VENDETTA SALATA
“Stai tranquilla. Questa la pagherà cara.”
Era giugno, un giugno di quarant’anni fa, e le scuole con nostra grande gioia erano finite e mentre mia madre, mia zia e mia nonna facevano il pane io, mio fratello ed i miei cugini riprendevamo fiato dopo aver combinato qualcosa di poco nobile in lungo ed in largo per la borgata, seduti all’ombra sui gradini della cucina della grande casa colonica.
L’aria era calda e portava ovunque il profumo del lentisco bruciato, con cui mio nonno faceva delle scope per pulire la camera del forno prima di riporre i pani che si sarebbero gonfiati come palloni ed il battere ritmico dei mattarelli sul legno dei tavoli ci faceva capire che le donne avrebbero avuto ancora tanto da lavorare.
Stavamo confabulando sul da fare con le nuove fionde che avevamo preparato quando ci passò davanti la Fiat 500 celeste di mia zia, anzi a dire il vero mia prozia, la sorella più piccola di mia nonna, che faceva la maestra elementare e quindi anche lei già in vacanza. Con lei c’erano mia sorella maggiore, mia zia della sua stessa età e mia cugina e stavano scendendo verso il mare. Ricordo che in quel momento mi sentìì isolata ed offesa: perché non ero stata invitata? Ed è allora, in risposta al mio disappunto per l’onta subìta che mio cugino Alberto, il mio primo fidanzatino con cui feci insieme la Prima Comunione, documentata con una fotografia in cui sembriamo due sposi bambini, promise di vendicarmi.
Decidemmo così di avviarci anche noi verso la spiaggia: sapevamo già come reagire perché conoscevamo bene le paure di nostra zia, Luisa, e lì nella salina ancora melmosa avremmo trovato la materia prima.
Attraversammo tutto il podere dei miei nonni con una certa urgenza, più che bambini spensierati sembravamo un commando di militari in azione, non percorrendo la strada ma tagliando sul campo e schiacciando al nostro passaggio le spighe che di lì a qualche giorno una trebbiatrice prenotata già da tempo, essendo una delle poche della provincia di Nuoro, avrebbe trasformato in foraggio per le mucche.
Allora non c’erano turisti, se non qualche tedesco o svizzero che piazzava la tenda sulle dune, tra i ginepri e la spiaggia era frequentata solo dalle famiglie dei coloni, che stazionavano rigorosamente in linea con il proprio podere.
Nell’intero spazio della salina, circuito dove i miei zii impararono a guidare auto e trattori ed in cui ognuno di noi imparò in seguito a guidare e a fare i testacoda, c’era solo la Fiat 500 di mia zia che ci invitava a nozze con quella capote così poco aderente…
E’ così, che con le gambe immerse nel fango catturammo tanti granchi, animali di cui zia Luisa aveva un’immensa paura, e li infilammo attraverso la capote nell’abitacolo, ne appendemmo parecchi anche sui tergicristallo, per rendere l’idea.
Non uno, non due ma a decine e per ogni granchio che faceva l’ingresso nell’auto noi esultavamo con gioia per quella vendetta che ormai stavamo assaporando, consapevoli della nostra forza e del rispetto che meritavamo.
A quanto pare su, nella casa colonica, il profumo intenso del pane appena cotto si era mescolato con le urla delle nostre mamme che ci cercavano e che piano piano si intensificava trasformandosi prima in apprensione e poi in terrore.
A quei tempi nonostante passassimo le giornate a correre e giocare per tutta quella campagna non ricordo di aver mai visto l’uomo nero, no, quello era sempre presente nei miei incubi ma nella realtà non esisteva, e nessuno sconosciuto ci offrì mai caramelle.
Peccato, perché dopo aver fatto colazione con pane, lardo e formaggio insieme a nonno non avremmo rifiutato un po’ di dolcezza.
Mentre mia nonna risistemava tutto nella casa del pane cadenzando i suoi movimenti con le preghiere, mia madre e mia zia, stanche morte dopo una giornata di duro lavoro, si spinsero sempre più giù urlando i nostri nomi, seguite da mio zio sulla sua Vespa.
E in quella salina ampia e deserta non ci volle tanto a scorgerci in flagranza di vendetta e tutta la nostra potenza e la nostra cattiveria svanirono in un istante, soprafatte dalla paura e dal tremore.
C’è da dire che zia Luisa era una persona molto cara, così come lo è tuttora, e in famiglia nessuno avrebbe sopportato che le fosse torto un cappello e vederci compiere quell’azione, destò sentimenti contrastanti negli adulti. Se da un lato provarono vergogna e disonore per le nostre azioni, dall’altro ebbero conforto nel vederci così forti, allegri, nonostante delinquenti , ma illesi, salvi da indicibili pericoli. Purtroppo per noi le discrepanze dei loro sentimenti si unirono e rinvigorite dalla stanchezza, dalla rabbia, dal sollievo e dall’infamia convogliarono ed esplosero in una serie decisa di colpi sui nostri fragili e colpevoli corpi.
Rientrammo verso la casa dei miei nonni in processione, non silenziosa ma urlante e piangente: mio zio seduto sulla sua Vespa con una mano sul manubrio mentre con l’altra picchiava forte sulla schiena di Alberto, col capo chino ed avvilito ma sempre consapevole che la sua corazza non avrebbe permesso di far entrare alcun dolore nel suo cuore e che l’indomani non avrebbe faticato a far esprimere la sua infinita fantasia.
Mia zia pensava a mettere in rigo l’altro mio cugino, Francolino, talmente biondo da sembrare tedesco, che neanche a farlo apposta da adulto ha trovato felicemente casa e donna in Germania e che quando lo sento mi chiede sempre “ E non ti ricordi di quella volta che…”; insomma oggi c’è materiale per scrivere un libro mentre ai tempi ci sarebbe stato un faldone per gli assistenti sociali.
Ma mi sto dilungando, forse per non raccontarvi cosa successe a me e mio fratello.
Bhè…mia madre, donna forte ed imponente dedicò con furore una mano ciascuno: mio fratello ne uscì senza segni mentre io rimasi tutta livida, con i segni delle sue mani, quelle così amorevoli che preparavano dolci deliziosi e piatti prelibati, che mi facevano con passione le treccine ogni mattina e dedicavano tanto amore a noi tutti, insomma proprio quelle mani io le ebbi tatuate per giorni sulle braccia. Fortunata, eh? E tutto gratuitamente, perché se c’è qualcuno che oggi si fa tatuare sulla pelle la parola MAMMA io ebbi il regalo di avere le sue impronta, belle nitide, su entrambe le braccia. Tanto ben tatuate che una volta tornata in paese uscivo con una giacchina gialla traforata a coprire il mio fallimento mentre giocavo con le mie compagne di vicinato a paradiso, abitando noi di fronte al marmista che ci regalava pietre di ogni forgia e misura ed essendo quindi campionesse paesane della disciplina. E alla domanda di una mia compagna di giochi che mi chiedeva come mai avessi quella giacchina nonostante il caldo, io grondante sudore, rispondevo: “Sento freddo!”
Era giugno, un giugno di quarant’anni fa, e le scuole con nostra grande gioia erano finite e mentre mia madre, mia zia e mia nonna facevano il pane io, mio fratello ed i miei cugini riprendevamo fiato dopo aver combinato qualcosa di poco nobile in lungo ed in largo per la borgata, seduti all’ombra sui gradini della cucina della grande casa colonica.
L’aria era calda e portava ovunque il profumo del lentisco bruciato, con cui mio nonno faceva delle scope per pulire la camera del forno prima di riporre i pani che si sarebbero gonfiati come palloni ed il battere ritmico dei mattarelli sul legno dei tavoli ci faceva capire che le donne avrebbero avuto ancora tanto da lavorare.
Stavamo confabulando sul da fare con le nuove fionde che avevamo preparato quando ci passò davanti la Fiat 500 celeste di mia zia, anzi a dire il vero mia prozia, la sorella più piccola di mia nonna, che faceva la maestra elementare e quindi anche lei già in vacanza. Con lei c’erano mia sorella maggiore, mia zia della sua stessa età e mia cugina e stavano scendendo verso il mare. Ricordo che in quel momento mi sentìì isolata ed offesa: perché non ero stata invitata? Ed è allora, in risposta al mio disappunto per l’onta subìta che mio cugino Alberto, il mio primo fidanzatino con cui feci insieme la Prima Comunione, documentata con una fotografia in cui sembriamo due sposi bambini, promise di vendicarmi.
Decidemmo così di avviarci anche noi verso la spiaggia: sapevamo già come reagire perché conoscevamo bene le paure di nostra zia, Luisa, e lì nella salina ancora melmosa avremmo trovato la materia prima.
Attraversammo tutto il podere dei miei nonni con una certa urgenza, più che bambini spensierati sembravamo un commando di militari in azione, non percorrendo la strada ma tagliando sul campo e schiacciando al nostro passaggio le spighe che di lì a qualche giorno una trebbiatrice prenotata già da tempo, essendo una delle poche della provincia di Nuoro, avrebbe trasformato in foraggio per le mucche.
Allora non c’erano turisti, se non qualche tedesco o svizzero che piazzava la tenda sulle dune, tra i ginepri e la spiaggia era frequentata solo dalle famiglie dei coloni, che stazionavano rigorosamente in linea con il proprio podere.
Nell’intero spazio della salina, circuito dove i miei zii impararono a guidare auto e trattori ed in cui ognuno di noi imparò in seguito a guidare e a fare i testacoda, c’era solo la Fiat 500 di mia zia che ci invitava a nozze con quella capote così poco aderente…
E’ così, che con le gambe immerse nel fango catturammo tanti granchi, animali di cui zia Luisa aveva un’immensa paura, e li infilammo attraverso la capote nell’abitacolo, ne appendemmo parecchi anche sui tergicristallo, per rendere l’idea.
Non uno, non due ma a decine e per ogni granchio che faceva l’ingresso nell’auto noi esultavamo con gioia per quella vendetta che ormai stavamo assaporando, consapevoli della nostra forza e del rispetto che meritavamo.
A quanto pare su, nella casa colonica, il profumo intenso del pane appena cotto si era mescolato con le urla delle nostre mamme che ci cercavano e che piano piano si intensificava trasformandosi prima in apprensione e poi in terrore.
A quei tempi nonostante passassimo le giornate a correre e giocare per tutta quella campagna non ricordo di aver mai visto l’uomo nero, no, quello era sempre presente nei miei incubi ma nella realtà non esisteva, e nessuno sconosciuto ci offrì mai caramelle.
Peccato, perché dopo aver fatto colazione con pane, lardo e formaggio insieme a nonno non avremmo rifiutato un po’ di dolcezza.
Mentre mia nonna risistemava tutto nella casa del pane cadenzando i suoi movimenti con le preghiere, mia madre e mia zia, stanche morte dopo una giornata di duro lavoro, si spinsero sempre più giù urlando i nostri nomi, seguite da mio zio sulla sua Vespa.
E in quella salina ampia e deserta non ci volle tanto a scorgerci in flagranza di vendetta e tutta la nostra potenza e la nostra cattiveria svanirono in un istante, soprafatte dalla paura e dal tremore.
C’è da dire che zia Luisa era una persona molto cara, così come lo è tuttora, e in famiglia nessuno avrebbe sopportato che le fosse torto un cappello e vederci compiere quell’azione, destò sentimenti contrastanti negli adulti. Se da un lato provarono vergogna e disonore per le nostre azioni, dall’altro ebbero conforto nel vederci così forti, allegri, nonostante delinquenti , ma illesi, salvi da indicibili pericoli. Purtroppo per noi le discrepanze dei loro sentimenti si unirono e rinvigorite dalla stanchezza, dalla rabbia, dal sollievo e dall’infamia convogliarono ed esplosero in una serie decisa di colpi sui nostri fragili e colpevoli corpi.
Rientrammo verso la casa dei miei nonni in processione, non silenziosa ma urlante e piangente: mio zio seduto sulla sua Vespa con una mano sul manubrio mentre con l’altra picchiava forte sulla schiena di Alberto, col capo chino ed avvilito ma sempre consapevole che la sua corazza non avrebbe permesso di far entrare alcun dolore nel suo cuore e che l’indomani non avrebbe faticato a far esprimere la sua infinita fantasia.
Mia zia pensava a mettere in rigo l’altro mio cugino, Francolino, talmente biondo da sembrare tedesco, che neanche a farlo apposta da adulto ha trovato felicemente casa e donna in Germania e che quando lo sento mi chiede sempre “ E non ti ricordi di quella volta che…”; insomma oggi c’è materiale per scrivere un libro mentre ai tempi ci sarebbe stato un faldone per gli assistenti sociali.
Ma mi sto dilungando, forse per non raccontarvi cosa successe a me e mio fratello.
Bhè…mia madre, donna forte ed imponente dedicò con furore una mano ciascuno: mio fratello ne uscì senza segni mentre io rimasi tutta livida, con i segni delle sue mani, quelle così amorevoli che preparavano dolci deliziosi e piatti prelibati, che mi facevano con passione le treccine ogni mattina e dedicavano tanto amore a noi tutti, insomma proprio quelle mani io le ebbi tatuate per giorni sulle braccia. Fortunata, eh? E tutto gratuitamente, perché se c’è qualcuno che oggi si fa tatuare sulla pelle la parola MAMMA io ebbi il regalo di avere le sue impronta, belle nitide, su entrambe le braccia. Tanto ben tatuate che una volta tornata in paese uscivo con una giacchina gialla traforata a coprire il mio fallimento mentre giocavo con le mie compagne di vicinato a paradiso, abitando noi di fronte al marmista che ci regalava pietre di ogni forgia e misura ed essendo quindi campionesse paesane della disciplina. E alla domanda di una mia compagna di giochi che mi chiedeva come mai avessi quella giacchina nonostante il caldo, io grondante sudore, rispondevo: “Sento freddo!”
Tutti i riferimenti a fatti e persone sono reali: mia nonna prega altrove, mio nonno sa come profumare il cielo con il lentisco, mio zio guida la Vespa ma forse non tra le nuvole perchè era comunista, mentre gli altri ci siamo tutti a ricordare, chiudendo gli occhi e con un sorriso vagando ogni tanto all’indietro per capire dove andare.
Millina Spina, 12 Febbraio 2016
Racconto scritto il 12/02/2016 - 22:19
Letta n.1108 volte.
Voto: | su 3 votanti |
Commenti
Cara Milly, sono felice del tempo che mi hai dedicato e per le emozioni che il mio racconto ti ha suscitato.
Qui in Sardegna nonostante i numerosi agglomerati di case che si riempiono per un solo mese all'anno, rimangono vasti spazi su cui continuare a correre, giocare e sognare. Ma vedo pochi adulti impegnati a costruire i ricordi dei loro figli vivendo e studiando questi spazi.
Grazie per i tuoi complimenti!
Qui in Sardegna nonostante i numerosi agglomerati di case che si riempiono per un solo mese all'anno, rimangono vasti spazi su cui continuare a correre, giocare e sognare. Ma vedo pochi adulti impegnati a costruire i ricordi dei loro figli vivendo e studiando questi spazi.
Grazie per i tuoi complimenti!
Millina Spina 14/02/2016 - 00:40
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Cara Millina che bello ricordare il passato e la nostra infanzia.
Anche a me capita (come chissà a quanti) di ricordare il passato e i profumi che si riescono a percepire con i ricordi.
Poi chiudiamo gli occhi e vediamo immensi prati verdi mentre ora? Il mio paese "Cesano Boscone" non ha più molti spazi verdi mentre quando ero piccina vi lascio immaginare solo dal nome.
Ma i nostri figli non percepiscono questa sensibilità nei ricordi purtroppo.
***** tutte per te! Sei stata bravissima nella stesura. Sei una grande cara Millina.
Buona serata
Anche a me capita (come chissà a quanti) di ricordare il passato e i profumi che si riescono a percepire con i ricordi.
Poi chiudiamo gli occhi e vediamo immensi prati verdi mentre ora? Il mio paese "Cesano Boscone" non ha più molti spazi verdi mentre quando ero piccina vi lascio immaginare solo dal nome.
Ma i nostri figli non percepiscono questa sensibilità nei ricordi purtroppo.
***** tutte per te! Sei stata bravissima nella stesura. Sei una grande cara Millina.
Buona serata
Milly Barattieri 13/02/2016 - 23:33
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Grazie di cuore Ugo!
Buona serata.
Buona serata.
Millina Spina 13/02/2016 - 20:51
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Grazie Antonio Girardi per il tuo passaggio e per aver espresso i tuoi ricordi sereni nella mia terra.
Ti prego di non risentirti, ma la parola "porceddu" in Sardegna non esiste: è un'invenzione di voi continentali.
Quella più diffusa è "su porcheddu" ma si possono trovare altri termini in base alla regione.
Grazie ancora e a menzus bidere!
Ti prego di non risentirti, ma la parola "porceddu" in Sardegna non esiste: è un'invenzione di voi continentali.
Quella più diffusa è "su porcheddu" ma si possono trovare altri termini in base alla regione.
Grazie ancora e a menzus bidere!
Millina Spina 13/02/2016 - 20:49
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Storie di vita giovanile che attraggono e ci riportano indietro con gli anni. Narrazione gradevole, capace e corretta.
Ugo Mastrogiovanni 13/02/2016 - 18:21
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Bello.complimenti.e poi la Sardegna. Quanti viaggi ho fatto in quella splendida terra.mi hai fatto venire in mente i pranzi con i pastori a orgosolo a base di porceddu e vino cannona.chissà quando potrò tornarci.il tuo racconto mi ha inondato di profumi bucolico che ho onorato tanti anni fa.un caldo saluto.mi hai dato lo spunto per un mio 9rossimo racconto.
antonio girardi 13/02/2016 - 18:02
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Caro Salvo, ebbene sì, i miei racconti sono intrisi di nostalgia anche per quel coraggio e quell'incoscienza propria dei bambini e per quei momenti e quegli sguardi che forse troppo fugacemente ho vissuto, ingorda di vita com'ero.
La casa colonica dei miei nonni è stata teatro di tante avventure, ben più avvincenti di quelle vissute in paese e sto preparando nuovi capitoli...
Grazie infinite!
La casa colonica dei miei nonni è stata teatro di tante avventure, ben più avvincenti di quelle vissute in paese e sto preparando nuovi capitoli...
Grazie infinite!
Millina Spina 13/02/2016 - 14:21
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Grande Millina,
storie di vita vera che mi inteneriscono.Eh sì, non ci crederai, ma il mio cuore batte forte per queste ragazzate, o marachelle che dir si voglia.Una storia vera raccontata con bravura e con l'aggiunta della sentita partecipazione dell'autrice che rimpiange i tempi, il tatuaggio, la vespa e il fidanzatino, le zie, l'aria che si respirava e, forse, anche quel pane gonfio come pallone del caro nonno.
storie di vita vera che mi inteneriscono.Eh sì, non ci crederai, ma il mio cuore batte forte per queste ragazzate, o marachelle che dir si voglia.Una storia vera raccontata con bravura e con l'aggiunta della sentita partecipazione dell'autrice che rimpiange i tempi, il tatuaggio, la vespa e il fidanzatino, le zie, l'aria che si respirava e, forse, anche quel pane gonfio come pallone del caro nonno.
salvo bonafè 13/02/2016 - 13:53
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Ciao Gennarino, sì i luoghi sono splendidi ma come ogni luogo oltre alle rose ha anche le spine (?).
Il Cannonau lo beveva nonno a colazione, noi eravamo ancora bambini e lo abbiamo scoperto dopo, recuperando il tempo perduto.
Grassias e a menzus bidere!
Il Cannonau lo beveva nonno a colazione, noi eravamo ancora bambini e lo abbiamo scoperto dopo, recuperando il tempo perduto.
Grassias e a menzus bidere!
Millina Spina 13/02/2016 - 12:04
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Grazie Francesco per aver letto questo mio pezzo di vita agreste. La passione è dettata dai ricordi e profumi indelebili della mia storia.
Ciao!
Ciao!
Millina Spina 13/02/2016 - 12:01
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bello, piaciuto molto...vorrei essere nato in quei luoghi, tra la terra e il mare...chissà che bello. Ho sentito il profumo di pane, l'odore pungente del lentisco, chissà che bontà pane caldo e lardo tagliato fino fino, e formaggio, magari con un buon Cannonau...( ho fatto il militare a sassari prima e Cagliari dopo...ricordo L cavalcata sarda ed i vini....ahahhaha)...5 stelle, anche il mio acrostico parla della tua terra, è pronto, aspetta il tuo turno e lo leggerai, martedì credo....ahahahahha...un saluto sardo..."A si biri"
Gennarino Ammore 13/02/2016 - 08:43
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Un bellissimo autobiografico, denso, minuzioso, carico di sentimento, scritto benissimo. Si vede che hai dedicato passione nella stesura e il risultato si vede... Complimenti vivissimi
Francesco Gentile 13/02/2016 - 08:31
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