Seguito di “Martino e Lucilla nel luogo del misfatto”
Ogni mattina s'impegnava nella corsa e ne guadagnava in salute, un tonico dalle membra affaticate, ritornava in casa e irrorata aveva la mente di maggior brillantezza: sì che lo spirito di Lorenza era pien di fervore per tutta la giornata. Lei pure fu mia ( di Martino n.d.a.) compagna di classe, sempre, dalle elementari al liceo, e ammetto con schiettezza assoluta: mi superava in voti, e perfino in attività fisica. Fin dagli albori mi segnò nei registri degli inutili, ma le cose per me cambiarono al liceo, quando lei variò il nome al registro dove segna questi, troppo dispregiati, soggetti; e d'allora furono ignavi, che scoprì quel famoso terzo canto dell'Inferno, quello che trasforma tutti gli adolescenti in superbi attivisti.
Purtroppo io e Lucilla la incontrammo la sera precedente, ci chiese con la consueta dolcezza dove fossimo diretti. Glie l' abbiamo concessa la cortesia di dirgli che ci facevamo una passeggiata nel boschetto. «A malandrini!», Lorenza commentò. Perché abbiamo continuato a parlarci da quel tempo adolescenziale? Io avrei dovuto tagliare per sempre, non sarebbe arrivata la resa dei conti. Se io e Lucilla, la sera prima, ci siamo tenuti sul dorso della gola, Lorenza, la mattina successiva, cominciò la sua corsa immettendosi nel vialetto lastricato che segue le rive del fiume. Questo vialetto è un opera di recente realizzazione, voluta dal sindaco stesso in favore della cittadinanza e dei turisti che mai arrivano, comodo per ammirare lo scorrere delle acque pure, il loro riversarsi graduale verso la piana, tra gli spenti magmi del tempo immemore, avanzati, bloccati, materia splendente da plasmare.
Lorenza è allenata alla corsa, una leggera costanza alla fatica, con elegante naturalezza mantiene la postura eretta: un piede eleva e l'altro in sincronia crolla, dritte le gambe all'orizzonte, e s'ammirano agili: rivelavano la bellezza, celano la forza. Raggruppa ricci nerissimi come un cono vulcanico, un groviglio increspato che innalza stupendamente la sua statura media, ma la bellezza è incommensurabile. Nella burrasca della fatica, gli zigomi ben prominenti splendono brillanti di sudore, due rocce sovrastate dalle brune chiome. Ebbene, richiamavano al mistero due occhi neri, caverne profonde volte ad accoglierti nel tempo di pioggia. Le finissime dita allontanavano dagli occhi qualche stilla noiosa, e il fascino accresceva. Partendo dal seno, lungo i fianchi ben eseguì con la sua mano un artigiano, stese una corda fin alla vita, ad Eros modellò un arco, si tende e si contrae: tutti l'ammirano e si dicono di lei innamorati. A sembrare dalla sua natura, lei nessun si filava di questo nostro paese (Graniti n.d.a.), e la sua corsa tra la vegetazione poteva apparire di quelle fanciulle d'epoca cavalleresca che, per scampare dalle insistenze del cavaliere sconosciuto, cercavano riparo. No, non era così, devo ammettere che lei era elegantemente abbinata alla foresta, che lei amava d'altronde, come tutta quanta lei l'amava la natura, non un suo essere escluso, animale o pianta; e furono tante le sue battaglie per mantenere il paese nella sua selvatica solitudine, per difenderci dalla moda dei quartieri con villette monofamiliari; e fu anche lei ad ispirare le azioni del sindaco, quell'assessore alla cultura di tanti anni prima, che era suo padre. L'ordine era l' imperativo in Lorenza, l'ordine come assenza di ferite nel suo mondo, che per empatia inevitabilmente entravano nel suo animo, e lei non rimaneva seduta, in agonia, ma le curava senza esitazione queste ferite, in modo drastico; come quando riuscì, e fummo i primi fra tutti i comuni della provincia, ad imporre ai bifolchi, ai più tradizionalisti, ai più annoiati, il riciclo incondizionato, integrale. E ad inizio regime, furono incessanti e circostanziate le denunce presentate ai vigili urbani, denunce di lei nota contro i sozzi noti. Nemmeno aveva paura di ritorsioni, e paura non si permettevano di arrecargli i denunciati, perché alla bellezza ancora qui ci s' inchina.
Ed aveva nelle gambe già qualche chilometro, addentrata lungo il corso del torrente. La sua corsa sarebbe proseguita per altri chilometri per tutto il sentiero ciottolato, il quale torna selvaggio ascendendo il monte, fin che raggiunge una scala naturalmente fatta di pietre, che risale sul dorso e ridiscende verso il paese. Questa è la passeggiata che tutti fanno: vecchi in cerca di funghi o asparagi, amanti in cerca di solitudine, bambini in cerca di avventure, Lorenza in cerca di aria pura... e lei fu colpita da una stranezza quel giorno, una stranezza che s' aggrappava a prima vista, ma lei, avvicinandosi, s'accorse che era qualcosa solamente addossata al mucchio di rami oscillanti tra le acque, un groviglio impigliato tra le rocce emerse. Si fermò per vedere cosa fosse, cercò nell'intorno un ramo utile al suo intento, ne trovò uno abbastanza lungo e robusto con una biforcazione di ramoscelli all'estremità. Scosse quel groviglio di avanzi e riuscì a separare la stranezza dal resto, ma quella cosa fu scaraventata dal fluire impetuoso delle acque, Lorenza allora si addolorò che per sua colpa perse un riparo, ebbe paura. La inseguì lungo la riva, finché la corrente sbatté quella cosa sulla sponda, fu proprio nel suo lato, si rincuorò, con facilità la prese. Si commosse e poggiò per terra quel gattino già morto. Si sarà perso, Lorenza pensò, fuggito dalla cucciolata, un evento eccezionale ma che può capitare. Scorse nella scarpata quello che poteva essere una tana, un foro abbastanza grande da usare per la sepoltura, e così interrò il gattino col sigillo di un masso sopra. Si chinò per ripulirsi le mani nelle acque, riprese la corsa, ma gli occhi anticiparono i cento metri che la separavano dall'ecatombe consumata; e smise la sua composta andatura, accelerò turbata dall’angoscia, dalla visione di piccole chiazze di peli e sangue e, viste dalla distanza, erano come una tremenda costellazione, presaga di un dolore impensabile. Quando fu vicina non riuscì a comprendere la complessa spirale che formavano quelle chiazze, pare in modo del tutto naturale. La vista della prima chiazza la fece sprofondare in uno strazio che non evitò chiudendo gli occhi, voltandosi da un altra parte, tappandosi il naso per non sentire la puzza.
Né salubre per una animo straziato è un profluvio odoroso dalla umida terra, né dai pregni tronchi, niente ricopriva il tanfo acre. E per più commiserare la sciagurata morte delle povere creature, scrutava attentamente il modo dell'impatto. Doveva ricercare le prove di un misfatto, perché la zampa dell'uomo cattivo c'era di sicuro, a prima impressione. Ma davvero erano davanti a lei quei miseri corpicini lacerati!
« Ed io pure lacerata, vi guardo al suolo e non oso immaginare spiaccicarvi...». Lorenza soffriva al solo pensiero . Era evidente l'atrocità meditata, ma doveva capire quando commessa, come, e sopratutto perché. S' eccitò dentro il suo cuore l'ira: “E tu che l'hai commessa, finisci peggio di loro, eviscerato, tra acuti dolori. Conficcato sulle puntute pietre; inclinato come pendaglio, scandente il tempo di fame delle belve a centellinare le tue viscere per mesi, scompaia nell'acqua il tuo veleno rosso e il tuo sangue corrotto. Nemmeno una fogna riceva il tuo riposo dopo avere sofferto per tutta la durata della umana vita. In un letto mai riposerai in vita e nel cammino avrai sempre inciampo. Devi saggiare i mali che t'accompagneranno, non avrai più compagna la vita, che fin d' ora maledirai”.
Finì l'eccitazione, ebbe un brivido. Pensò ai ragazzetti, sì maleducati, ma se furono loro gli autori, non meritavano tanto disprezzo. Di quei ragazzetti, che scorrazzano sempre per le strade, sapeva nomi e cognomi, e tra quelle facce di delinquentelli, inseriva anche il ghigno brigante di suo nipote... Lorenza si arrabbiò e digrignò i denti, con stento riuscì a revocare la condanna. Trattenne un istintivo movimento, contenne il desiderio di compiere, come in precedenza, quel suo atto di compassione: prendere il micio con le caldi mani. La frenò il sangue allargato e le budella fuoriuscite; quei dentini sporgenti che presumevano una morte disperata, maledetta e, spirando, l'anima del gattino sembrava aver riversato tutta la sua collera verso il carnefice, come la stessa Lorenza pochi minuti or sono fece. E da questo completamente grigio strisciato di nero, indirizzò gli occhi verso gli altri due più ravvicinati, al centro della spirale, uno bianco chiazzato color carota, l'altro di colore indefinibile, tutte le scale di grigi e colori a chiazze vi si sovrapponevano nel pelo. Poi fece un giro su se stessa per osservare il resto dei gattini sfracellati, ne contò quattro, costatò che erano tutti morti, e tutti non serafici nel muso. «Maledetti!».
Iniziò ad immaginare, nel piano sopra la scarpata, quel gruppetto di ragazzetti in corona del loro leader, ognuno con la sua dose di perverso divertimento, immaturi nell'incitarsi l'un l'altro al coraggio; punzecchiare l'indeciso con frecciate e strattoni per effettuare il lancio del gattino.
“Sì, non c'è dubbio. Ognuno di questi poveretti occupa la stessa posizione che occupava ognuno di quei diavoli là sopra”, Lorenza pensò; e all'improvviso sente, dietro le spalle, scivolare per la scarpata un mucchietto di pietruzze e terriccio. Quando si voltò e alzò la testa, non vide neppure la polvere ma suppose di vedere una figura, là sopra il piano. “L'inutile curioso di turno o il colpevole che rimira il suo misfatto?”, concluse nella sua testa. Reclinò gli occhi nel punto in cui possibilmente precipitarono i sassolini, vide un altro gattino, ansimava. Questo era caduto costeggiando il fianco della scarpata, sicuramente sbattendo in quel tronco sporgente, attenuò il colpo in un cespuglio di sommacco. Doveva salvare almeno questo. Prese il micio con tutta la tenerezza possibile, sorrise al miagolio smorzato, si voltò a guardare il percorso già compiuto, e adesso il ruscello scorre al suo fianco sinistro. L'acqua discendeva irruenta, e di più correre Lorenza ebbe trasporto, verso il paese, alla sua casa. In pochi minuti ripercorse il sentiero, di corsa tra le case pensava a chi potesse aiutare un micio in procinto di morire. Una figura che si avvicina ad un veterinario pensò ovviamente essere il medico, che però arrivava da fuori, e il mercoledì aveva il turno pomeridiano. Decise di andare direttamente a Calatabiano con la macchina, ma farà prima praticare qualche medicamento dal suo amico odontotecnico, Fabio. E fu così che si mise a suonare il campanello, ma per il suo amico, che faceva le ore piccole, fu una rottura di sonno e questo non voleva alzare la testa dal suo cuscino, lasciò perdere il prolungato e ripetuto scampanellio; Fabio fu così paziente a sopportare la molestia che pareva quasi in procinto di vincerla la sua lotta, forse contro i procacciatori di contratti. Ma si fece riconoscere la molestatrice del suo sonno, perché la voce acuta di Lorenza perforava i doppi e gli spessi vetri, e pure le mura più insonorizzate. La voce lo raggiunse, lo illuse e così si alzò di foga, e l'accolse col pigiama. Fabio vede, come al solito, che tra lei e lui c'è sempre un altro essere di mezzo, disse subito, senza saluti:
«Che vuoi con questo gatto?».
« È ferito».
«Ferito? martoriato e in fin di vita direi io, gli do un poco di fumo, entra, così muore sereno».
«Lo porto per curarlo».
«Entra che lo disinfettiamo». Fabio, con la dovuta distanza, lo prese con dei stecchi per non imbrattarsi del sangue e della puzza del micio. Si accorse delle zampe che rimanevano a penzoloni. Disse: «Qui c'è rottura totale di ossa negli arti, li irrigidisco col gesso che uso per stampare arcate dentarie, roba preziosa».
«Con tutte queste ossa rotte... accompagnami dal veterinario».
«Ho questo spray antidolorifico, una spruzzatina... questo gatto merita la morte, non ti accanire, sicuramente il veterinario gli taglierà le zampe e sarai costretta a costruirgli un carrozzone». Lorenza ebbe orrore del sadismo del suo amico, si adirò:
«Ho il sospetto che sei stato tu a compiere questa strage».
«Strage?».
«Una intera cucciolata».
«Come?».
«Tutti lanciati per il dirupo sotto il ruscello». Fabio si lasciò ad una risata.
«Sei stato tu!», Lorenza prolungò la sua ira. Fabio rispose con nonchalance:
«Non ammetterei mai la mia colpevolezza, ma neppure la smentirei. Troppo atroce per rivendicare, troppo divertente per rinnegare».
«La tua moralità sbatte sui denti. Troppo rinserrata è la tua dentiera come quelle che fai ai tuoi paesani, ma vi mangerete la lingua. Ciao!». Lorenza sbatté la porta sulla faccia dello sbigottito Fabio. Si avviò davvero adirata, col fermo proposito di correggere l'ingiustizia insita nelle anime dei suoi concittadini, e sapendo, soprattutto, che l'animale dovrà aiutarlo da se stessa.
Con l' auto sfrecciava in abito sportivo verso il paese di Calatabiano, nella guida nervosa, un obliquo sguardo controllava se la corsa era ancora giustificata. Davanti all'ambulatorio veterinario fu lieta nel sentire il micio emanare ancor sospiri e, incedendo tra i presenti, s' accaparrò la precedenza per il morente gattino. L'angoscia s'acquietò davanti al medico che ancor vivo lo denuncia controllando il respiro. Elogia la solerzia del veterinario e spera allora Lorenza, perché in mani probe s'allontana il gattino, vola verso la sala operatoria, dove con riguardo fu adagiato nel lettino, ma nulla rispose al secondo accertamento: morì prima che il medico a curare il suo male fosse chino.
L'accaduto allor Lorenza in lacrime raccontò al veterinario, il quale sostenne le sue ottime convinzioni, perché anche egli ritenne indegno di sostenersi essere umano l'autore della scelleratezza.
«E come umano ai delitti dovrà rispondere», disse il medico.
«Era meglio per lui», aggiunse Lorenza, «che umano mai fosse nato; ma è meglio per me che lo è: se non lo vedrò dietro alle sbarre, quantomeno la condanna incasserà da un tribunale e dal sentire comune dei buoni cittadini. Non crede, dottore?».
«Effettivamente questo merita lo scellerato», rispose il dottore e «Fai quello che più opportuno credi, ma devi sollecitare continuamente carabinieri e magistrati, che di uomini noiosi se ne fregano altamente. Se non fu strage di mafiosi, con malavoglia si sosterrà la causa dei miagolanti, e quanto miserrimi sono le vittime tanto complicato sarà di trovare le prove. Non hanno tempo gli inquirenti da sprecare e, per la paura loro di andare nel ridicolo schiantarsi, preferiranno tutto rinserrare in sigillate cassettiere».
«Lo so io chi ha tanto tempo e tanta competenza, e glie li farò per il mio capriccio tutti sprecare». Così Lorenza, irremovibilmente, si decise.
Il veterinario ripose il gattino morto in uno scatolo per calzature e lo sigillò col nastro adesivo. Disse: «Tieni, se ti serve il corpo. Prendi anche questo, è un sacco asettico, dopo aver fatto perlustrare il luogo del delitto, raccoglili e me li porti. Arderanno in pace».
«No, li seppellirò nel luogo a loro memoria».
Franco
Ogni mattina s'impegnava nella corsa e ne guadagnava in salute, un tonico dalle membra affaticate, ritornava in casa e irrorata aveva la mente di maggior brillantezza: sì che lo spirito di Lorenza era pien di fervore per tutta la giornata. Lei pure fu mia ( di Martino n.d.a.) compagna di classe, sempre, dalle elementari al liceo, e ammetto con schiettezza assoluta: mi superava in voti, e perfino in attività fisica. Fin dagli albori mi segnò nei registri degli inutili, ma le cose per me cambiarono al liceo, quando lei variò il nome al registro dove segna questi, troppo dispregiati, soggetti; e d'allora furono ignavi, che scoprì quel famoso terzo canto dell'Inferno, quello che trasforma tutti gli adolescenti in superbi attivisti.
Purtroppo io e Lucilla la incontrammo la sera precedente, ci chiese con la consueta dolcezza dove fossimo diretti. Glie l' abbiamo concessa la cortesia di dirgli che ci facevamo una passeggiata nel boschetto. «A malandrini!», Lorenza commentò. Perché abbiamo continuato a parlarci da quel tempo adolescenziale? Io avrei dovuto tagliare per sempre, non sarebbe arrivata la resa dei conti. Se io e Lucilla, la sera prima, ci siamo tenuti sul dorso della gola, Lorenza, la mattina successiva, cominciò la sua corsa immettendosi nel vialetto lastricato che segue le rive del fiume. Questo vialetto è un opera di recente realizzazione, voluta dal sindaco stesso in favore della cittadinanza e dei turisti che mai arrivano, comodo per ammirare lo scorrere delle acque pure, il loro riversarsi graduale verso la piana, tra gli spenti magmi del tempo immemore, avanzati, bloccati, materia splendente da plasmare.
Lorenza è allenata alla corsa, una leggera costanza alla fatica, con elegante naturalezza mantiene la postura eretta: un piede eleva e l'altro in sincronia crolla, dritte le gambe all'orizzonte, e s'ammirano agili: rivelavano la bellezza, celano la forza. Raggruppa ricci nerissimi come un cono vulcanico, un groviglio increspato che innalza stupendamente la sua statura media, ma la bellezza è incommensurabile. Nella burrasca della fatica, gli zigomi ben prominenti splendono brillanti di sudore, due rocce sovrastate dalle brune chiome. Ebbene, richiamavano al mistero due occhi neri, caverne profonde volte ad accoglierti nel tempo di pioggia. Le finissime dita allontanavano dagli occhi qualche stilla noiosa, e il fascino accresceva. Partendo dal seno, lungo i fianchi ben eseguì con la sua mano un artigiano, stese una corda fin alla vita, ad Eros modellò un arco, si tende e si contrae: tutti l'ammirano e si dicono di lei innamorati. A sembrare dalla sua natura, lei nessun si filava di questo nostro paese (Graniti n.d.a.), e la sua corsa tra la vegetazione poteva apparire di quelle fanciulle d'epoca cavalleresca che, per scampare dalle insistenze del cavaliere sconosciuto, cercavano riparo. No, non era così, devo ammettere che lei era elegantemente abbinata alla foresta, che lei amava d'altronde, come tutta quanta lei l'amava la natura, non un suo essere escluso, animale o pianta; e furono tante le sue battaglie per mantenere il paese nella sua selvatica solitudine, per difenderci dalla moda dei quartieri con villette monofamiliari; e fu anche lei ad ispirare le azioni del sindaco, quell'assessore alla cultura di tanti anni prima, che era suo padre. L'ordine era l' imperativo in Lorenza, l'ordine come assenza di ferite nel suo mondo, che per empatia inevitabilmente entravano nel suo animo, e lei non rimaneva seduta, in agonia, ma le curava senza esitazione queste ferite, in modo drastico; come quando riuscì, e fummo i primi fra tutti i comuni della provincia, ad imporre ai bifolchi, ai più tradizionalisti, ai più annoiati, il riciclo incondizionato, integrale. E ad inizio regime, furono incessanti e circostanziate le denunce presentate ai vigili urbani, denunce di lei nota contro i sozzi noti. Nemmeno aveva paura di ritorsioni, e paura non si permettevano di arrecargli i denunciati, perché alla bellezza ancora qui ci s' inchina.
Ed aveva nelle gambe già qualche chilometro, addentrata lungo il corso del torrente. La sua corsa sarebbe proseguita per altri chilometri per tutto il sentiero ciottolato, il quale torna selvaggio ascendendo il monte, fin che raggiunge una scala naturalmente fatta di pietre, che risale sul dorso e ridiscende verso il paese. Questa è la passeggiata che tutti fanno: vecchi in cerca di funghi o asparagi, amanti in cerca di solitudine, bambini in cerca di avventure, Lorenza in cerca di aria pura... e lei fu colpita da una stranezza quel giorno, una stranezza che s' aggrappava a prima vista, ma lei, avvicinandosi, s'accorse che era qualcosa solamente addossata al mucchio di rami oscillanti tra le acque, un groviglio impigliato tra le rocce emerse. Si fermò per vedere cosa fosse, cercò nell'intorno un ramo utile al suo intento, ne trovò uno abbastanza lungo e robusto con una biforcazione di ramoscelli all'estremità. Scosse quel groviglio di avanzi e riuscì a separare la stranezza dal resto, ma quella cosa fu scaraventata dal fluire impetuoso delle acque, Lorenza allora si addolorò che per sua colpa perse un riparo, ebbe paura. La inseguì lungo la riva, finché la corrente sbatté quella cosa sulla sponda, fu proprio nel suo lato, si rincuorò, con facilità la prese. Si commosse e poggiò per terra quel gattino già morto. Si sarà perso, Lorenza pensò, fuggito dalla cucciolata, un evento eccezionale ma che può capitare. Scorse nella scarpata quello che poteva essere una tana, un foro abbastanza grande da usare per la sepoltura, e così interrò il gattino col sigillo di un masso sopra. Si chinò per ripulirsi le mani nelle acque, riprese la corsa, ma gli occhi anticiparono i cento metri che la separavano dall'ecatombe consumata; e smise la sua composta andatura, accelerò turbata dall’angoscia, dalla visione di piccole chiazze di peli e sangue e, viste dalla distanza, erano come una tremenda costellazione, presaga di un dolore impensabile. Quando fu vicina non riuscì a comprendere la complessa spirale che formavano quelle chiazze, pare in modo del tutto naturale. La vista della prima chiazza la fece sprofondare in uno strazio che non evitò chiudendo gli occhi, voltandosi da un altra parte, tappandosi il naso per non sentire la puzza.
Né salubre per una animo straziato è un profluvio odoroso dalla umida terra, né dai pregni tronchi, niente ricopriva il tanfo acre. E per più commiserare la sciagurata morte delle povere creature, scrutava attentamente il modo dell'impatto. Doveva ricercare le prove di un misfatto, perché la zampa dell'uomo cattivo c'era di sicuro, a prima impressione. Ma davvero erano davanti a lei quei miseri corpicini lacerati!
« Ed io pure lacerata, vi guardo al suolo e non oso immaginare spiaccicarvi...». Lorenza soffriva al solo pensiero . Era evidente l'atrocità meditata, ma doveva capire quando commessa, come, e sopratutto perché. S' eccitò dentro il suo cuore l'ira: “E tu che l'hai commessa, finisci peggio di loro, eviscerato, tra acuti dolori. Conficcato sulle puntute pietre; inclinato come pendaglio, scandente il tempo di fame delle belve a centellinare le tue viscere per mesi, scompaia nell'acqua il tuo veleno rosso e il tuo sangue corrotto. Nemmeno una fogna riceva il tuo riposo dopo avere sofferto per tutta la durata della umana vita. In un letto mai riposerai in vita e nel cammino avrai sempre inciampo. Devi saggiare i mali che t'accompagneranno, non avrai più compagna la vita, che fin d' ora maledirai”.
Finì l'eccitazione, ebbe un brivido. Pensò ai ragazzetti, sì maleducati, ma se furono loro gli autori, non meritavano tanto disprezzo. Di quei ragazzetti, che scorrazzano sempre per le strade, sapeva nomi e cognomi, e tra quelle facce di delinquentelli, inseriva anche il ghigno brigante di suo nipote... Lorenza si arrabbiò e digrignò i denti, con stento riuscì a revocare la condanna. Trattenne un istintivo movimento, contenne il desiderio di compiere, come in precedenza, quel suo atto di compassione: prendere il micio con le caldi mani. La frenò il sangue allargato e le budella fuoriuscite; quei dentini sporgenti che presumevano una morte disperata, maledetta e, spirando, l'anima del gattino sembrava aver riversato tutta la sua collera verso il carnefice, come la stessa Lorenza pochi minuti or sono fece. E da questo completamente grigio strisciato di nero, indirizzò gli occhi verso gli altri due più ravvicinati, al centro della spirale, uno bianco chiazzato color carota, l'altro di colore indefinibile, tutte le scale di grigi e colori a chiazze vi si sovrapponevano nel pelo. Poi fece un giro su se stessa per osservare il resto dei gattini sfracellati, ne contò quattro, costatò che erano tutti morti, e tutti non serafici nel muso. «Maledetti!».
Iniziò ad immaginare, nel piano sopra la scarpata, quel gruppetto di ragazzetti in corona del loro leader, ognuno con la sua dose di perverso divertimento, immaturi nell'incitarsi l'un l'altro al coraggio; punzecchiare l'indeciso con frecciate e strattoni per effettuare il lancio del gattino.
“Sì, non c'è dubbio. Ognuno di questi poveretti occupa la stessa posizione che occupava ognuno di quei diavoli là sopra”, Lorenza pensò; e all'improvviso sente, dietro le spalle, scivolare per la scarpata un mucchietto di pietruzze e terriccio. Quando si voltò e alzò la testa, non vide neppure la polvere ma suppose di vedere una figura, là sopra il piano. “L'inutile curioso di turno o il colpevole che rimira il suo misfatto?”, concluse nella sua testa. Reclinò gli occhi nel punto in cui possibilmente precipitarono i sassolini, vide un altro gattino, ansimava. Questo era caduto costeggiando il fianco della scarpata, sicuramente sbattendo in quel tronco sporgente, attenuò il colpo in un cespuglio di sommacco. Doveva salvare almeno questo. Prese il micio con tutta la tenerezza possibile, sorrise al miagolio smorzato, si voltò a guardare il percorso già compiuto, e adesso il ruscello scorre al suo fianco sinistro. L'acqua discendeva irruenta, e di più correre Lorenza ebbe trasporto, verso il paese, alla sua casa. In pochi minuti ripercorse il sentiero, di corsa tra le case pensava a chi potesse aiutare un micio in procinto di morire. Una figura che si avvicina ad un veterinario pensò ovviamente essere il medico, che però arrivava da fuori, e il mercoledì aveva il turno pomeridiano. Decise di andare direttamente a Calatabiano con la macchina, ma farà prima praticare qualche medicamento dal suo amico odontotecnico, Fabio. E fu così che si mise a suonare il campanello, ma per il suo amico, che faceva le ore piccole, fu una rottura di sonno e questo non voleva alzare la testa dal suo cuscino, lasciò perdere il prolungato e ripetuto scampanellio; Fabio fu così paziente a sopportare la molestia che pareva quasi in procinto di vincerla la sua lotta, forse contro i procacciatori di contratti. Ma si fece riconoscere la molestatrice del suo sonno, perché la voce acuta di Lorenza perforava i doppi e gli spessi vetri, e pure le mura più insonorizzate. La voce lo raggiunse, lo illuse e così si alzò di foga, e l'accolse col pigiama. Fabio vede, come al solito, che tra lei e lui c'è sempre un altro essere di mezzo, disse subito, senza saluti:
«Che vuoi con questo gatto?».
« È ferito».
«Ferito? martoriato e in fin di vita direi io, gli do un poco di fumo, entra, così muore sereno».
«Lo porto per curarlo».
«Entra che lo disinfettiamo». Fabio, con la dovuta distanza, lo prese con dei stecchi per non imbrattarsi del sangue e della puzza del micio. Si accorse delle zampe che rimanevano a penzoloni. Disse: «Qui c'è rottura totale di ossa negli arti, li irrigidisco col gesso che uso per stampare arcate dentarie, roba preziosa».
«Con tutte queste ossa rotte... accompagnami dal veterinario».
«Ho questo spray antidolorifico, una spruzzatina... questo gatto merita la morte, non ti accanire, sicuramente il veterinario gli taglierà le zampe e sarai costretta a costruirgli un carrozzone». Lorenza ebbe orrore del sadismo del suo amico, si adirò:
«Ho il sospetto che sei stato tu a compiere questa strage».
«Strage?».
«Una intera cucciolata».
«Come?».
«Tutti lanciati per il dirupo sotto il ruscello». Fabio si lasciò ad una risata.
«Sei stato tu!», Lorenza prolungò la sua ira. Fabio rispose con nonchalance:
«Non ammetterei mai la mia colpevolezza, ma neppure la smentirei. Troppo atroce per rivendicare, troppo divertente per rinnegare».
«La tua moralità sbatte sui denti. Troppo rinserrata è la tua dentiera come quelle che fai ai tuoi paesani, ma vi mangerete la lingua. Ciao!». Lorenza sbatté la porta sulla faccia dello sbigottito Fabio. Si avviò davvero adirata, col fermo proposito di correggere l'ingiustizia insita nelle anime dei suoi concittadini, e sapendo, soprattutto, che l'animale dovrà aiutarlo da se stessa.
Con l' auto sfrecciava in abito sportivo verso il paese di Calatabiano, nella guida nervosa, un obliquo sguardo controllava se la corsa era ancora giustificata. Davanti all'ambulatorio veterinario fu lieta nel sentire il micio emanare ancor sospiri e, incedendo tra i presenti, s' accaparrò la precedenza per il morente gattino. L'angoscia s'acquietò davanti al medico che ancor vivo lo denuncia controllando il respiro. Elogia la solerzia del veterinario e spera allora Lorenza, perché in mani probe s'allontana il gattino, vola verso la sala operatoria, dove con riguardo fu adagiato nel lettino, ma nulla rispose al secondo accertamento: morì prima che il medico a curare il suo male fosse chino.
L'accaduto allor Lorenza in lacrime raccontò al veterinario, il quale sostenne le sue ottime convinzioni, perché anche egli ritenne indegno di sostenersi essere umano l'autore della scelleratezza.
«E come umano ai delitti dovrà rispondere», disse il medico.
«Era meglio per lui», aggiunse Lorenza, «che umano mai fosse nato; ma è meglio per me che lo è: se non lo vedrò dietro alle sbarre, quantomeno la condanna incasserà da un tribunale e dal sentire comune dei buoni cittadini. Non crede, dottore?».
«Effettivamente questo merita lo scellerato», rispose il dottore e «Fai quello che più opportuno credi, ma devi sollecitare continuamente carabinieri e magistrati, che di uomini noiosi se ne fregano altamente. Se non fu strage di mafiosi, con malavoglia si sosterrà la causa dei miagolanti, e quanto miserrimi sono le vittime tanto complicato sarà di trovare le prove. Non hanno tempo gli inquirenti da sprecare e, per la paura loro di andare nel ridicolo schiantarsi, preferiranno tutto rinserrare in sigillate cassettiere».
«Lo so io chi ha tanto tempo e tanta competenza, e glie li farò per il mio capriccio tutti sprecare». Così Lorenza, irremovibilmente, si decise.
Il veterinario ripose il gattino morto in uno scatolo per calzature e lo sigillò col nastro adesivo. Disse: «Tieni, se ti serve il corpo. Prendi anche questo, è un sacco asettico, dopo aver fatto perlustrare il luogo del delitto, raccoglili e me li porti. Arderanno in pace».
«No, li seppellirò nel luogo a loro memoria».
Franco
Opera scritta il 19/06/2018 - 19:21
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