Sono solo, in giro tra i cardini e i decumani di questo quartiere sventrato, intorpidito, lasciato a mollo; eppure, nel suo implacabile disordine e nella sua sempiterna rassegnazione, anche la cruda architettura di una zona residenziale di case popolari può donarti i suoi spunti di riflessione, e le sue brave immagini dal sapore felliniano, in una notte di fine primavera dal temperamento quasi settembrino.
Stasera ho proprio voglia di farmi una pizza, ma indugio; mi blocca la situazione meteorologica e i cinquecento metri che mi separano dalla pizzeria più vicina – già, a volte la noia gioca brutti scherzi! -, ma alfine decido di alzare i tacchi e dirigermi verso l’agognato locale, per ordinare l’agognato alimento.
In tempi di buio cosmico psichico, almeno la musica, lo studio, gli amici, il cinema e il cibo sono un’ottima consolazione.
Sul calle che mi conduce da Tonino “l’Ebreo”, come giocosamente ci divertiamo a definire il proprietario della pizzeria a causa della sua spilorceria in netto contrasto con la bontà delle pizze, quello che apparentemente si mostra come un silenzio tombale, in realtà emette dei piccoli suoni distinguibili con un orecchio attento e preciso. Ed ecco che piccole scene di vita quotidiana si parano dinanzi al mio passo: una giovine donna pensosa con al guinzaglio il proprio cane, nell’atto di espletare le proprie funzioni organiche, un ragazzino che – con questo freddo umido – ha ben pensato di girare in bici a maniche corte – beata gioventù! -, e un’auto in cui è rintanata una coppia, alla quale ho giustamente evitato di avvicinarmi, non vorrei passare per il voyeur della situazione. Magari stavano anche soltanto parlando, ma non si sa mai.
In tutto ciò l’aria è impregnata di quell’umido di pioggia fresca, appena caduta, i pini del mio quartiere si muovono al flusso inesorabile e continuo del vento che viene dal Nord. O dall’Est? Ma chi lo sa, piccoli dettagli.
Nel mio vagabondare in seconda serata – o in prima notte, se preferite – spesso mi volgo a mirare le case d’intorno, pensando a quanta gente, in questo preciso momento, starà scrivendo la propria storia, litigando, facendo l’amore, scrivendo, suonando, sbattendosi fiaccamente su un divano a guardare la televisione. Magari qualcuno starà nascendo, qualcun altro morendo, è il gioco della vita.
Lì di fianco lo Stadio Massajoli – o meglio, ciò che ne rimane – mi fissa imperioso, dall’alto della sua storia vetusta. Potrei cavare fuori da questo luogo tanti ricordi di un’adolescenza vissuta in un ambiente “paternaro medio-borghese”, come ho sempre amato definirlo. Ma non è tempo.
Entro nel ristorante, avvolto dal solito tepore di quando, al Liceo, venivo a passarci il sabato sera con i miei compagni di classe; ad attendermi, al di là della classa, proprio lui, Tonino l’Ebreo, il quale, con il suo solito faccino sornione e allo stesso tempo scaltro, mi interroga per conoscere la mia preferenza in merito alle mie bramosie gastronomiche di questa sera.
Ordino una Diavola, tanto per cambiare – era ironico -, ed ecco che un panetto rotondo viene disteso e condito di quanto serve, per finire poi dritto dritto nel forno a legna, ardente, che la cuoce inesorabilmente, mentre in tv trasmettono lo spot di un’altra fiction con come protagonista la Arcuri, la quale si ostina a voler fare l’attrice di filmetti d’azione.
Nel mentre mi accarezzo il pizzetto, che ogni giorno diventa sempre più ispido, lungo, irsuto, pungente.
Tempo finisca lo spot, la pizza è pronta. Grazie, arrivederci.
Esco, e strada facendo, addento la prima fetta di pizza; decido di percorrere la strada lunga, che da molti anni ormai evito per imboccare la scorciatoia laterale atta a condurmi velocemente a casa. Camminando sommessamente tra queste strade, tornano alla mente tante immagini di un’adolescenza vissuta per strada insieme a tanti altri “soggetti” come me: c’è la palestra, la mia scuola di basket, che a quest’ora è giustamente chiusa. C’è il bar di Danilo e Vitantonio a cento metri da casa mia, che, quando in una mattina d’estate ti rechi lì per prendere un cornetto fonte di colazione, ti riempiono di mille domande e parole mentre tu hai gli occhi ancora socchiusi, essendoti ripresentato al mondo soltanto cinque minuti prima. E torni a casa ancora più frastornato.
C’è la chiesa di Don Andrea, il povero timorato curato del Signore con quattro automobili, due proprietà, una folla di fedeli bigotti quanto basta e anche dell’altro. Che ci vuoi fare, quando si sposa la giusta causa!
Arrivo alla seconda fetta di pizza, e son già davanti casa: ma invece di salire, preferisco dirottare il mio percorso verso la parte alta del quartiere, lì, dove una volta c’era un parco giochi: ora l’hanno smantellato, non c’è più nulla. Qualsiasi elemento ricreativo e ristoratore per l’anima qui viene inesorabilmente portato via, non c’è spazio per l’interiorità. Questo è un quartiere di malaffare, improvvisazione, bullismo.
Eppure stasera c’è un’aria così tranquilla, così mia. Un’atmosfera che raramente avverto qui. Anzi, quasi mai. E ci vivo da quindici lunghi anni. Una coppia di ragazzi torna tranquillamente a casa: sono abbracciati, sorridono, si baciano. Sembra di essere tornato indietro di quattro anni. Già. Pazienza.
Quattro anni fa tutto era diverso: il contesto, l’ambiente, le idee, noi. Eh già. Forse il mondo intero era più bello, con gli occhi di un ragazzo di diciassette anni e tre quarti, che se ne fregava di tutto e di tutti, con la smania di fare il rock’n’roller, in giro tra i pub della provincia, e con il capriccio nuovo di innamorarsi. Già.
Sicuramente più bello e spensierato, il mondo di quattro anni fa.
Un signore sulla sessantina si affaccia per dare un’occhiata allo spiazzo circostante; il ragazzino in bici gira ancora indomito e indefesso, lanciandomi delle occhiate curiose mentre addento l’ultima fetta di pizza. Mentre sto per tornare a casa, un signore brizzolato con un cane passa, donandomi un sussurrato “buonasera”, ricambiato. Getto il cartone nel contenitore dei rifiuti organici e risalgo alla maison.
Avrei voluto avere con me una videocamera in questa mia improvvisata notturna, per riprendere dei momenti e farne un cortometraggio estemporaneo, astratto, felliniano; ma ecco che mi fiondo al pc, e scrivo, scrivo, scrivo. E’ da tanto che non scrivevo un racconto. Anche molto autobiografico, nostalgico, malinconico e fottutamente intriso di amarezza. Però un racconto, una forma diversa dal mio solito modo di esprimermi con la forma canzone.
Dannata amarezza.
Ma sì. Trangugio il thè caldo che mi ha preparato mamma, che preso agli sgoccioli di Giugno fa davvero preoccupare un po’, metto l’acid jazz a tutto volume nella mia stanza, e scrivo, scrivo, scrivo, mentre messaggio con Fabrizio che simpaticamente mi trascrive graficamente l’imitazione di Joe Bastianich. Scrivo, scrivo, scrivo, fin quando un mal di testa latente, dovuto al tempo e all’umidità che è calata su di me, mi fa realizzare che forse è meglio andare a dormire. Domani sarà un’altra giornata piena: ore 23,20.
In realtà aspettavo delle parole che non mi sono arrivate, e chissà se mi arriveranno. Ma non importa. Oggi mi ha molto colpito una frase del grande Dario Fo, e che ha – seppur leggermente e momentaneamente - riequilibrato il mio status: “Quando hai concluso, non c’è bisogno che tu dica altra parola: saluta e pensa che quella gente, se tu l’hai accontentata nei sentimenti, nell’affetto e nel pensiero, ti sarà riconoscente”.
Qui mi fermo. Ore 23,22 di Venerdì Trentuno Maggio 2013.
Buonanotte, Gente!
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