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Il dipinto

Oriella, indossato un leggerissimo vestito beige senza maniche, si apprestava a dipingere nell'angolo del suo ampio soggiorno. L'appartamento, al secondo piano di un edificio di tre piani che sorgeva su uno sperone di tufo, non molto distante dal centro di Sorrento, non era tanto grande. Constava appunto di questo soggiorno che comunicava con l'ingresso esterno e sul quale si affacciavano le porte delle altre stanze, una piccola cucina, un bagno, una camera da letto. Ma il living era veramente largo e confortevole. Oriella l'aveva voluto così per potersi ritagliare un angolo dove dipingere in cui aveva posizionato un cavalletto da studio, una scrivania dove teneva il computer, nei cassetti i colori, sui ripiani l'occorrente per la pittura, i pennelli, la tavolozza, l'olio di lino, la trementina, l'acqua ragia.
Sul cavalletto arrivava la luce naturale da due ampie porte finestre che davano su un ampio terrazzo che Henry, il marito di Oriella, considerava il suo regno rilassante. Quando non era a scuola o a giocare a pallavolo, passava ore intere a curare i fiori, le piante e le erbe aromatiche che coltivava, oppure ad abbronzarsi leggendo beatamente o scrivendo sul suo piccolo computer portatile e sbirciando la magnifica veduta che di lì si godeva: il golfo di Napoli, con il Vesuvio, in lontananza. Oriella, in questi momenti di relax, ogni tanto si affacciava ad una delle portefinestre del terrazzo, visibilmente sporca di colore sul braccio sinistro, respirava a pieni polmoni l'aria salmastra della sua città, socchiudendo gli occhi. Si beveva un'aranciata, un chinotto, a volte un limoncello e poi tornava a dipingere.
Quel giorno di settembre, il primo giorno di scuola, Oriella aveva deciso di continuare il suo quadro Maschere a Venezia. Voleva concluderlo di lì a una settimana, perché poi la scuola le avrebbe portato via molto tempo, non solo con le lezioni mattutine, ma anche con gli appuntamenti pomeridiani per i consigli di classe, d'istituto, i colloqui coi genitori dei ragazzi... Si adagiò sulla sedia di vimini che dava il retro ad un'alta libreria dove erano custoditi libri d'arte e libri di Henry e, un pochino controvoglia, data la splendida giornata che avrebbe preferito impiegare a passeggiare, prese i colori dal primo cassetto della scrivania.
Bianco di zinco, giallo di cadmio, rosso di cadmio, rosso vermiglione, lacca di garanza, blu oltremare, blu di cobalto, blu ceruleo, verde permanente, verde vescica, ocra gialla, terra di Siena naturale, terra di Siena bruciata, terra d'ombra naturale, terra d'ombra bruciata, bianco di titanio. Di ogni colore che prendeva in quest'ordine dal tiretto spremeva una piccola quantità sulla tavolozza e poi lo ritirava. La dose di bianco di zinco prevaleva sulle altre perché sarebbe servita particolarmente per le mescolanze o per schiarire un colore.
Oriella appoggiò la tavolozza piena di colore sull'ampia scrivania dove aveva steso dei vecchi giornali per non sporcare e prese dai ripiani dello scrittoio, a destra, l'olio di lino e l'essenza di trementina. Della prima ne versò una quantità pari a due terzi in un piccolo barattolo trasparente e dell'olio di lino il restante terzo. In un più largo barattolo vi depose acquaragia. Poi osservò bene il dipinto. Cercando di memorizzare le mescolanze che aveva ottenuto nelle sedute precedenti cominciò a prendere i pennelli da un piccolo otre di terraccotta che era posto nel primo ripiano della scrivania. Pennelli piatti, rotondi, a punta, grandi, piccoli, con lunghi manici o con impugnature più piccole. Da quando aveva iniziato a dipingere, cioè molti anni prima, aveva imparato che i pennelli non erano mai abbastanza. Alcuni, quelli più grossi, piatti e meno morbidi sarebbero stati utilizzati, insieme talvolta alla spatola, per le mescolanze. Altri, più fini e pregiati, di martora, per i dettagli. Altri ancora per rapide pennellate alla prima, altri invece per sapienti velature. Oriella prediligeva una pittura di stampo impressionista o alla prima dove il colore era denso ed oleoso e veniva apposto non su strati ma già come appare ad opera finita. Però non disdegnava anche le velature dove a strati diluiti con trementina sovrapponeva, a colori precedenti asciutti, altri strati con colore più consistente e ricco di olio di lino. In questo caso procedeva dalle velature più chiare a quelle scure. Questa tecnica andava usava per dipinti di medie e grandi dimensioni. Osservò di nuovo la sua tela delle dimensioni di sessanta centimetri. Il dipinto era in una fase intermedia di tempo in cui all'urgenza di definire velocemente alcuni particolari, come quello dei gioielli sul copricapo della protagonista, si associava la necessità di lunghe stesure sul suo abito rosso. Toccò il colore del vestito: era asciutto. Si trattava ora di creare le mescolanze.
Era la parte del suo lavoro, questo, che le piaceva meno. Lo trovava stressante e minuzioso perché ogni volta doveva ricordarsi esattamente la quantità di colore che aveva usato precedentemente. Annotava spesso su dei fogli titolo del dipinto e data della seduta con le mescolanze ottenute e il lavoro svolto così ogni volta poteva riprendere il bandolo della matassa. Cercò nel secondo cassetto a sinistra della scrivania il foglio relativo al dipinto. "Dunque... Amorino dormiente, Chiesa di Forio ... ma dove l'ho messo? Dovrei buttare via i fogli dei dipinti conclusi, sì dovrei proprio..."
Henry la sentì dal terrazzo parlottare. Erano le sedici di un pomeriggio meraviglioso, come molti pomeriggi che Sorrento regalava spesso, a turisti e residenti, in parecchie giornate dell'anno. "Come dici, baby?" Si affacciò al soggiorno in pantaloncini corti e camicia sbottonata, occhiali scuri e dei petali di begonie dragon, che aveva raccolto dal pavimento, fra le mani.
"No, niente, parlavo da sola. Ah, eccolo! Fai un caffè, magari, sto dormendo! "
"Darling, ma ne hai già presi tre oggi. Sicura?"
"Lo sai che a me il caffè rilassa, no, sono una vera napoletana!" E cominciò, foglietto alla mano, a creare le mescolanze per il dipinto. Era sempre tesa quando era in questa fase, che le sembrava ripetitiva, ma durava poco. Quando la sua tavolozza era colma e pronta con tutte le sfumature, allora si sentiva dolcemente trasportata in un mondo sovrannaturale, se possibile ancora più bello di quello che la circondava sin da piccola. Metteva, allora, un vecchio disco di vinile sul vecchio giradischi che campeggiava sul controbuffet intarsiato del soggiorno e le ore scorrevano deliziose a lasciarsi cullare fra colori, pennelli e profumi di diluenti. Le sembrava una vita fantastica la sua, in quel momento, quando poteva ricreare sulla tela la bellezza di ciò che aveva visto, di ciò che aveva vissuto, di ciò che aveva immaginato. Era come se la sua vita si moltiplicasse, se la bellezza si centuplicasse. Oriella era convinta che non si potesse vivere senza la bellezza. La vita si sarebbe ridotta ad una semplice esistenza. La sua vita, già splendida di suo, le sembrava ancora più bella, dipingendo.
Henry arrivò dalla cucina con un vassoio verde smaltato dove vi erano appoggiate due tazzine, disegnate da Oriella. Aveva mandato dei suoi piccoli dipinti di amorini ad un noto sito on-line che stampava foto e creava altri piccoli oggetti e aveva quindi dato origine un servizio di caffè da sei ognuno con un amorino diverso. "Ecco. Ah vedo che siamo a buon punto," esclamò notando la tavolozza riempita di piccole e consistenti macchie di tinte intorno ai colori usciti dai tubetti. Sapeva quanto Oriella fosse nervosa prima di dar mano ai pennelli.
"Adesso metto Ornella Vanoni, ti va?" rispose Oriella spostandosi verso il controbuffet con la tazzina in mano.
"Perchè no, darling, io fuori non mi devo concentrare molto, oggi. Sto pulendo. Ci deve essere stato vento mentre eravamo a scuola. Abbiamo il balcone pieno di foglie e petali. Ricordati che questa sera siamo dai tuoi. Non fare tardi, come tuo solito." E riprese il vassoio per portarlo in cucina e poi sparire di nuovo sul terrazzo.
"Agli ordini, adesso parto, dipingo due ore e poi mi preparo!" urlò Oriella entusiasta finalmente di iniziare.
Mentre stendeva una velatura di lacca di garanza, un po' scurita con terra d'ombra naturale, sul vestito già rosso della donna, prese a pensare a com'era nato il soggetto del suo dipinto. Il Carnevale di Venezia era uno degli eventi di costume e di folklore più seguiti in tutto il mondo. C'erano stati dei turisti danesi, più precisamente una coppia di giovani sposi, abbastanza danarosi, a quanto pareva, dato che avevano già comperato un tavolino intarsiato da salotto e un quadro in legno ritraente Capri, che avevano chiesto ad Antonino, il padre di Oriella, se avesse qualcosa nel suo negozio di antiquariato relativo al Carnevale veneziano. Antonino dapprima aveva pensato Ma 'sti turisti pensano che l'Italia sia tutta uguale, Venezia, Sorrento, Napoli, sempre in festa come a Carnevale..." Poi aveva riflettuto un attimo e aveva detto loro, nel minimo inglese che conosceva: "My daughter... my daughter paints...wait," e aveva chiamato Oriella che stava guardando delle fatture nel retrobottega. Così i giovani sposi si erano accordati con Oriella per avere una tela di medie dimensioni che in qualche modo li ritraesse mascherati, al modo di maschere veneziane settecentesche, sullo sfondo del Palazzo Ducale. Oriella aveva voluto una loro foto che li raffigurava insieme per delineare vagamente nelle maschere i loro tratti somatici e aveva preteso inoltre piena libertà sui colori da usare.
La voce della Vanoni si diffondeva languida e seducente fra le pareti del soggiorno: "uno di quei giorni in cui ti prende la malinconia che fino a sera non ti lascia più..." Oriella prese del colore molto denso costituito di ocra gialla schiarita da bianco di zinco e si apprestò a definire alcuni gioielli del diadema della figura femminile. Erano pietre d'ambra che si alternavano a rubini di più grosse dimensioni a loro volta attorniati da perle. Sulla fronte della maschera la protagonista del dipinto aveva inoltre un abbozzo di cammeo rettangolare sostenuto da quattro catenelle d'oro, due a destra e due a sinistra. Sul cammeo s'intravedeva una figura femminile stilizzata, una specie di bagnante in bianco che spiccava sul rosso della pietra sardonica. Oriella aveva deciso di lasciare per ultimo la lavorazione del dettaglio di questo cammeo perché questo gioiello riproduceva la copia esatta di un gioiello che era stato inciso e poi le era stato regalato dalla nonna paterna.
"Sento il Carnevale entrare in me... e sento crescere la voglia, la pazzia, l'incoscienza e l'allegria di morir d'amore insieme a te..." le note delle canzoni di Ornella Vanoni si spandevano dolcemente. Questa sì che è una canzone allegra, questa sì, e anche adatta: "Sento il Carnevale entrare in me," ripetè Oriella ad alta voce, dando colpi precisi di pennello ai gioielli della maschera. Ogni tanto dava un'occhiata anche alla figura maschile del dipinto. Costui non aveva naturalmente gioielli sul capo, bensì una nuvola di organza carminia circondava il foulard che tratteneva la maschera. Dalle pieghe del suo chiffon, differenti rispetto a quelle della dama, s'intravedevano, in trasparenza i ricami del Palazzo Ducale. L'abito del protagonista era bianco con una vistosa V maiuscola rossa sopra, su desiderio di Vilfred, il committente danese del dipinto. La camicia era cinta da una cornice rossa. Oriella era indecisa se rappresentare davanti ai due protagonisti dei simboli fallici. Il Carnevale era una festa italiana ma in fondo richiamava delle precedenti feste pagane, dionisiache in cui i riti della carne avevano un'importanza fondamentale. Si allontanò per un attimo dalla tela e dal cavalletto spostandosi verso le portefinestre. Intravide sulla sedia sdraio Henry che si era addormentato lasciando cadere sul pavimento il libro che stava leggendo. "Sì, ci può stare, ci può stare, davanti alla cintura posso mettere qualcosa che riguarda Dioniso... Vilfred e Grethe, cari danesi, non so se vi piacerà, ma io ce li metto, tanto più che siete sposati da poco..." Oriella rise tornando al suo posto di lavoro. I dipinti bisognava ogni tanto osservarli da lontano per avere una visione d'insieme.
Henry si svegliò a causa del leggero trambusto. "Che cosa c'è? Che ora è?" chiese stralunato come se fosse ora di andare a cena o di andare al lavoro.
"Dormi, dormi... sono appena le diciassette del pomeriggio," rispose Oriella assestando dei colpi di rosso sulla cintura di Vilfred.
Henry socchiuse leggermente un occhio. Il sole dal balcone trapelava nel soggiorno. S'avvide del pennello sporco di carminio che Oriella sollevava per poi posare sulla tela. La luce frangeva il colore sulle setole in minuscole particelle luminose. "Non usare troppo rosso, amore."
Oriella prese a canticchiare dipingendo: "Sento crescere la voglia, la pazzia, l'incoscienza e l'allegria di morir d'amore insieme a te...Sento il Carnevale entrare in me..."





(Il racconto è un estratto del terzo capitolo del mio romanzo "Non usare troppo rosso".
L'immagine allegata è un mio dipinto, "Maschere a Venezia", olio su tela).




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Opera scritta il 22/02/2021 - 18:58
Da Carla Vercelli
Letta n.828 volte.
Voto:
su 1 votanti


Commenti


Grazie infinite, Mirko, per la lettura e l'apprezzamento!

Carla Vercelli 08/03/2021 - 15:35

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Splendido, a partire dal titolo del romanzo. Complimenti anche per il dipinto

Mirko D. Mastro(Poeta) 25/02/2021 - 11:12

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