica come il nome che portava, aveva troppo daffare, specialmente da quando la piccola Antonia era caduta giù dal poggiolo. Era successo in un pomeriggio di fine febbraio, il ballatoio era rimasto ghiacciato, il pallido sole uscito, non ce l’aveva fatta a sciogliere il sottile strato di ghiaccio che da giorni stazionava sopra le assi, a dire il vero, un po’ sconnesse. E che dire dei pioli della ringhiera, c’era un buco, lei lo aveva detto ad Antonio, suo marito, lui aveva alzato un po’ le spalle, sì lo avrebbe aggiustato ma non ora. Se ne sarebbe rammaricato, Serafina non lo perdonò; la piccina (aveva compiuto due anni a dicembre) riportò un grosso trauma e il suo sviluppo intellettivo fu compromesso per sempre. E il cuore di mamma Serafina si sarebbe ammalato. Era dura la vita lassù al “Cucco”! E poi i tanti figli: le tante gravidanze avevano intaccato la forte tempra di montanara e ora, no, non ci voleva proprio questa batosta! Giovanni apprese che mamma Serafina non era più tra i suoi cari, tornando giù dall’alpeggio: era stato nel “cason” ad aiutare a fare il formaggio e nel passare davanti alla casa di Catina, si era fermato a salutarla, come sempre faceva e così apprese la brutta notizia. Col cuore in gola, correndo a più non posso, raggiunse casa; le donne della piccola contrada, avevano composto Serafina nel suo letto: un infarto, era stato un infarto; al dottore che finalmente era riuscito a salire fin lassù, non restò altro che redigere il certificato di morte. Giovanni osservava la scena come se fosse un brutto sogno, l’adorata mamma che sempre lo difendeva dalle sfuriate di papà Antonio, non rispondeva ai suoi richiami, suo padre seduto affranto su una seggiola, aveva un’espressione attonita. Aveva molto amato quella donna, poi si sa, col tempo certe dolcezze spariscono. La guardava col pallore della morte che avanzava, sino a togliere del tutto il roseo delle guance e ripensava al loro primo incontro. Era andato a trovare Giuseppe, un cugino in seconda, con il quale avrebbe poi combattuto coi fratelli Fusinato nel “48”, contro gli austriaci, lassù al “Pian delle Fugazze” e aveva incrociato la Serafina che tornava con la brocca dell’acqua dalla fontana: le chiese da bere e si ripromise poi, di andare a parlare col padre di lei. Nel giro di pochi mesi erano marito e moglie e, una brava moglie! Sì, una brava moglie si ripeteva Antonio col pensiero; questo però non gli impedì di accasarsi nuovamente entro l’anno. La nuova sposa era Veronica, chiamata in famiglia col secondo nome: Margherita. Era una cugina da parte di madre con la Serafina e coi suoi trentacinque anni pensò bene di prendere l’ultimo treno che passava e poi, si era parenti, aveva visto nascere e crescere i figli di Antonio, sì se ne sarebbe presa cura lei volentieri. Antonio poi, non disperava, un altro figlio maschio sarebbe stato il benvenuto, oh sì, c’era il Giovanni, ma benedetto ragazzo, non sembrava avere la stoffa per farne un uomo di polso. Nei sogni del tredicenne Giovanni c’era una vita tranquilla e, c’era la Catina. Antonio lasciava fare, ma non gradiva molto che il suo unico figlio maschio, perdesse il suo tempo con la figlia di pastori. Mamma Serafina invece, proteggeva quella bella ed innocente amicizia. Catina sembrava più grande dei suoi undici anni, lassù si cresceva in fretta! Dava molto a Giovanni, che con un padre così “ingombrante”, manifestava un carattere sin troppo schivo. Cantava Catina, aveva una bella voce e a volte l’eco rimandava i suoi stornelli. Giovanni da quando era morta la mamma, aveva intensificato la sua permanenza al “cason”; era il “cason” di nonno Mattio, i genitori di Catina, troppo poveri per possederne uno, lo avevano preso in affitto da Matteo, zio di Giovanni. Per il fitto, niente denaro, ma qualche forma di formaggio e magari un agnellino per Pasqua. Catina seppur così giovane, oltre alla cura della casa, dei fratellini e l’andare a prendere l’acqua alla fontana, quando la famiglia si trasferiva all’alpeggio, abitando nel “cason”, aiutava sia con il gregge, sia a fare il formaggio. A scuola era andata giusto il tempo di imparare a scrivere il suo nome e a contare sino a dieci con le dita delle mani. Antonio la incrociò per caso, in una delle tante stradine che salgono e scendono dall’alpeggio; la sentì cantare e fu piacevolmente sorpreso di incontrare una piccola “donnina” così compita nell’adempiere ai suoi doveri, ma nello stesso tempo così gioiosa ed amante della vita. L’atteggiamento nei suoi confronti cambiò, si ammorbidì e Giovanni ne fu felice, la sua balbuzie sembrava, in certi momenti attenuarsi; fu un periodo sereno per i due ragazzi. Ma un brutto giorno qualcosa si ruppe, Antonio proibì in modo deciso a Giovanni di continuare a frequentare Catina. Si mise anche Margherita a mettere una buona parola, ma non ci fu niente da fare! Che cosa era successo di così terribile da far cambiare idea ad Antonio? Presto detto: aveva incontrato nei boschi vicino a casa la “vecia mata”; era la nonna materna di Catina, fuggita dalla stanzetta dove era relegata a causa della “dolce pazzia”, come la chiamava Catina, che alla nonna era molto affezionata e la proteggeva dal giudizio, a volte feroce, della gente. C’erano stati, in quella famiglia, altri casi simili ed Antonio pensò a Giovanni suo figlio: no! Era meglio che lasciasse perdere, anche solo l’idea di una possibile unione con la Catina. Erano passati due anni, la “vecia matta” era morta, Catina non era più una bambina, era “sbocciata” ed a Giovanni una leggera peluria incorniciava il viso; Antonio non aveva cambiato idea e non la cambierà mai! Trent’anni dovranno passare, prima che Catina e Giovanni si coricassero insieme, trent’anni di attesa tenendosi le mani, trent’anni in cui la loro gioventù volò via tingendo di fili grigi i bei capelli d’oro di Catina e i baffi di Giovanni. Continuava a cantare Catina per il suo Giovanni; e cantava anche per i figli di suo fratello, immaginando di cantare la ninna nanna per i bambini suoi e di Giovanni. Li sognavano e avevano scelto anche il nome: Rosa ed Emilio; i sogni, tali restarono, anche quando, morto Antonio, finalmente poterono scambiarsi il giuramento nella bella chiesa di Valli dei Signori. Era l’alba, una meravigliosa alba col cielo che sfoggiava una tavolozza di rosa, di azzurrino e poi ecco il sole che irrompeva scaldando gli animi già colmi di una contentezza a lungo aspettata. Ora il viso di Catina era segnato dalle rughe di un duro vivere e una stretta crocchia aveva preso da tempo il posto della cascata di capelli color del grano, ma a Giovanni pareva bellissima e il cuore gli scoppiava in petto attraversando la navata con sottobraccio la sua sposa. Indossava Giovanni le scarpe nuove, comperate tanti anni prima ed a lungo conservate per il gran giorno, la sera le aveva tirate fuori e le aveva lucidate, se le aveva messe ai piedi con qualche timore: “E se non andassero più bene?” I timori svanirono, le scarpe erano perfette e le mise vicino alla sedia dove aveva posto l’abito spazzolatogli dalle sorelle. Si coricò, ma il sonno non andò quella notte a fargli compagnia. “Giovanni, Giovanni, su alzati, è ora”. Nel leggero torpore, arrivatogli sul finire della notte, una mano energica lo stava scuotendo; le sue sorelle si avvicendavano: chi gli abbottonava il gilet, chi lo aiutava ad infilarsi la giacca, chi gli portava il cappello. Un suono gioioso di lontane campane dette il suo saluto al “maturo sposino”. E Catina? Lei stava vivendo “la cosa” con maggior tranquillità; arrotolandosi la crocchia, l’aveva fermata con un bel pettinino, regalo questo, di Rachele sua ormai prossima cognata. Glielo aveva portato da Venezia, dove aveva prestato servizio per molti anni, presso una famiglia principile; era davvero un bel monile e Catina se lo rimirava tenendo con la mano l’anta della finestra, a modo che il vetro le facesse da specchio. Ma Catina, vedeva anche dell’altro… rivedeva la sua giovinezza che era volata via in questa lunga attesa e per un attimo il suo sorriso si spense, ma poi una voce allegra la riportò al presente: il momento tanto atteso era giunto! Giovanna, moglie di suo fratello Mario, le stava mettendo sulle spalle il bel scialle ricamato, dono questo, della amata nonna. Catina però non aveva ereditato solo lo scialle dalla “vecia mata”: i geni della “dolce pazzia” erano in lei. Antonio, a suo tempo, aveva visto giusto! Catina era sempre stata in sintonia con il mondo degli animali, lei ci parlava, loro sembravano capirla, nella sua vecchiaia però, questo sconfinò in paranoia: voleva mettere a letto le galline! Giovanni lasciava fare, in fondo non faceva del male a nessuno. Era paziente Giovanni e la sua bonarietà lo portò a vivere a lungo: si spense nel 1933 a ottantadue anni, Catina se ne era andata giusto dieci anni prima. La loro storia d’amore si era persa tra le pieghe del tempo, anche se, a distanza di qualche generazione, in quella famiglia si ripeté qualche cosa di simile, pene d’amore non sempre concluse con un lieto fine. Però noi vogliamo ricordarci Catina e Giovanni, giovani e belli, innamorati; corrono tra l’erba alta piena di profumi, godono dei meravigliosi tramonti, lassù tra corone di monti capitanati dal Pasubio e il vento passando tra le gole e le alte cime porta una canzone:
“Oh Catina, Catina, l’amor sa attendere…!”



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Opera scritta il 21/11/2015 - 14:13
Da Ivana Piazza
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