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Un Natale in montagna

Questa storia risale a moltissimi anni fa, quando avevo circa otto o dieci anni.
Ne è passata d'acqua sotto i ponti, eppure, quell’indimenticabile notte di Natale è ancora viva nei miei ricordi.


Quell’anno l’inverno si era presentato con tutte le carte in regola, e quella sera faceva un tempo talmente brutto che a guardare la montagna c’era davvero da spaventarsi.
Era un susseguirsi di tuoni che scuotevano la casa fin nelle fondamenta e quando il fulmine illuminava la vallata, si poteva vedere la bufera di neve che torturava gli alberi.
La neve, frammista a grandine ed acqua, crepitava sui vetri della finestra, ed io, in piedi su di una sedia e stretto al caldo abbraccio di mia madre, guardavo con il fiato sospeso quella scena terribile.
Il contatto mentale con quello sconvolgimento mi frastornava e mi pesava sugli occhi come scaglie, ma quello che più mi torturava e mi torceva lo stomaco, non era la paura del fragore dei tuoni o del balenio dei fulmini che solcavano il cielo, ma l’ansia che sentivo consumare mia madre a causa di mio padre che, ancora nei boschi, tardava a rincasare.
Quella sua angoscia era così palpabile e concreta da riuscire a sentirne gli effetti, ed io, che la osservavo non visto, avrei desiderato essere capace di vincere le mie paure per saperla rincuorare, e invece, ritta alle mie spalle, sobbalzando ad ogni rombo, lei veniva a me come un soccorso dall’alto per ricondurre l’animo mio nel caldo e riposante nido delle sue braccia.
Non ricordo quanto tempo trascorremmo in quello stato d’ansia e di paura, ma quando al bagliore d’un lampo vedemmo la figura di mio padre arrancare nella neve, ci scrollammo di dosso ogni affanno, e mentre incurante della neve io mi precipitavo fuori, il fuoco, alimentato dalla mamma con fascine secche, riprese il suo vigore schioccando e lanciando in alto, assieme a centinaia di scintille festose, tutte le nostre angosce.
Alla vivida luce dei lampi, mentre la figura di mio padre diveniva sempre più decisa, mi parve di scorgere un corpo accasciato sulla sella del cavallo, e subito dietro, piegato per vincere la forza del vento e aggrappato alla coda dell’animale, un uomo con un voluminoso fardello sulle spalle.
Quando quell’incredibile e magnifica compagnia raggiunse la casa, mio padre legò il cavallo all’anello sul muro, e dopo aver spinto l’uomo in casa aiutandolo a deporre il fardello accanto al camino, tornarono fuori a liberare il corpo riverso sulla sella che trasportarono in casa adagiandolo sulla panca di fronte al fuoco.
Nel frattempo, come sempre accadeva, quando in casa c’erano estranei, io mi ero nascosto in un angolino, e di li potei osservare l’uomo che amorevolmente cercava di far riavere la donna. E quando lei finalmente si riprese, riuscendo a sedersi sulla panca, ebbi modo di osservarle il volto pallido e magro sul quale lessi una profonda sofferenza.
Mia madre le offrì del vino, ma lei rifiutò, con un sorriso, per dedicarsi al fardello che ancora si trovava sul pavimento dove era stato lasciato.
La vista del fagotto dovette in qualche modo rallegrarla, poiché prima piegò le labbra in un leggero sorriso, poi si chinò iniziando a sciogliere i nodi con movenze così amorevoli che, vincendo la mia timidezza, mi accostai a lei curioso di conoscere il motivo di tanta eccitazione.
Avvertendo la mia presenza lei mi guardò e prima di riprendere a sciogliere i nodi mi regalò uno stanco sorriso.
A quel punto la mia curiosità m’impose di seguire ogni suo gesto condividendone l’ansia e quando infine ebbe sciolto l’ultimo nodo, da quel cumulo di panni bagnati saltò fuori il musetto umido di una bimbetta tutt’ossa, che per prima cosa ruotò attorno a se due grandi occhi impauriti e colmi di triste rassegnazione.
Fu tale la sorpresa che non potei far altro che esultare con la donna, quando, sollevata la bimbetta dal pavimento, la strinse a se in un amorevole abbraccio.
In quel momento mio padre si accostò a me sussurrandomi in un orecchio
– «Sii buono...non aver paura è brava gente. Hanno bisogno di aiuto»
Quindi rivolgendosi a mia madre esclamò
– Per favore moglie, vuoi prepararci qualcosa di caldo? Siamo completamente gelati. Questi miei amici sono stati così generosi da concedermi la loro compagnia, che mi sono sentito in dovere d’invitarli a restare con noi questa notte
– Giusto un po’ di pane per la bambina, – Sussurrò l’uomo guardando mia madre come se volesse scusarsi per il disturbo arrecato – poi dovremo rimetterci in cammino
– Oh santo cielo! Ma che discorsi sono questi? – Lo interruppe la mamma – Uscire con questo tempo? Ma lo sapete che notte è questa? Buon Dio, vi rendete conto quale eresia avete pronunciato, signor mio? Non se ne parla neppure, questa notte resterete con noi, figuriamoci, c’è tanto di quel posto
– Siete gentile, ma proprio non possiamo, davvero – Replicò l’uomo cercando una conferma negli occhi della donna che, seduta accanto al fuoco, stringeva a se la bimbetta.
Ma da quel volto ancora bagnato e da quegli occhi scuri come la notte, dai quali traspariva un’infinita stanchezza, giunse soltanto un muto e angoscioso grido d’aiuto.
L’uomo la guardò un attimo perplesso, poi le sorrise annuendo lievemente e tornando a rivolgersi a mio padre mormorò allargando le braccia.
– Non so cosa dire
Con quella prontezza che ha sempre distinto ogni azione della sua vita, la mamma prese di nuovo tra le sue mani le redini della situazione.
– Non c’è nulla da dire, resterete! E non provate a dire mezza parola, io e mio figlio siamo onorati di ospitare chi ha concesso i suoi favori al nostro uomo. E’ una notte così terribile e un uomo solo nella foresta non è sicuro. Ma ora smettiamola di parlare e toglietevi di dosso quegli abiti bagnati e tu marito non startene impalato, provvedi al nostro amico che delle donne mi occupo io
– Soltanto fino a domani, – La interruppe l’uomo – poi dovremo riprendere il nostro viaggio
– Non pensiamo al domani, questo compito lasciamolo a chi di dovere. Ora pensiamo a cambiarci gli abiti o ci buscheremo un malanno – Aggiunse mio padre spingendo l’uomo su per le scale fin nella mia stanza, mentre la mamma aiutava la donna ad alzarsi togliendole dalle braccia la bambina.
Rimasto solo, dopo avere alimentato il fuoco nel camino, uscii per condurre Shakespeare nella stalla, lo asciugai, lo coprii con una coperta e gli detti da mangiare. Quando rientrai erano tutti attorno al fuoco, tranne la mamma che era impegnata a preparare la tavola.
La donna indossava l’abito che mia madre usava soltanto nelle grandi occasioni, alla bimbetta avevano fatto infilare l’altro paio dei miei pantaloni e la maglia che sarebbe dovuta essere il mio regalo di Natale, mentre ai piedi le avevano infilato un paio di calzettoni di lana di mio padre.
Trascorremmo quella notte di vigilia in loro compagnia, mangiando in cordiale allegria quello che la mamma aveva preparato.
Per tutto il tempo che sedette a tavola, Elide (Il nome della bimbetta) non pronunziò una sola parola, ma quel suo volto sofferente mi affascinò calamitando su di lei tutto il mio interesse.
Durante la cena ebbi modo di notare certe rapide occhiate che scambiava con la donna ogni volta che la mamma le metteva del cibo nel piatto e soltanto quando la donna annuiva lievemente con il capo, lei iniziava a mangiare.
Eravamo seduti l’una di fronte all’altro e più di una volta, sollevando lo sguardo per osservarla, immancabilmente scoprivo i suoi occhi fissi su di me.
Quando questo accadeva, (Per la verità alzavo spesso il capo) lei abbassava immediatamente lo sguardo nel suo piatto.
Per un po’ quello strano gioco a rimpiattino con i nostri sguardi dovette divertirla, poiché presto iniziai ad osservare sulle sue labbra dei deliziosi e pudici sorrisi che sapevano addolcirle i tratti del volto.
– Non è nostra figlia. Noi non ne abbiamo avuti. – Sentii dire alla donna con voce fine rispondendo ad una domanda di mia madre – Elide ha otto anni finiti, ma è già una piccola donna. Ha sofferto molto a causa della moglie che mio fratello si prese quando rimase vedovo. Mio fratello, che Dio l’abbia in gloria, era un buon padre, le voleva bene, ma cosa vuole, tutto il giorno a tagliare legna, non aveva il tempo per curarla e quella donna la trascurava. Quando un anno fa mio fratello mori di febbri, mi raccomandò tanto di avere cura di lei che quando quella donna si portò in casa un altro uomo io non volli lasciargliela, ed ora non gliela rendo più. Povera piccina è tanto buona
– E non ve l’ha reclamata? – Domandò mia madre
– Non è sua figlia, per lei è sempre stata un peso, e noi ora ce la portiamo nelle Americhe. Di sicuro non avrà una vita facile, ma certamente avrà qualcuno che le vuole bene
– Quando dovreste partire?
– La nave prenderà il mare tra due giorni
– E andate a Napoli a piedi?
– Siamo povera gente. In montagna il lavoro è scarso e per mio marito non c’è più lavoro. Lui è un bravo falegname ma cosa volete, se non c’è lavoro ci si deve pur inventare qualcosa. Così abbiamo deciso di vendere le nostre cose e andarcene. Dicono che al di là del mare, in quelle Americhe, dicono che ci sia lavoro per tutti
– Mio Dio! Ma come farete? Napoli è così lontana e se doveste perdere la nave?
– Qualche santo ci proteggerà. Dio non può essersi dimenticato di noi
– Ma si che sarete a Napoli in tempo! – Intervenne mio padre – Sono soltanto quaranta chilometri, un giorno di viaggio
– Volete scherzare? – Soggiunse l’uomo – Come potremmo in un solo giorno percorrere tanta strada?
– Con un carro
– Noi non possediamo un carro
– Oh si che lo avete! Proprio domani mattina alcuni nostri amici partiranno per consegnare un carico di legname a Napoli e vedrete che un posticino per voi su uno dei carri si troverà
– Ma domani è Natale, lavorare è peccato – Mormorò la donna
– Sono tempi difficili per tutti. Ma ora non pensiamo alla partenza, piuttosto dobbiamo ancora fare onore a questo buon vino
Lasciai i grandi ai loro discorsi e al prezioso vino di mio padre per accostarmi a Elide.
Lei nel frattempo si era seduta sulla panca accanto al fuoco e in silenzio ne osservava incantata le fiamme.
Dovette avvertire la mia presenza, perché interrompendo le sue meditazioni girò su di me due occhi così grandi da occuparle tutto il volto.
– Ciao! – Le dissi a bassa voce
– Ciao – rispose lei sorridendomi
– Ti dispiace se mi siedo con te? – Balbettai sorpreso per la mia temerarietà
Lei annuì spostandosi su un lato della panca per farmi posto.
Fino ad allora non mi era mai accaduto d’essere così vicino al corpo di una donna che non fosse quello di mia madre e quando mi accostai a lei, il contatto del suo corpo mi procurò una violenta vertigine.
Lei dovette percepire quel mio turbamento perché fu così brava che con una semplice domanda ruppe il mio imbarazzo.
– I calzoni che indosso sono i tuoi, vero?
Non riuscii neppure ad aprire bocca e dovetti sembrarle molto stupido
– Puoi stare tranquillo, te li renderò – Sussurrò lei prima di chiedere con un filo di voce – Voi siete ricchi?
– Perché me lo chiedi? Io non lo so
– Tu possiedi due pantaloni, mio zio ne ha uno soltanto


A quel punto il mio disagio arrivò al culmine, e non sapendo più a quale santo voltarmi, misi una mano in tasca facendo saltare fuori uno di quei rocchetti di legno su cui le donne avvolgono il filo per i loro rammendi.
Quel pezzo di legno non soltanto mi salvò, ma suscitò in lei tanto interesse da farmi intuire che desiderasse averlo tra le mani.
Lieto di essere riuscito a superare quel momento difficile, glielo porsi, ma lei, scuotendo il capo, rifiutò di prenderlo.
– Puoi prenderlo – Le dissi spingendoglielo tra le mani
Lei si ritrasse scuotendo violentemente il capo.
– Non ti piace? – Le chiesi
Con il capo fece un cenno affermativo.
– Beh, allora prendilo
Con le mani congiunte, come se stesse per ricevere un prezioso gioiello, Elide prese il rocchetto osservandolo attentamente, poi lo accostò alle labbra e pian piano ve lo lasciò scivolare una, due, tre volte.
– Com’è liscio, l’hai fatto tu? – Sussurrò guardandomi
Gonfiandomi come un pallone annuii sapendo di mentire.
– Sei bravo, a cosa serve?
– Ci si avvolge il filo
– Quale filo?
– Quello per cucire
– Ah è vero! Lei ne aveva uno nella cassetta della lana
– Lei chi? – Domandai senza pensarci
Non rispose subito, ma quando sollevò il volto notai che era scomparsa quella luce che fino ad allora lo aveva illuminato.
– La moglie di mio padre – Mormorò
Per lunghissimi minuti tra noi scese un silenzio colmo di imbarazzo. Provavo rimorso per averla costretta a rispondere a quella domanda che doveva averle riportato alla mente ricordi non lieti. Ma sul momento non riuscii a trovare un modo per riparare al guaio.
La prima cosa che mi venne in mente fu una domanda banale
– Il tuo nome è Elide?
Lei annuì continuando a far girare tra le mani il rocchetto di legno.
– E’ un bel nome – Continuai
Lei mi guardò e sorridendo sussurrò
– A te piace? Dove vivevo prima si burlavano di me, dicevano che Elide è un nome da vecchia
– Non è vero, a me sembra bello, mi piace. Il mio invece è un nome comune
– Anche Tonino è un bel nome. – Rispose lei di slancio, riprendendosi subito per continuare a voce sommessa – Ho sentito quando tua madre ha fatto il tuo nome
A quel punto il mio coraggio vinse su tutto.
– Posso svelarti un segreto? – Chiesi
– Certo, so mantenere i segreti, io
– Quel rocchetto... non...
– Vuoi che te lo renda? Tieni, riprendilo
– Oh no! Non volevo dire questo, puoi tenerlo
– Non è tuo?
– Si, ma, volevo dire che, beh, non l’ho fatto io


Ecco fatto! C’era voluto tutto il mio coraggio, ma non appena pronunciate quelle parole mi sentii subito meglio.


– Non l’hai fatto tu? – Esclamò lei con quella espressione di chi stenta a credere
– No, me lo ha regalato mia madre
Lei non rispose subito, prima fissò il rocchetto, quindi si voltò verso mia madre e quando tornò a guardare il rocchetto mormorò
– Tua madre è bellissima
Annuii visibilmente imbarazzato e mentre tentavo disperatamente di trovare le parole per risponderle, lei mi salvò chiedendo
– Però saresti capace di farlo, vero?
– Cosa? – Chiesi piuttosto frastornato
– Questo! – Rispose mostrando il rocchetto
– No, non credo di essere così bravo
– Io dico che sapresti farlo ancora più liscio
Quelle poche parole, dette con spontaneità, spezzarono definitivamente il mio imbarazzo.
– Può darsi, però non saprei come fare
– Oh si che lo sai, tu non sei come gli altri, sei diverso
– Perché dici che sono diverso? – Chiesi
Lei abbassò il capo scuotendolo senza rispondere. E allora feci una cosa che non mi sarei mai sognato di fare. Per la prima volta nella mia vita, con una mano toccai una donna sollevandole il volto.
– Ti vergogni di me? – Chiesi
Lei scosse il capo
– Allora? Non vuoi dirmi perché sono diverso?
Si strinse nelle spalle – Non lo so, però voi non siete come gli altri, siete diversi, avete gli occhi puliti. Dove vivevo la gente non era tranquilla e quando mi guardava mi faceva star male. Qui con voi non ho paura, sto bene


Annuii forse volendo farle intendere che avevo compreso, ma in realtà non avevo affatto capito il senso delle sue parole.
Lo capii alcuni anni dopo, quando al di fuori del guscio della mia famiglia ebbi a che fare con molte specie di uomini.
– Posso tenerlo ancora un poco? – Chiese mostrando il rocchetto
– Certo che puoi – Le risposi – puoi tenerlo, è tuo, io ne ho altri – Mentii spudoratamente
Lei sembrò intuire la verità, mi sorrise e sussurrando un – Grazie! – si voltò a guardare le fiamme.
Non riuscendo ad interpretare quel suo gesto, fui tentato di riprendere il dialogo, ma l’espressione raccolta del suo volto m’impedì di disturbarla e mentre osservavo affascinato il suo profilo illuminato dalle fiamme del camino, le scivolò sulla gota una lacrima e poi un’altra ancora.
– Non devi piangere. – Sussurrai – Questa notte non è permesso
Ella annuì con il capo e si voltò a guardarmi.
Quegli occhi immensi, colmi di lacrime che la tremula luce delle fiamme avevano trasformato in una magica forgia di vivi bagliori, mi commosse.
E fu allora che, scomparsa in me ogni timore, le posi una mano sulle sue, abbandonate sul grembo e le strinsi.
Elide si rese perfettamente conto di quanto stava accadendo, ma non abbassò gli occhi, mi sorrise, poi, sollevata una mano, mi accarezzò il volto sussurrando
– Tu... tu... – Poi annuì e non disse altro.


Le prime ore della notte volarono in completa allegria, vuoi per il cibo o per il calduccio che si era creato nella stanza, tutti iniziammo a canticchiare canzoni natalizie.
Quella fu l’unica notte della mia breve infanzia che con i miei non andammo alla funzione di mezzanotte. La trascorremmo con i nuovi amici raccontandoci un po’ delle nostre storie.
E quando passata la mezzanotte si decise di andare a dormire, i miei, dopo aver vinto le loro resistenze, cedettero il loro letto alla coppia e alla bambina.
Io e mia madre ci sistemammo nel mio letto, mentre mio padre, dopo aver fatto una visita nella stalla per scambiare due parole con Shakespeare,il suo amico cavallo, scelse di trascorrere il resto della notte accanto al camino per prendersi cura degli abiti bagnati dei nostri amici.


#


Il mattino successivo il tempo si era rimesso al bello e quando i nuovi amici lasciarono la nostra casa, una pallida alba colorava il cielo facendo brillare la neve.
Quella mattina fui molto fortunato, poiché ebbi modo di assistere al saluto tra la mamma e la sua nuova amica.
La mamma aveva preparato del cibo e lo aveva sistemato nella sacca della donna, poi si erano sedute alla tavola e per un po’, tenendosi per mano, parlottarono come due vecchie amiche. Io le guardavo affascinato tentando di comprendere come, in così breve tempo, poteva essere nata quella loro limpida spontaneità, domandandomi quante cose sarebbero riuscite a dirsi in quei pochi minuti.
Quando giunse l’ora della partenza si alzarono e senza dire una sola parola si strinsero in un lunghissimo abbraccio silenzioso carico di commozione.


Assieme a mio padre li accompagnai fin fuori il paese dove incontrammo i carri della legna per Napoli. Il babbo parlottò un po’ con il capo della colonna che accettò di condurli con loro.
Ci salutammo con la voce rotta dall’emozione. L’uomo strinse la mia mano tra le sue grandi e forti.
– Addio figliolo, buon Natale – Disse – e chissà che un giorno non ci s’incontri ancora
Fu buon profeta, poiché molti anni più tardi ebbi la fortuna di riabbracciarlo proprio in America.
Sua moglie, dopo avermi salutato con una carezza sui capelli, lasciò scendere dalle sue braccia la bimbetta che mi venne incontro a testa bassa.
Quando Elide mi raggiunse sollevò lo sguardo, fissandomi, come se avesse voluto dire qualcosa e mentre i suoi grandi occhi mi guardavano intensamente, si sfilò dal collo un cordoncino scuro che mise tra le mie mani. Poi, prima di scappare vergognosa tra le braccia della donna, si sollevò sulla punta dei piedi e mi baciò sulle labbra.


Restammo a guardare i carri fin oltre gli alberi che delimitavano la strada e quando anche l’ultimo di loro scomparve, iniziai a sentire dentro di me qualcosa che saliva prepotente e che non riuscivo a frenare.
Piangevo senza riuscire a nascondere i singhiozzi.
Mio padre mi strinse a se con un braccio e con voce calma sussurrò
– Sta tranquillo, non saranno abbandonati


Più tardi, mentre si tornava verso casa, dedicai molta attenzione alla piccola pietra verde infilata nel sottile cordoncino che Elide aveva messo tra le mie mani.
La mostrai a mio padre
– Guarda babbo! Non è bellissima? Sembra un gioiello
– E’ soltanto una pietra, – Rispose lui sorridendomi – ma è assai più preziosa d’un gioiello. In lei è racchiuso un sentimento purissimo e tu dovrai custodirlo gelosamente.




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Racconto scritto il 13/11/2015 - 16:05
Da m c
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Commenti


Uno squarcio di vita antica, dagli Appennini alle Ande...

Glauco Ballantini 16/11/2015 - 20:02

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