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L'insegnante di francese

Pigio frettolosamente le dita sul campanello. Il perché, si scoprirà tra poco. La grossa porta color castagno di fronte a me si dischiude, e riconosco il ronzio caratteristico degli ingranaggi non più tanto nuovi che la compongono. «Tu es arrivée en retard» dice la voce proveniente da quell'uscio consunto. Tranquilli, non è la porta che parla. Chi ha parlato è lì accanto ad essa, e mi sta osservando in attesa di risposta. Trafelata come solo una persona perennemente ritardataria saprebbe essere, mi scuso farfugliando qualcosa di incomprensibile e senza troppi indugi varco l'ingresso. La verità è che so che bene che lei, questa ragazza dai capelli biondo grano raccolti ordinatamente, un fisico minuto e un'andatura regolare, ma fatta di passi quasi accennati, sulle punte dei piedi, non mi rimprovererà apertamente, ma ciò non la distoglierà dal lanciarmi uno sguardo di disappunto ben peggiore. Ed è quello sguardo che cerco di evitare, per la verità non molto astutamente. Lei se ne accorge, perché accenna un piccolo sorriso a mezz'angolo, ma cerca di non scomporsi: è la mia insegnante e per quel tacito accordo che c'è tra di noi sa che non può fare diversamente.
Non saprei raccontare con precisione dove l'ho conosciuta. So chi me l'ha presentata, ne ricordo la circostanza, ma se mi chiedeste di descrivervi il modo in cui era vestita, che ore fossero, cosa ci raccontammo, beh, non potrei rispondervi, pur riconoscendo quanto le donne siano in genere delle acute osservatrici. Quando vogliano esserlo, ovviamente.
Ricordo però che, in un giorno come tanti, ricevetti una notizia che mi avrebbe collegata in maniera profonda con la Francia, e allora mi resi conto che avevo un bisogno assoluto di prendere lezioni di lingua francese. E mi venne in mente lei, per la verità quasi subito, e le mandai un messaggio per chiederle se fosse stata così gentile da darmi una mano. Non se lo fece ripetere.
Cominciò tutto da lì.
Come dev'essere strano per lei avere un'allieva come me, o forse, presa dall'egocentrismo che a volte contraddistingue noi esseri umani, mi piace illudermene. Perché lo dico? Perché ero, sono, un tornado. Sempre di corsa, sempre con qualche impegno dell'ultimo istante che costringe le nostre lezioni a terminare qualche minuto prima e non dopo. Qualunque altro insegnante si sarebbe spazientito. Ma lei no.
Lei mantiene la calma e il controllo della situazione, nonostante io vacilli. Forse comprende quanto io sia motivata a venire alle sue lezioni, perché è ciò che le ripeto instancabilmente, o magari si accorge che, nonostante la spossatezza così disastrosamente celata, vengo a sedermi lì davanti a lei, un sabato sì ed uno no. Contro i pareri di chi vorrebbe per me qualcosa di meglio, contro il tempo che non accenna ad espandersi per darmi modo di far tutto. Lei lo sa, pur non affermandolo. Perché mi studia.
Non so chi abbia detto che un bravo insegnante non smette mai di studiare. E non si tratta solo dei libri, degli esami, della burocrazia, ma di qualcos'altro, ben più complicato, e faticoso, così tanto da far arrivare a sera senza un briciolo di forze. E' una disciplina che non termina mai completamente, che non dà titoli né guadagni concreti, così tangibile e al tempo stesso astratta: il rapporto con un allievo.
La mia insegnante mi studia, come se fossi un documento, un libro, qualsiasi materiale su cui possa essere fatta un'analisi. Non si accontenta di darmi nozioni, non le importa di aver ragione. Vuole aiutarmi a capire. E non solo il francese. Attraverso le domande che mi rivolge, o quelle sottili opinioni che si lascia sfuggire intenzionalmente, traccia un disegno nel mio cervello, fatto di strade, tante strade, parallele o che si incrociano, e sembra dirmi «Le puoi percorrere, se esistono. Devi solo capire come».
Sono arrivata nel suo studiolo. Ormai lo conosco a memoria, e ciò mi rassicura, ed in fondo so che è lo stesso anche per lei. La lezione comincia senza tanti preamboli, perché lei, sempre acuta, sa già che a circa una mezzora dal termine inizierò a dar di matto, a non capire nulla, perché la fretta di andarmene prenderà il sopravvento sul buon senso.
«Tu es prête à partir?». Quanto odio andarmene. Quelle due ore rappresentano per me la libertà che dovunque è solo utopia. Così, quando la porta d'ingresso, la stessa che ha accolto me in estremo ritardo, sembra scrutare noi due che ci congediamo, ma non prima di esserci accordate per la lezione successiva, capisco che apprezzo quella libertà proprio perché sfuggente, inarrivabile, da conquistare con un lavoro duro. Il mio e quello della mia insegnante di francese.
Alla quale vorrei dire tante, tantissime altre cose, ma già so che quando avrà letto questo racconto, le parole che non le ho scritto compariranno vivide nella sua mente.



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Racconto scritto il 27/12/2015 - 20:11
Da Rosalba Caraddi
Letta n.1298 volte.
Voto:
su 2 votanti


Commenti


Ti ringrazio per questo tuo commento così analitico e sentito, mi scuso per il ritardo nella risposta. Non sono un'insegnante ma ammiro questo mestiere con tutto il cuore. Lieta serata a te.

Rosalba Caraddi 12/03/2016 - 22:11

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Mi hai ipnotizzato con questo racconto...scrittura pulita e precisa, che io non ho, forse dovuta ad una mente ordinata?...ho pensato che tu fossi( o sia, o sei ?) una insegnante nella vita reale. Molto bello il finale, tanto.
Vedo qui 2 stelle, non sono d'accordo...vedo di rimediare con 5.

Gennarino Ammore 28/12/2015 - 07:32

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