Ora. Qua. In piedi in questa stanza sola nuda.
Copro gli occhi con le mani. Chiuderli non basta.
Le mani schermo dalla melmosa realtà che filtra nelle palpebre.
Non vedo, parlo.
Parlo come se stessi scrivendo.
Penso attraverso parole che escono come voce dalle dita, e copio quel che si scrive dietro agli occhi.
Come suono che dall’orecchio arriva al resto del corpo e affiora sulla pelle, così parole si muovono dentro, simili a un liquido che si miscela al sangue, paralizza. Si muove con andamento circolare dallo stomaco fino ai margini del corpo.
E le mani, dagli occhi al volto, diventano aggressive, graffiano, fanno male con intenzione, attenuano il dolore. La voce s’assottiglia, diventa brusio che formicola nella gola secca.
È un prurito che cresce.
S’impone dentro ed emerge fuori solleticando i muscoli.
E perdo il controllo.
E non lo posso evitare.
Devo grattarmi. Devo eliminare quello che non sono in grado di vedere. Devo togliere la crosta di qualcosa che sta imputridendo. Mi sporca. Io sono sporca.
Dentro. Nascosto, dietro spazi intimi di spirito e corpo, si nasconde un marcio che inizia a puzzare.
No. Puzza da tempo. E non riesco più a respirare. Non so più sopportare. Non posso più sentirne l’odore.
Il rossore, intorno alle croste, si espande e cambia contorno giorno dopo giorno, non da segni di cedimento.
Ed io sono sempre qua.
Ferma. Stessa posizione. O forse No.
Non ricordo. Non so più cosa è stato.
La memoria mi abbandona. I ricordi strisciano subdolamente tra viscere e pelle, ingannano, ci provano, mi illudono della loro inesistenza, poi sfociano in un formicolio che non so come fermare. Mi svegliano dal sonno con una visione poi mi dominano in una frazione di secondo senza darmi il tempo di capire cosa sta cambiando.
Cosa vuole questo rumore?
L’amnesia mi si è concessa, ho capito che il ricordo è il cancro.
Ho capito che in questa ombra la ragione perde il suo mana e il caos può colpire in ogni punto, senza fare distinzioni tra nervi e ossa. Nel ricordo sei bersaglio di un gorgo di frecce che trafiggono. E dissanguano.
La memoria oscura il controllo che coltivo per smettere di avere paura. Controllare in funzione di una beata dimenticanza.
Comunque ancora qua.
In un mondo personale dove non si ha nulla e non si è nessuno. Qua non c’è bisogno di essere o possedere.
Qua non si può tenere nulla tra le mani. Il pensiero è l’unica realtà, e da contenitore diventa mezzo di immagini, parole e battiti.
Ed io in questa sorta d’inferno mi lascio trapassare dal vento di questo vorticoso composto.
Fuori sono voce, richiesta, saluto . Movimenti corretti, mani attente e tremore. Sono silenzio. Sono nulla di palpabile. Puoi pretendere quello che vuoi, perché non ho niente dentro che si possa trovare fuori.
Quanto è inutile opporsi alle voglie altrui. Chi si affianca, prima o poi, troverà il punto debole il bisogno che modellerà fino a farlo somigliare ad una voglia.
E allora voglio. Voglio subito. Ora e qua.
Fatico. Arranco. Dimeno il corpo come un verme che non trova altra soluzione che oscillare, a metà tra terra e aria, per trovare l’appiglio che lo faccia uscire.
Che mi faccia uscire.
Esci. Ho bisogno solo di una luce e tre respiri. Poi tornerò a chiudere gli occhi.
Copro gli occhi con le mani. Chiuderli non basta.
Le mani schermo dalla melmosa realtà che filtra nelle palpebre.
Non vedo, parlo.
Parlo come se stessi scrivendo.
Penso attraverso parole che escono come voce dalle dita, e copio quel che si scrive dietro agli occhi.
Come suono che dall’orecchio arriva al resto del corpo e affiora sulla pelle, così parole si muovono dentro, simili a un liquido che si miscela al sangue, paralizza. Si muove con andamento circolare dallo stomaco fino ai margini del corpo.
E le mani, dagli occhi al volto, diventano aggressive, graffiano, fanno male con intenzione, attenuano il dolore. La voce s’assottiglia, diventa brusio che formicola nella gola secca.
È un prurito che cresce.
S’impone dentro ed emerge fuori solleticando i muscoli.
E perdo il controllo.
E non lo posso evitare.
Devo grattarmi. Devo eliminare quello che non sono in grado di vedere. Devo togliere la crosta di qualcosa che sta imputridendo. Mi sporca. Io sono sporca.
Dentro. Nascosto, dietro spazi intimi di spirito e corpo, si nasconde un marcio che inizia a puzzare.
No. Puzza da tempo. E non riesco più a respirare. Non so più sopportare. Non posso più sentirne l’odore.
Il rossore, intorno alle croste, si espande e cambia contorno giorno dopo giorno, non da segni di cedimento.
Ed io sono sempre qua.
Ferma. Stessa posizione. O forse No.
Non ricordo. Non so più cosa è stato.
La memoria mi abbandona. I ricordi strisciano subdolamente tra viscere e pelle, ingannano, ci provano, mi illudono della loro inesistenza, poi sfociano in un formicolio che non so come fermare. Mi svegliano dal sonno con una visione poi mi dominano in una frazione di secondo senza darmi il tempo di capire cosa sta cambiando.
Cosa vuole questo rumore?
L’amnesia mi si è concessa, ho capito che il ricordo è il cancro.
Ho capito che in questa ombra la ragione perde il suo mana e il caos può colpire in ogni punto, senza fare distinzioni tra nervi e ossa. Nel ricordo sei bersaglio di un gorgo di frecce che trafiggono. E dissanguano.
La memoria oscura il controllo che coltivo per smettere di avere paura. Controllare in funzione di una beata dimenticanza.
Comunque ancora qua.
In un mondo personale dove non si ha nulla e non si è nessuno. Qua non c’è bisogno di essere o possedere.
Qua non si può tenere nulla tra le mani. Il pensiero è l’unica realtà, e da contenitore diventa mezzo di immagini, parole e battiti.
Ed io in questa sorta d’inferno mi lascio trapassare dal vento di questo vorticoso composto.
Fuori sono voce, richiesta, saluto . Movimenti corretti, mani attente e tremore. Sono silenzio. Sono nulla di palpabile. Puoi pretendere quello che vuoi, perché non ho niente dentro che si possa trovare fuori.
Quanto è inutile opporsi alle voglie altrui. Chi si affianca, prima o poi, troverà il punto debole il bisogno che modellerà fino a farlo somigliare ad una voglia.
E allora voglio. Voglio subito. Ora e qua.
Fatico. Arranco. Dimeno il corpo come un verme che non trova altra soluzione che oscillare, a metà tra terra e aria, per trovare l’appiglio che lo faccia uscire.
Che mi faccia uscire.
Esci. Ho bisogno solo di una luce e tre respiri. Poi tornerò a chiudere gli occhi.
Racconto scritto il 21/12/2015 - 20:48
Da ellis lio
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