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Jasmine

Era la domenica delle palme di quest'anno quando accadde ciò che sto per narrarvi, nella speranza che in queste mie parole io vi possa trasmettere le emozioni che erano in me in quel momento. Mi trovavo un po' scosso, dato che in quel periodo leggevo Dostoevskij e che, nonostante la mia giovane età, la mia perizia letteraria e la mia leggera avversità nel formarmi una famiglia, aveva seminato in me un certo fascino nei confronti dei bambini tanto da farmi cambiare il modo di guardarli. Quel giorno andavo con questi pensieri a fare volantinaggio fuori al cimitero. Era un lavoro come altri -tipo fare il cameriere- che dava e da, a noi studenti, qualcosa per poterci permettere dei libri decenti e magari anche un pagamento di qualche tassa. Era quella bella primavera che ti dà quella sensazione nello stomaco di voler vivere per sempre quelle giornate, con un clima gradevole, profumi di fiori e persone felici che davano una cornice ossimorica al mio stato d'animo: ero incazzato nero. Ciò che creava in me questa "agitazione", era l'ipocrisia di tante persone che si accalcavano in quei giorni al cimitero, credendo che attraverso quell'atto, potevano garantire le proprie anime l'ingresso a un presunto paradiso. E in quella farsa che in molti -non tutti- creavano, avevano anche il coraggio di scacciarmi o criticare l'atto del volantinaggio, come se fosse un oltraggio svolgerlo davanti ad un luogo che si presume sacro, come il cimitero. Si susseguivano termini come:
-ma proprij cà e ra 'sti cos?
Con tale disprezzo che accresceva il mio astio in quel genere di persone. Per fortuna qualche anima magnanima si fermava a parlarmi e chiedermi cosa facessi o chi fossi, cosa ormai rara nel mondo di oggi. Se qualcuno ci fermasse per intavolare una semplice e piacevole conversazione probabilmente lo omologheremo come pazzo. Minuto per minuto, volantino per volantino, il tempo passava. A un certo punto, tra i vari mendicanti che approfittavano dell'affluenza delle persone, poveri esseri ingenui che si aspettavano una sorta di compassione nella settimana prima di Pasqua, si aggiunse una ragazzina. Venne con uno scatolo pieno di palme. Indossava un piumino sudicio, con una tuta che probabilmente era di un ragazzino, delle scarpe rotte, capelli legati e unti, e al centro come delle perle in mezzo a quello sporco, due occhi grandi e azzurri. Non aveva idea di come convincere le persone. La osservavo, ed era molto impacciata. Dopo un po' di tempo, le vendite erano sempre più scarse e con loro, i suoi sorrisi. Probabilmente voleva andar via. Lo disse nella sua lingua a un uomo basso e irato sulla quarantina o forse qualcosa in più. Aveva gli occhiali e un portamento che daresti a un parcheggiatore abusivo. Dopo un po' l'uomo esordì in un italiano misto al dialetto, urlando verso la bambina:
-tu ti devi sta ca! Hai capito? Vendi le palme e nun te movr!
In quel momento la ragazzina sembrava che volesse nascondersi nel posto più solitario del mondo. La sua testa minuta si nascose nel piumino sporco mentre le guance si riempivano di un rossore tipico di un quadro di Rembrandt. In quel momento la mia giornata era ormai rovinata. La mia empatia era sempre più forte, fino ad arrivare a pensare alle prostitute che vengono costrette a battere la strada. La situazione mi sembrava analoga, ma qui c'era un'innocenza che stava imparando a convivere con l'idea che lei sarebbe stata una macchina di elemosina, uno strumento di guadagno per un aguzzino che la costringeva a prostituire la sua infanzia per delle palme e un misero guadagno. Pensavo ai bambini che in quel giorno non sarebbero andati a scuola, ed erano scocciati, poiché si trovavano nei cimiteri o nelle cappelle a sentire una messa dove si sarebbe predicata la pace. Quei bambini dopo sarebbero andati a correre nei loro quartieri insieme ai loro amici, e la loro unica preoccupazione sarebbe stata quella di dover salire sopra a mangiare e quindi interrompere i loro giochi. E lì, tra quella folla di persone che fluivano nel luogo dell'eterno riposo, degli occhi stavano perdendo la loro luce. Giacevo immobile e inerme, come il professore di lingue di Conrad davanti al tradimento del russo Razumov nei confronti dell'amico compatriota. Ma decisi di rendere almeno più sopportabile quella giornata e cercare di capire di più di quella realtà. Sapevo che non potevo modificarla. Era impossibile. Mi avvicinai e porsi tra le sue piccole mani un due euro. Lei mi sorrise e mi ringraziò con una riverenza spiazzante. Le dissi:
-come ti chiami?
-Jasmine
Era timida e non parlava molto. Aveva una certa diffidenza nei confronti del mondo. Continuai con il chiederle:
-Quanti anni hai?
Avevo sempre un sorriso stampato sul volto, un po' per spontaneità e un po' per darle una sicurezza. Mi rispose dicendo:
-ne ho 11
La notizia ovviamente non mi sconvolgeva affatto, ormai avevo capito la situazione che si era creata. Le chiesi dolcemente:
-stai andando a scuola?
-si
Questa affermazione mi rese felice. Un po' perché capivo che almeno non veniva trattata nel peggiore dei modi e quindi aveva una vita sociale, e un po' per una sorta di fierezza patriottica nei confronti dell'organizzazione dell'istruzione italiana e delle possibilità che offre. Non continuai più nelle domande, mi sentivo anche stupidamente imbarazzato. Continuai nella mia mansione. Un carabiniere mi chiese anche il permesso, ma poiché ne ero provvisto, la situazione si risolse in poco tempo. Dopo un po', mi apprestavo a terminare. La mia giornata lavorativa sarebbe finita e la mia pancia si sarebbe riempita. Ma avevo qualcosa in sospeso. Chiamai mia zia. Avevo dell'acqua e del cibo nel mio zaino. Telefonai a mia zia e le dissi di portarmi qualche snack, un succo di frutta e altra acqua. Venne e mi portò tutto. Diedi uno snack e una bottiglia d'acqua a un uomo di colore che era lì a mendicare e che avevo conosciuto in altri giorni in cui avevo fatto volantinaggio. Poi vidi lei. La ragazzina. Jasmine. Le andai vicino. Presi tutto ciò che avevo in borsa: snack, brioches, succo di frutto e acqua. Glieli diedi. Capii che i soldi non sarebbero entrate nelle sue tasche. Quando lo prese, lei mi fece il famoso sorriso di Duchenne, dove le sue timide labbra formavano l'archetto di un violino e i suoi occhi si chiudevano dipingendo le zampe di gallina ai lati. Mi commossi, mi sentivo anche stupido, ma fu una sensazione davvero piacevole. Vedevo la bella giornata, ma avevo paura dell'ipocrisia.



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Racconto scritto il 21/11/2015 - 17:36
Da Salvatore Mauro
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