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L'Arcobaleno a rotelle

Che giornata, quella di Venerdì! Dopo la terapia antalgica in ospedale al mattino, nel pomeriggio, come a voler riprendere le posizioni perse, il Dolore ha contrattaccato con violenza. Un assalto su più fronti, devastando e torcendo budella e visceri; acquisendo nuove tattiche offensive, ha disperso i suoi nemici e riconquistato il mio corpo. Solo il cervello era attivato a cercare una ragione, una soluzione, una tregua, un compromesso, un armistizio o, almeno, un momentaneo cessate il fuoco per raccattare i brandelli delle illusioni, lasciati in pasto alla realtà.


Daisy, innamorata com’è, mi guardava con occhi impotenti ed acquosi e seguiva ogni mio passo, come fosse in grado di reggermi, se fossi crollato a terra.
Mi sono chinato a fatica per gratificarla e rassicurarla. Lei ha alzato la coda ed inarcata la schiena, quasi fosse un gatto, e posato il capo riccioluto e morbido sulla mia gamba. L’ho accarezzata a lungo, inginocchiato, pensando a quanto mi costasse muovere i muscoli contratti e disobbedienti. Mi sono sollevato pesantemente e portato le mani dietro le reni martoriate: “che vita di merda”, fu il pensiero sconfortante.
Di là, dove le persone sono vive, le mie donne discutevano con animosità; non importa per quale motivo, uno qualunque è sufficiente per non venirsi mai incontro. Nella zona limbica dov’ero confinato, una sorta di terra di nessuno tra le frontiere della Vita e della Morte, mi pareva fosse vanificato ogni tentativo di rilassamento, qualunque tecnica tentassi – e ne conosco molte -; mi occorrevano silenzio, pace, colore … ecco, si, mi mancava colore: cromoterapia, si può provare! Ma non c’era che grigiore attorno e grigio scuro era anche la macchietta che mi zampettava intorno. “Povera Daisy” pensai, mentre gli altri due cani sonnecchiavano indolenti, “anche tu avresti bisogno di un po’ di colore e di calore … fa’nculo tutto! Anche il Dolore!”. “Andiamo Daisy, dai!”. Mi vestì in fretta, presi in braccio il cane e, senza dire nulla, uscì di casa.


Non avevo una meta precisa, volevo vagare e disperdere pensieri, angosce e dolori. Poi guardai la barboncina seduta accanto; il suoi occhi non erano più liquorosi: ponevano aspettative che ben sapevo. Era un pomeriggio esposto interamente a solatio, un peccato non accontentarla.
Prendemmo l’auto.


Marano dista pochi chilometri da casa. Si affaccia sulla laguna veneziana. Un paese di pescatori che, fregandosene altamente di vivere in Friuli, formano un’enclave che ha conservato la lingua della Serenissima coi suoi caratteristici vocalizzi strascicati e sonori.
Il suo piccolo centro storico è chiuso al traffico e Daisy è abituata a passeggiare, senza guinzaglio, felice e obbediente al mio fianco.
Lungo il corso le case seicentesche, coloratissime e ben tenute, sono disposte l’una a ridosso dell’altra, lasciando stretti vicoli laterali; come se ne vedono in tutti quei paesi di mare che temevano incursioni piratesche. Colori finalmente! Colori accesi, vivi, brillanti, rilassanti, nuovi e quasi dimenticati: tornavo a respirare liberamente, non più a respiro corto, abbandonando la paura d’ingozzarmi d’aria e di dolori.
A circa metà del breve Corso, una macchia di colore, sbucata da uno dei vichi, mi sorprese; prevaricava ogni altro colore: tutto pareva appastellarsi in toni spenti, al suo cospetto. Concentrata in un punto ancora indistinguibile col sole di fronte, sembrava essere frutto di una rifrazione prismatica, caleidoscopica e si muoveva verso di me, accecante.
Avvertì come una fitta più forte delle altre, seguita da uno spasmo lungo la colonna vertebrale poi più nulla: i dolori si erano affievoliti improvvisamente: “che strano!”, pensai.


Daisy, solitamente così obbediente, mi guardò, fece un’allegra piroetta e schizzò veloce verso il bagliore iridato. Non mi scomposi, non provai neppure a richiamarla; avevo la sensazione che fosse giusto così, quasi una certezza; non affrettai neppure il passo.
La raggiunsi che saltellava festosa attorno una bimba, seduta su quell’arcobaleno della sua carrozzina. Anche la bimba era colorata, come si conviene, per festeggiare la Primavera appena arrivata.
“Mi scusi, signora, solitamente non si allontana da me; spero non l’abbia infastidita”, dissi rivolto ad una donna con un viso senza età (poteva essere la mamma o la nonna di quella bambina, indifferentemente), accovacciata affianco all’arcobaleno e sorridente.
“Ma le pare, anzi”, mi rispose, “questa freccetta scura è letteralmente piombata su Francy e, guardi com’è contenta la Francy, come sorride! Posso mettere il suo cane in braccio a Francy? Non morde, vero?”.
“Non morde, la prenda pure, Daisy ama i bambini” le risposi, ricacciando un grosso nodo dalla gola, cercando di mascherare la commozione nella voce.
“Guarda Francy, toccala, senti quanto è morbida, sembra un peluche, vero?”


Le manine si muovevano disarticolate, come il resto del corpo magro e ossuto, le dita afferravano l’aria, carezzando pochi peli per volta e le labbra ridevano, senza emettere suono, aperte su una fila di denti prematuramente marci.


-“Dai, allunga le braccia, Francy”,


“dai Francy, allunga le braccia!”.


-“Guarda, vuole darti i bacetti”,


“dai Francy, provaci, fallo!”; mentre le campane del Duomo suonavano il vespro.


-“Prendila in braccio, Francy, tienila da sola”


“tienila da sola, Francy! Che cazzo, Dio che hai da scampanare, cazzo! Ridammi il Mio dolore! Lascia che la prenda da sola in braccio, una sola volta: cazzo! Dai Francy!”


Daisy era dolcissima, si muoveva appena, tenuta dalla mamma-nonna, sulle gambe accartocciate della bambina. Francy la guardava con difficoltà, obbligata a subire i repentini scatti all’indietro del suo lungo collo che mal reggeva la testa.
“Vede, è nata così, ha sei anni e comprende tutto, anche se siamo in pochi a comprenderla, ma lei è paziente con noi”.
Mi avvicinai ancora di più all’arcobaleno su ruote, il mio volto all’altezza di quello di Francy e della sua mamma-nonna e le parlai.
Le parlai dolcemente, come parlavo alle mie figlie seienni. Le parlai a lungo e Francy ascoltava e sorrideva, in quel modo osceno regalatole da un dio impietoso, magari distratto o solo indolente come i cani lasciati a casa.
Francy sorrideva felice. La mamma-nonna mi sorrideva grata, un po’ commossa, mi parve, forse per quello scampolo di normalità offerto da un cane e da un uomo sconosciuti, che non avevano dimostrato pietismo verso quella bambina, che non avevano ostentato indifferenza o, peggio, fastidio. Mi trattenni ancora un poco e volentieri; poi la donna parve volle liberarmi:
“La saluto e la ringrazio, ha reso felice Francy”
“Grazie a lei e grazie a Francy, invece: siete ottime insegnanti”, le risposi.
Parve sorpresa, non poteva capire e non volevo spiegami. Ci alzammo nello stesso momento, ci stringemmo la mano; “ciao, tesoro”, dissi a Francy carezzandole i capelli biondi e sproporzionatamente belli e lucenti. Così stupidamente inopportuni: dono sciocco e vacuo del destino.
La gente entrava in chiesa, il sole stava declinando e non solo nel cielo.
Risalimmo sull’auto, presi il cane in braccio e allacciai la cintura ma non misi in moto; mi tornò alla mente un gesto della donna. Un gesto d’amore nei confronti di Francy che non poteva accarezzare nessuno: dopo aver asciugato la bava dal volto della figlia-nipote (con un gesto quasi pudico ed esitante), aveva preso Daisy in braccio e l’aveva accostata la viso della bimba per farne apprezzare la morbidezza. La cagnetta le aveva lappato il naso. Si era creato un contatto, la mamma-nonna aveva creato un motivo corale di estrema intensità emotiva, intima ed appagante per tutti gli esseri viventi inclusi nel radioso arcobaleno a rotelle.
Non misi in moto; lasciai che il nodo in gola mi strozzasse fino a far sgorgare un pianto liberatorio, vecchio di millenni e rancoroso; singhiozzante e disperato, accusatorio ed appagante.


Che strano Venerdì! Sabato non avrei dovuto leggere i necrologi, per sapere d’aver vissuto. C’è sempre una ragione per vivere, un motivo corale da cantare, un significato per l’Esistenza umana: non necessariamente viviamo per compiere grandi imprese, indimenticabili per le generazioni a venire, più spesso siamo vivi per restare poche ore nel cuore di una singola persona.


Poi chiesi perdono a Dio, misi in moto e mossi verso il grigiore, carezzando dolcemente Daisy; il tramonto alle spalle era quasi finito; dallo specchietto retrovisore scorgevo residue lame di luce sforare il cielo; nella mente una sola immagine: l’arcobaleno a rotelle.




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Racconto scritto il 24/05/2015 - 17:32
Da Marcello Caloro
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