Se curare la vita fosse come accudire una pianta sarebbe tutto , forse, più semplice. Sostituire il terriccio, innaffiare di tanto in tanto, fortificare con i concimi adeguati, luminosità e temperatura adatte. Eppure dà sollievo vedere una pianta crescere, rinvingorirsi, partorire foglie nuove, produrre fiori. E’ un po’ come se il merito fosse tutto tuo. Come se avessi sudato, faticato, sofferto, come avviene alla puerpera quando fa nascere il proprio bambino. E poi ti senti padrone della pianta, la quale -grazie al tuo lavoro- vive. Se fossimo piante, ecco! sarebbe meno complicato organizzarsi la vita. La cosa che desta improvvisamente la mente è questa differenza: quando ci si accorge di non poter vivere perché qualcuno ti fa vivere, ma di dover farti vivere da solo. Di doverti innaffiare, concimare, farti diventare; per opera del tuo stesso ingegno, della tua stessa fatica. E non si è mai pronti. Io non lo sono. Non si vuole essere pronti. Se qualcuno potesse decidere, al posto tuo, in modo retto e ottimale, sarebbe più facile. Come la pianta si potrebbe crescere, dare frutti per ringraziare , fare frutti per vivere. E poi noi pensiamo per gli altri, soffriamo per gli altri; le piante forse non lo fanno. Che pianta potrei essere se io non fossi un essere umano? Se non mi trovassi qui, a meditare su di me e a capire di te, con un giornale aperto che guardo ma non vedo, appoggiato su un bianco tavolo di un bar senz’aria condizionata, con un caffè che era troppo caldo ed ora è troppo freddo, a girarmi l’anello nel dito pollice sinistro? Se non fossi questo che cosa sarei mai stato? Come sarebbe se non mi affliggesse il pensiero di ciò che era?…. Eri. Sei. Sarai.
Ho studiato perché mi piaceva, non perché volessi fare quel lavoro specifico, ma perché mi interessava. Ho lavorato perché volevo la mia autonomia, non perché il lavoro mi appagasse. Ho imparato a suonare perché ero curioso. Ho seguito il teatro perché amo l’ espressione e l’introspezione che elargisce il palcoscenico. Non ho seguito veramente me stesso. Non sono stato accudito da altri, ma (sordo alle osservazioni altrui) ho lasciato decidere al caso. Ora sono qua, seduto al bar. A pensare. A chiedermi se seguirò mai me stesso e se avrò dato abbastanza me stesso alla famiglia, agli amici, a me stesso; a domandarmi se riuscirò a dar vita a quello che desideravo, desidero, desidererei. Nel contempo mi accorgo che la vita ci cambia … la vita ti sta cambiando. E gira l’ anello attorno al dito. E scrivo. E il caffè è diventato troppo cattivo per essere consumato.