Eva raggiunse il molo negando a se stessa qualsiasi colpa, guardandosi i polsi ancora bendati, desiderosa di sciogliere quelle ferite silenziose.
Ripensò agli anni dell’orfanotrofio, a quanto fosse difficile fare colazione e decifrare speranze.
L’attesa per una famiglia che potesse amarla, il suono di un campanello verso cui tendere la mano: avevano rappresentato porzioni di un sogno che Eva aveva occupato con tutta se stessa, spazi immacolati della sua mente che l’avevano protetta dalle notti buie delle camerate.
«È ora, è ora!» si sentì ripetere, da quell’onda che pulsava ansiosamente, a intervalli sempre meno frequenti, mentre una rete da pesca defluiva lungo gli argini della marea.
Aveva al collo una catenina con il suo nome inciso, EVA, l’unico indizio della sua vita precedente, perché una madre aveva voluto fortemente quel nome, e lei non aveva avuto la forza di cambiarlo.
Non ricordava altro, se non il rumore di un carro da fieno, partito da uno sperduto villaggio dell’ex Jugoslavia. Poi l’Italia, l’orfanotrofio, la comunità d’accoglienza in cui aveva imparato a tessere e a dipingere.
«E ora?» sussultò nuovamente l’onda, lasciandosi alle sue spalle una piccola barca che era salpata con un rapido balzo, verso l’insenatura di Marina Grande.
Eva si strinse in un muto dolore, quasi a supplicare che ci fossero abbastanza barche, da non lasciarla sola. Si spinse fino all’estremità del molo, dove il mare incorpora a sé ogni memoria.
Le venne in mente che non aveva mai cantato, ma che voleva rinascere intonando le melodie che da piccola aveva soltanto immaginato.
«Vieni qui, Eva! È ora», le urlò l’assistente sociale, che l’aveva seguita per tutto il tragitto sul molo. Eva non ebbe più paura dell’onda, che all’improvvisò indietreggiò fino a lambire gli stessi spazi della sua mente.
«I tuoi nuovi genitori…sono arrivati», le disse l’assistente, sfumando un sorriso che tanto somigliava a un dolce canto.
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