Mi spinsero a trattar quest'episodio
cartucce cariche di profondo odio,
che d'un orologio erano le ore,
segno di necrologio e disonore.
Le sfere, un bel rasoio aperto
dal manico d'avorio ricoperto
e dalla lama d'acciaio rutilante,
con incedere lento ed incessante
segnavano le ore notte e dì,
foriere di morte a chi soffrì.
Repentine vidi scoppiar le ore
e le aquile cadere lentamente;
si estinse nell'aere il clangore,
a brandelli i vessilli immantinente.
In sbandate schiere sconfitti
tornarono i soldati ai casolari,
in silenzio, feriti e derelitti,
ansimanti di ritrovare i cari;
ignudi e macilenti, da pezzenti
entrarono nelle città fumanti,
ignoti, sporchi e sanguinanti
cercaron di ricucir le loro menti;
arrancarono tra le vie sconvolte,
dove le folle erano insepolte.
Negli ospedali solo il color di morte.
Fu dura la guerra e così fu la sorte.
Le cicatrici son testi, le ferite guarirono,
si costruirono strade, palazzi, fontane,
nell'aere musiche e canti si sentirono,
festosamente suonaron le campane
e sorsero parchi e città più belle,
l'argentea luna sorrise alle stelle.
Benessere ci fu tra i cittadini,
olezzarono le rose dei giardini,
montagne e colline verdeggianti,
notti sfavillanti, ma pochissimi santi.
Riapparvero un dì le aquile repenti,
impazzirono degli uomini le menti,
rullarono i tamburi, s'udirono le trombe,
marciarono gli eserciti, crebbero le tombe.
Consumarono i rapaci il vile pasto,
tra gli uomini dilagò il contrasto,
di sabbia distese il vento il gran lenzuolo
sulle dune dei morti, per cui fu duolo
combattere a forza e non saper perché,
uccidere il fratello per poi dire: ahimè!
Mentre l'odio con affannata lena,
felice di suppurare la cancrena,
caricando le cartucce, mai satollo,
attendeva che avvenisse il crollo
per poi salire, fiero, sul suo podio
e cantare del dramma il triste esodio.
cartucce cariche di profondo odio,
che d'un orologio erano le ore,
segno di necrologio e disonore.
Le sfere, un bel rasoio aperto
dal manico d'avorio ricoperto
e dalla lama d'acciaio rutilante,
con incedere lento ed incessante
segnavano le ore notte e dì,
foriere di morte a chi soffrì.
Repentine vidi scoppiar le ore
e le aquile cadere lentamente;
si estinse nell'aere il clangore,
a brandelli i vessilli immantinente.
In sbandate schiere sconfitti
tornarono i soldati ai casolari,
in silenzio, feriti e derelitti,
ansimanti di ritrovare i cari;
ignudi e macilenti, da pezzenti
entrarono nelle città fumanti,
ignoti, sporchi e sanguinanti
cercaron di ricucir le loro menti;
arrancarono tra le vie sconvolte,
dove le folle erano insepolte.
Negli ospedali solo il color di morte.
Fu dura la guerra e così fu la sorte.
Le cicatrici son testi, le ferite guarirono,
si costruirono strade, palazzi, fontane,
nell'aere musiche e canti si sentirono,
festosamente suonaron le campane
e sorsero parchi e città più belle,
l'argentea luna sorrise alle stelle.
Benessere ci fu tra i cittadini,
olezzarono le rose dei giardini,
montagne e colline verdeggianti,
notti sfavillanti, ma pochissimi santi.
Riapparvero un dì le aquile repenti,
impazzirono degli uomini le menti,
rullarono i tamburi, s'udirono le trombe,
marciarono gli eserciti, crebbero le tombe.
Consumarono i rapaci il vile pasto,
tra gli uomini dilagò il contrasto,
di sabbia distese il vento il gran lenzuolo
sulle dune dei morti, per cui fu duolo
combattere a forza e non saper perché,
uccidere il fratello per poi dire: ahimè!
Mentre l'odio con affannata lena,
felice di suppurare la cancrena,
caricando le cartucce, mai satollo,
attendeva che avvenisse il crollo
per poi salire, fiero, sul suo podio
e cantare del dramma il triste esodio.
Gino Ragusa Di Romano
Da "Accenti d'amore e di sdegno"
Pellegrini Editore - Cosenza 2004
Poesia scritta il 10/06/2013 - 15:06
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