Scacco al Re
C’era una volta un re di nome Artù e durante una riunione intorno alla tavola rotonda, sentenziò: “Voglio soltanto giocare a scacchi” e non scherzava. Per tutta la vita, il re aveva sognato di essere il genio degli scacchi ed ha cercato di essere fedele a questo proposito e tutta la sua vita ne è stata la smentita, paradossale. La sua corte era costituita dalla regina Ginevra, dalle torri: Mago Merlino e Excalibur, dagli alfieri: Lancillotto e Parsifal, dai cavalli: Re Leodegrance e Sir Lionel, infine gli otto pedoni: Sir Tristano, Sir Ettore, Sir Daniel, Sir Egawain, Sir Galahad, Sir Gareth, Sir Morholt e Sir Ivano, che lo proteggevano da ogni minaccia. Le loro mosse difendevano il re dallo scacco matto e cercavano di evitargli ogni situazione di stallo. Catturavano ogni pezzo che minacciava il re ed erano pronti ad immolarsi per mantenerlo in vita. Anche di dare ripetuti scacchi al re avversario, per cercare di pattare con lo scacco perpetuo una partita in cui si era in svantaggio, creare una forchetta per guadagnare materiale, creare un'infilata per prendere un pezzo dietro al re, forzare uno scambio di pezzi, utilizzare lo scacco doppio per forzare il re a muovere in una posizione sfavorevole, forzare il re a muovere per fargli perdere la possibilità dell'arrocco, allontanare il re dalla difesa di un suo pezzo, usare lo scacco di scoperta per attaccare un altro pezzo e creare un attacco di scoperta ad un altro pezzo. Lui che voleva isolarsi in un mondo a parte, lui che cercava l'elusiva sicurezza di una dimensione protetta, controllabile, ha finito per ritrovarsi proprio al centro della scena. Tragica ironia della sorte, Re Artù diventa uno specchio, estremo e sconcertante, della storia passata, una rovina. Il volto, i gesti, del sovrano, la sua intrattabile coerenza, le sue scelte "controtempo", la sua rinuncia e un coro di voci, per provare a decifrarlo, per riuscire a spiegarlo, inutilmente per svelarne l'enigma cercando di stare ai fatti, con concretezza. Dall'infanzia solitaria in un reame grigio ai primi grandi successi, all'apoteosi in Britannia, quando batte Mordred ed è il primo scacchista a conquistare il titolo mondiale. La cronaca anglosassone segue Re Artù mettendo insieme reperti, tracce, frammenti, e il risultato è davvero sorprendente, notevolissimo. Lo sfondo è la guerra tra la Bretagna e i Sassoni, ma niente appare scontato, prevedibile. Con un uso magistrale di un ricchissimo materiale di repertorio, ricostruisce la battaglia di Camlann in maniera perfetta. In un mondo che sembrava improvvisamente travolto da un'epidemia di scacco mania globale, il re di Bretagna tiene tutti col fiato sospeso ma quando inizia a giocare non ha rivali. È un trionfo e una beffa, l'ennesimo paradosso, il più spiazzante, per l'individualista ora diventa un simbolo politico, una "pedina fondamentale" per quel contesto storico. Il popolo gli chiese di giocare per la gloria del paese e lui obbedì; da bravo soldato si sentiva usato; non voleva accettarlo. Già al ritorno in Bretagna è pronto a ripensarsi; la storia di Re Artù non avrebbe alcun senso senza questo "dopo" tragico, inquietante. Anni scuri allo sbando, tra abiure e rinunce, colpi di scena, cialtronesche sparate, paranoia. Qui il racconto col suo "coro" di voci troppo sensate, perde il filo e svanisce, si normalizza; da qui in poi il nonno non ricorda come andare avanti nella storia e tra qualche barlume di ricordo e qualcosa inventata di sana pianta riprende a narrare al proprio nipotino, disteso al calduccio nel proprio lettino: da quel giorno di settembre Re Artù lascia la scena, clamorosamente. La Bretagna è sgomentata; lui non batte ciglio e tira dritto, non difenderà mai il titolo mondiale e abbandonerà gli scacchi per almeno vent'anni. Appare, scompare e, poi, quando riappare, lui, l'eroe in questo percorso gli procura soltanto rovina, velenoso rancore, paranoia. La sua decadenza viene inquadrata ovvia e rassicurante, ma non era così; o non soltanto; nel suo abisso c'è un mondo, un intreccio di ragioni inesauribili. Avevano voluto farne un simbolo, un pretesto, una bandiera, ma è stata soltanto la sua fuga a renderlo un mito. Liquidarlo come un semplice caso clinico non ha senso. L'aveva detto anche lui, secoli prima: «Non credo nella psicologia; credo soltanto nelle buone mosse».
Opera scritta il 04/01/2018 - 23:10
Da Savino Spina
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Commenti
La vita è paragonabile ad una partita a scacchi, dalle nostre mosse dipenderà tanto vincere o perdere, al pari delle scelte, sta nel valutare attentamente gli episodi del passato, del presente e del futuro. Potremo perdere mille scontri, mille battaglie, ma sin quando non ci daranno scacco matto, è una partita aperta e abbiamo una sola partita da giocare.
Savino Spina 05/01/2018 - 16:02
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