Gli occhi del cielo, - le stelle, forse
- di lacrime onusti, li ho visti,
corri, corri buon Camaxtle,
ché forse la dimora dei
quattrocento Huitznahua sta
tramontando appresso al Sole.
Scocca i dardi celesti, dalle punte
di ossidiana letali, dalle Piume di
Colibrì vibranti nel bruno tepore.
Guarda, le acque preziose stanno
lasciando il Tlalocan; dove
andranno mai così leste?
Vanno a inondare i monti,
prima, a impantanar le valli,
poi; ecco, il tuo grido lassù
è un tuono che sfronda
gli alberi, che accappona
la pelle del caimano Cipaclti.
L’erba malinalli - eccetto per la
tonsura del deserto - ha vinto,
strappata dal cranio di
Tlaltecuhtli, il mostro, ed
è ora un ciuffo smeraldo fra
le mani ingorde degli umani.
Le mani - precisamente quelle,
- che hanno torto il caimano,
viscide come serpenti, ruvide
come tutoli, religiose come grani
di mais, giada e copale. Ed
eccolo, divino Tezcatlipoca, ed
eccolo, divino Quetzalcoatl, la
coppia di saccenti, il duo magico
che ha strappato la terra, e il
cielo, del sopore bruto, che
ha tratto monti da scaglie,
fonti dagli occhi, caverne dalle
narici e il centro del mondo
dal suo ombelico. Non si
credeva fino ad allora che
Cipactli l’avesse, un onfalo.
Eppure, esso pure trionfava
nel cerchio della Creazione.
E Tezcatlipoca? Il mago nero,
vento del nord, specchio di
ossidiana fumante, fulgore di
stelle morte, carco e presago
di dilettevoli sventure, parla!
Con quali gambe camminasti,
fra le buie rovine della Città degli
Dèi, con passo aggraziato e
ferale, inesorabile o quasi,
se Cipactli te ne strappò
una e fece pure moncherino?
Parla! Parla con la voce
del vento! Non lesinare noi
la visione delle praterie nei
pressi di Chicomoztoc,
laddove era Aztatlan, la
bianca; le sette tribù
son contate una ad una,
perciò esistono, hanno perfino
mosso i primi passi non
dentro, fra le curve del grembo, ma
nelle spire di Colhuacan, il
luogo degli antenati, laddove
i dannati non osano entrare,
laddove le volute degli alberi
toccano se stesse e il cielo,
all’infinito protratte.
O popolo! Popolo di scarnificatori!
Sacerdoti dalla borsa di copale!
Grani smisurati, occhi di resina,
come gocce votate al martirio,
ambre perdute su giacigli di paglia
come pedine di patolli, che
voglion esser fagioli, gettati
nelle fauci del crocicchio, e poi giù,
fino a Chicomoztoc, per una
ultima serenata. E’ dal grembo
della Terra, quella placenta orrida,
amniotica e sanguinolenta che
sono nati i tuoi fumi sacri, o
Tezcatlipoca invitto! Signore dai neri
arzigogoli, Signore nemico, guerriero
da ambo le parti, Necoc Yaotl,
Signore del Dodicesimo Cielo,
Signore della Vita, Ipalnemohuani,
le tue litanie sono come manti di
piume da mazzi sterili; sono come
la moltitudine delle schiume sui
litorali, baciati dall’acqua assassina,
come pletore di lame ghiacciate,
irte, e affondate nei costati
di xochimique, alzati e gettati
dalla punta del teocalli, due volte
màrtiri, di guerra e dei profeti neri,
impiastricciati di uxtli, di bistro,
accigliati, loro, colle unghie perfide,
annerite di catrame, macilente dagli
anni, ed i capelli, oh che visione! I
capelli come liane, con grumi di
sangue, coaguli di tuorli impazziti;
laddove il tonali ha manifestato
la propria potenza solare, come
quell’erba, malinalli, pettinata.
Tutto questo si consumava la sera,
vetusta ed onusta cocchiera,
traino, dagli uccelli del giorno
ai giaguari della notte, tepeyollotl,
il cuore della montagna, il cui
manto, maculato, fu delizia
per gli indovini che l’assassinarono
e recisero brutalmente, spesso
strappandolo a morsi, coi denti
come il glifo locativo, laddove lo si
voglia leggere così, almeno.
Cosa resta di tutto questo, Signore
Oscuro? Cosa resta del cibo di tuo
padre e di tua madre, Tonacatecuhtli e
Tonacacihuatl? Gli avanzi, mio Signore.
Giacché il resto lo hai mangiato tu.
E che dire dei tuoi molti aspetti?
Da Tloque Nahuaque a Titlacahuan, da
Yohualli Ehecatl sino a Moyocoyani.
Ti sei giocato la tua reputazione, dio;
incarnandoti - giacché anche il vento
può farlo - hai perso un po’.
Dio dei messicani, dio degli Aztechi
tutti! Hai soffiato anche nell’anello
di pietra del campo di tlachtli, e sei
passato, ed hai vinto, barando.
Dunque? Chi conterà i punti?
Chi morirà per onorare la tua vittoria?
Chi sarà testimone della tua
nefanda grandezza?
- di lacrime onusti, li ho visti,
corri, corri buon Camaxtle,
ché forse la dimora dei
quattrocento Huitznahua sta
tramontando appresso al Sole.
Scocca i dardi celesti, dalle punte
di ossidiana letali, dalle Piume di
Colibrì vibranti nel bruno tepore.
Guarda, le acque preziose stanno
lasciando il Tlalocan; dove
andranno mai così leste?
Vanno a inondare i monti,
prima, a impantanar le valli,
poi; ecco, il tuo grido lassù
è un tuono che sfronda
gli alberi, che accappona
la pelle del caimano Cipaclti.
L’erba malinalli - eccetto per la
tonsura del deserto - ha vinto,
strappata dal cranio di
Tlaltecuhtli, il mostro, ed
è ora un ciuffo smeraldo fra
le mani ingorde degli umani.
Le mani - precisamente quelle,
- che hanno torto il caimano,
viscide come serpenti, ruvide
come tutoli, religiose come grani
di mais, giada e copale. Ed
eccolo, divino Tezcatlipoca, ed
eccolo, divino Quetzalcoatl, la
coppia di saccenti, il duo magico
che ha strappato la terra, e il
cielo, del sopore bruto, che
ha tratto monti da scaglie,
fonti dagli occhi, caverne dalle
narici e il centro del mondo
dal suo ombelico. Non si
credeva fino ad allora che
Cipactli l’avesse, un onfalo.
Eppure, esso pure trionfava
nel cerchio della Creazione.
E Tezcatlipoca? Il mago nero,
vento del nord, specchio di
ossidiana fumante, fulgore di
stelle morte, carco e presago
di dilettevoli sventure, parla!
Con quali gambe camminasti,
fra le buie rovine della Città degli
Dèi, con passo aggraziato e
ferale, inesorabile o quasi,
se Cipactli te ne strappò
una e fece pure moncherino?
Parla! Parla con la voce
del vento! Non lesinare noi
la visione delle praterie nei
pressi di Chicomoztoc,
laddove era Aztatlan, la
bianca; le sette tribù
son contate una ad una,
perciò esistono, hanno perfino
mosso i primi passi non
dentro, fra le curve del grembo, ma
nelle spire di Colhuacan, il
luogo degli antenati, laddove
i dannati non osano entrare,
laddove le volute degli alberi
toccano se stesse e il cielo,
all’infinito protratte.
O popolo! Popolo di scarnificatori!
Sacerdoti dalla borsa di copale!
Grani smisurati, occhi di resina,
come gocce votate al martirio,
ambre perdute su giacigli di paglia
come pedine di patolli, che
voglion esser fagioli, gettati
nelle fauci del crocicchio, e poi giù,
fino a Chicomoztoc, per una
ultima serenata. E’ dal grembo
della Terra, quella placenta orrida,
amniotica e sanguinolenta che
sono nati i tuoi fumi sacri, o
Tezcatlipoca invitto! Signore dai neri
arzigogoli, Signore nemico, guerriero
da ambo le parti, Necoc Yaotl,
Signore del Dodicesimo Cielo,
Signore della Vita, Ipalnemohuani,
le tue litanie sono come manti di
piume da mazzi sterili; sono come
la moltitudine delle schiume sui
litorali, baciati dall’acqua assassina,
come pletore di lame ghiacciate,
irte, e affondate nei costati
di xochimique, alzati e gettati
dalla punta del teocalli, due volte
màrtiri, di guerra e dei profeti neri,
impiastricciati di uxtli, di bistro,
accigliati, loro, colle unghie perfide,
annerite di catrame, macilente dagli
anni, ed i capelli, oh che visione! I
capelli come liane, con grumi di
sangue, coaguli di tuorli impazziti;
laddove il tonali ha manifestato
la propria potenza solare, come
quell’erba, malinalli, pettinata.
Tutto questo si consumava la sera,
vetusta ed onusta cocchiera,
traino, dagli uccelli del giorno
ai giaguari della notte, tepeyollotl,
il cuore della montagna, il cui
manto, maculato, fu delizia
per gli indovini che l’assassinarono
e recisero brutalmente, spesso
strappandolo a morsi, coi denti
come il glifo locativo, laddove lo si
voglia leggere così, almeno.
Cosa resta di tutto questo, Signore
Oscuro? Cosa resta del cibo di tuo
padre e di tua madre, Tonacatecuhtli e
Tonacacihuatl? Gli avanzi, mio Signore.
Giacché il resto lo hai mangiato tu.
E che dire dei tuoi molti aspetti?
Da Tloque Nahuaque a Titlacahuan, da
Yohualli Ehecatl sino a Moyocoyani.
Ti sei giocato la tua reputazione, dio;
incarnandoti - giacché anche il vento
può farlo - hai perso un po’.
Dio dei messicani, dio degli Aztechi
tutti! Hai soffiato anche nell’anello
di pietra del campo di tlachtli, e sei
passato, ed hai vinto, barando.
Dunque? Chi conterà i punti?
Chi morirà per onorare la tua vittoria?
Chi sarà testimone della tua
nefanda grandezza?
Opera scritta il 28/01/2025 - 11:18
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