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Il caso del cammello zoppo

«Una notte un uomo si svegliò in mezzo al deserto, senza sapere quanto aveva camminato, né perché. La luna illuminava la sabbia e intorno a lui non vide né orme né anima viva ad eccezione di un cammello che si allontanava zoppicando… Cosa ne dice amico mio, quali deduzioni riesce a trarre da questa insolita situazione?»
Alto, magro, lo sguardo vivace, i modi misurati e decisi, il mio amico Sherlock Holmes pareva divertito. La nostra ennesima discussione sui limiti del metodo deduttivo si protraeva da oltre un’ora e la situazione che avevo appena creato, doveva servire ad avvalorare la mia tesi: esistono enigmi che non possono essere risolti alla luce della sola logica applicata a quanto è dato di osservare.
Holmes stava accendendo la pipa con la solita lentezza, un espediente, come avevo imparato, per dare tempo al suo meraviglioso cervello di classificare le informazioni, organizzarle e trarne conclusioni fuori dalla portata della maggioranza delle menti umane.
Io ne approfittai per alzarmi dalla poltrona e avvicinarmi alla finestra: avevo udito il rumore di una carrozza che in Baker Street pareva essersi fermata proprio davanti alla nostra casa.
Guardai verso la strada e vidi effettivamente una carrozza ripartire; alla luce delle due lanterne davanti alla porta potei scorgere un uomo che si guardava intorno con aria un poco incerta.
La voce di Holmes distolse la mia attenzione: «In fondo è elementare, caro Watson, la cosa è molto chiara.» Ero davvero curioso di sentire le conclusioni di Holmes: io stesso, che pure avevo inventato la situazione, non avevo la minima idea circa una possibile risposta, ma il mio amico fu interrotto da un ripetuto bussare al portoncino d'ingresso.
Scesi le scale non senza essermi assicurato di avere in tasca il mio revolver. Troppi nemici si era fatto Holmes per trascurare questa precauzione.
Aprii tenendo la mano in tasca, ben stretta sulla mia arma, e mi trovai davanti una persona d'aspetto francamente insolito ma, almeno così mi parve, per nulla minaccioso.
L’uomo, un giovane sulla trentina dal volto glabro, indossava abiti leggeri di foggia strana, certamente inadatti al clima di quella notte d'inverno, inoltre appariva trasandato in tutta la sua persona e portava sul naso un paio di spessi occhiali con una montatura insolita. Nella mano sinistra reggeva quella che pareva essere una grossa borsa da viaggio.
«Il dottor Watson, suppongo?» Notai il suo perfetto accento di Oxford.
«Sì signore, ma non credo di averla mai incontrata prima. Lei è...?»
«Il mio nome non ha importanza al momento. Ho grande urgenza di parlare col signor Holmes per una questione che di sicuro lo interesserà molto.»
Anch'io ero curioso di saperne di più su quello strano personaggio, così lo accompagnai nello studio dove lo sconosciuto, trascurando ogni regola di buona creanza, si rivolse immediatamente al mio amico che da parte sua, ne ero certo, aveva già iniziato a studiarne attentamente l'aspetto e il comportamento.
«Signor Holmes, io sto per raccontarle una storia incredibile, ma prima di giudicarmi pazzo mi lasci finire, poi potrà farmi tutte le domande che vorrà.»
«La prego signore, si sieda e vada avanti, io non do mai giudizi affrettati e soprattutto non mi baso su sensazioni personali. Solo i fatti e le loro connessioni m’interessano.»
Holmes tirò una boccata dalla sua pipa, disponendosi ad ascoltare con attenzione.
«Signor Holmes, ho la certezza che qui a Londra stia per essere commesso uno spaventoso delitto. So chi saranno le vittime, ma non conosco le modalità dell'uccisione né chi sia l’assassino.»
Holmes si limitò a guardarlo con interesse, ma non fece domande. Il giovane si sentì incoraggiato a continuare.
«Ci sono due cose che per il momento le chiedo di accettare senza spiegazioni: le vittime scompariranno intorno alla mezzanotte del 5 Febbraio. La seconda è che la polizia non si occuperà della loro sparizione e sarà inutile cercare documenti ufficiali relativi a quelle persone: sarà come se non fossero mai esistite, salvo per un particolare che le svelerò in seguito.» Il suo sguardo cadde istintivamente sul borsone che aveva appoggiato sul pavimento, accanto a sé.
Vi fu una pausa mentre Holmes, imperturbabile, emetteva una nuvoletta di fumo. Il mio amico si prese ancora il tempo di vuotare con estrema attenzione la sua pipa in un bel posacenere di onice così io sentii il bisogno di riempire quel silenzio:
«E voi conoscete l'identità delle vittime?»
«Certamente, si tratta di un famoso Baronetto, di una principessa indiana sua consorte e del loro devoto servitore francese. Inoltre temo per la vita anche di un noto investigatore e del suo amico e cronista. I loro nomi…»
«… i loro nomi a questo punto non sono un segreto» lo interruppe Holmes, «e se ci pensa un istante, pure il mio amico Watson non avrà dubbi, dico bene dottore?»
In realtà mi era chiaro solo il riferimento all’investigatore e al suo amico. La cosa stava prendendo una piega che non mi piaceva per nulla, così mi limitai a un vago cenno d’assenso. Holmes sorrise e si rivolse di nuovo allo sconosciuto:
«Credo che ora ci dobbiate qualche spiegazione, a iniziare dal vostro nome, ma prima vediamo quanto io sia riuscito a capire. La sto osservando da quando è entrato. Lei è certamente una persona di cultura, che legge e scrive molto. Vedo che porta un paio di occhiali molto interessanti, la montatura mi è sconosciuta e le lenti... potrei osservarle da vicino, per favore?». Avuto tra le mani l'oggetto, Holmes lo esaminò con cura e poi lo restituì.
«Come sospettavo, non sono di cristallo, sono troppo leggere e non sono fredde al tatto, quindi è un materiale più tenero e di natura diversa, come le ha avute?»
«Glielo dirò dopo, se non le spiace, ma è solo un dettaglio.»
Holmes annuì e proseguì il discorso: «Il suo polsino destro è macchiato d’inchiostro di tre diversi colori, il che mi fa pensare a uno scienziato che scrive delle relazioni corredate da grafici. Per restare nella cultura, lei parla con un impeccabile accento di Oxford, ma usa alcune espressioni con un significato leggermente diverso del solito. Ho notato pure le sue scarpe: seppure in condizioni di pulizia francamente deplorevoli, hanno lo stile inconfondibile di Spencer & Oldford in Carver Street. Ma questo specifico modello non compare nel loro catalogo, ne sono certo perché il mio amico qui presente si serve da loro ed io lo ho accompagnato spesso per aiutarlo nella scelta. Il resto del suo abbigliamento poi appare sicuramente eccentrico, oltre che del tutto inadeguato al clima di questo periodo. Un’altra cosa interessante è quella borsa.» Indicò con la pipa l'oggetto «Pare fatta di pelle scura, ma osservando quei graffi profondi ho notato che il materiale sottostante è di colore diverso, inoltre il reticolo delle piccole rughe, sebbene ben imitato, è troppo regolare per essere naturale. Quindi, come le lenti, anche la borsa è fatta di un materiale che non conosco e, per quanto ne so, non esistente in natura.»
«E' vero, signor Holmes, si chiama "pelle sintetica" ed è realizzata con i derivati del petrolio.»
«Molto interessante, e questo rafforza le mie conclusioni. Ed ecco i fatti: lei dunque è uno scienziato, usa oggetti costruiti con materiali sconosciuti, parla un inglese insolito e ha comprato da Spencer & Oldford un modello di scarpa mai prodotto. Inoltre è venuto a parlarmi di un delitto che ancora non si è compiuto.
Vede, come ben sa il mio amico Watson io ho una mia regola ferrea: quando hai eliminato l'impossibile, qualsiasi cosa resti, per quanto improbabile, deve essere la verità. In questo caso una sola conclusione si accorda con i fatti.»
Una certa teatralità fa parte del carattere di Holmes e, infatti, si prese qualche secondo di tempo per completare il suo ragionamento.
«Lei, caro signore, pretende di provenire dal futuro e, pur apparendo tutto ciò abbastanza folle, io sono incline a prestarle fede.»
Io guardai il mio amico chiedendomi se avesse esagerato con l’ultima dose di cocaina, ma lo sconosciuto mi sorprese ancora di più:
«Signor Holmes, i miei complimenti: è tutto esatto o quasi, io sono uno scienziato. Non provengo dal futuro ma ho compiuto alcuni viaggi nel tempo a bordo di una macchina di mia invenzione ed è durante uno di questi viaggi che ho appreso dell’imminente delitto, oltre che essermi procurato questi oggetti che l’hanno messa sulla pista giusta.»
Io avevo fatto un balzo sulla poltrona. Il viaggio nel tempo? La mia mente scientifica si ribellava alla stessa idea, si trattava di un’assurdità bella e buona ed ero stupito che Sherlock, così razionale, stesse dando peso alle parole di un folle o di un impostore dagli scopi poco chiari.
Non mi potei trattenere: «Ammesso che sia tutto vero, perché si è rivolto al signor Holmes? Non poteva semplicemente salire sulla sua macchina e farsi portare sul luogo e sul momento del delitto in modo da impedirlo?»
«Lei ha ragione, ma sfortunatamente… ha certo letto sul Times dell’incendio che ieri sera è scoppiato in periferia, verso Greenwich. Ebbene la mia macchina del tempo ha avuto un qualche guasto e ha dato fuoco alla mia casa, al mio laboratorio e agli appunti che vi tenevo. Temo che passeranno anni prima che io possa costruirne un’altra».
Holmes di sicuro aveva notato la mia espressione scettica, ma si rivolse allo sconosciuto ignorandomi completamente mentre traeva dalla tasca il suo orologio.
«Dunque, visto che siamo vicini alla mezzanotte del 3 di Febbraio, occorre agire in fretta per evitare che questi delitti siano compiuti. Ho già in mente quale sarà la nostra prima mossa.»


Due sere dopo, lo sconosciuto, Holmes, io stesso e una quarta persona ci trovavamo in un salottino riservato del Reform Club, uno dei più esclusivi di Londra.
A prima vista poteva sembrare un normale incontro serale tra gentiluomini: eravamo seduti su comode poltrone di pelle e presto fummo avvolti da una nebbiolina di fumo azzurrognolo; davanti a noi, i bicchieri di ottimo brandy mandavano riflessi ambrati alla luce di un lampadario di cristallo e della fiamma di un caminetto.
Io e Holmes eravamo seduti ai lati opposti del tavolino. Alla mia destra stava un uomo alto e di aspetto nobile. Era il più anziano del gruppo, oltre a essere socio del club. Vestiva uno smoking impeccabile e fumava un costoso sigaro. La corporatura era appesantita dagli anni e dall’inattività. Il suo nome era Phileas Fogg. Da molto tempo si era ritirato nella sua casa di Saville Row in compagnia della moglie Aouda, una bellissima principessa indiana di molti anni più giovane. Entrambi erano accuditi da Passepartout, un servitore francese che diciannove anni prima aveva accompagnato Fogg nell’impresa che lo aveva reso famoso: per una scommessa di ventimila sterline portò a termine, tra l’ottobre e il dicembre 1872, il giro del mondo in soli ottanta giorni, tra inconvenienti e pericoli di ogni genere. In cambio, oltre al denaro, ne ricavò il titolo di Baronetto e la moglie Aouda, incontrata in India in circostanze drammatiche.
L’ultimo membro del gruppo era il più giovane e col suo abbigliamento trasandato e il fare impacciato pareva francamente fuori posto. Ci aveva appena rivelato il suo nome, George, affermando curiosamente che il suo vero cognome era sconosciuto persino a lui stesso. Ci stava esponendo la ragione delle sue preoccupazioni:
«… e così, entrai in una biblioteca, o dovrei dire entrerò, visto che mi trovavo nel 2012, e per pura curiosità mi misi a fare una ricerca su Londra all’epoca della mia partenza, cioè tra due giorni. Benché la documentazione fosse esaustiva e trattasse anche di persone di minor spicco, non trovai traccia di lei, Sir Fogg, della sua famiglia e della sua impresa. Così come le testimonianze sulle vostre avventure, signor Holmes e dottor Watson, si fermavano misteriosamente alla data di domani.» George aveva portato con sé la sua borsa, si chinò e ne estrasse due libri. «Guardate i titoli: “Uno studio in rosso” e questo: “Il segno dei quattro”. Li ricorderete di certo, entrambi narrano di vostre imprese; ebbene, questi libri sono stati pubblicati prima di oggi. Dopo, per quanto abbia cercato, più nulla.»
Holmes pareva impassibile. Guardò il suo orologio e prese la parola.
«Come le ho già spiegato, Sir Fogg, io ritengo attendibile quanto ci racconta il nostro George. Ma sapremo presto la verità: sono le 23 e le date che egli ci ha fornito mi fanno ritenere che il potenziale omicida sarà qui entro pochi minuti.»
Con un effetto teatralmente impeccabile, proprio in quel momento si udì bussare alla porta del salottino.
Io impugnai il revolver e Holmes fece un silenzioso gesto di assenso a sir Fogg: «Avanti» disse quest'ultimo a voce alta.
Entrò un cameriere recando un vassoio sul quale era posato un biglietto da visita
«Questo signore chiede di vederla, Sir.»
Phileas Fogg lesse ad alta voce:
«Jules Verne, scrittore. Lo faccia entrare per favore.»
«Metta via quell’arma,» mi ordinò Holmes, «credo non sia necessaria.»
«Buonasera, mi chiamo Jules Verne, sir Phileas Fogg, suppongo?»
Furono fatte le presentazioni, poi il signor Verne aprì una borsa e ne estrasse un manoscritto rilegato in cartoncino bianco: «Questo è il manoscritto originale di un mio romanzo. Prego, osservate il titolo» e così dicendo lo sollevò in modo che tutti lo potessimo vedere.
Il primo a leggerlo ad alta voce fu Holmes che non seppe trattenere un moto di sorpresa «"Il giro del mondo in ottanta giorni"! Esso tratta per caso dell'impresa compiuta anni orsono dal nostro sir Phileas Fogg?»
«No signore. Esso non "tratta" di quell'impresa: esso "è" quell'impresa. Tutto ciò che avvenne, tutte le persone che ne sono state coinvolte, dal buon Passepartout alla principessa Aouda, dallo stupido poliziotto Fix agli acrobati cinesi, tutto questo vive perchè io l'ho scritto. Anche lei, signor Holmes ha certo un Autore, e lei professor George, il suo Autore io l’ho conosciuto, si chiama Herbert George Wells; pure lei dottore, voi tutti vivete perché qualcuno vi ha creati e vi ha fatto come siete. Forse anch’io, tutti siamo qui perché un Autore ha scritto qualcosa dove noi recitiamo una parte, da protagonisti o magari solo da comprimari che vivono in una riga e poi svaniscono.»
Il silenzio era rotto solo dal crepitare del camino.
Il signor Verne abbassò il libro, guardò negli occhi Phileas Fogg che era rimasto come impietrito e gli parlò con una vena di vero dolore nella voce «E lei, mia creatura, è il protagonista di una storia che ho deciso di non pubblicare, il romanzo che ho scritto mi ha deluso. Dopo averlo riletto e dopo aver meditato a lungo ho deciso che non merita di essere dato alle stampe.»
Holmes, visto che Sir Fogg non sembrava in grado di replicare, intervenne bruscamente: «Lei non ha diritto di fare questo, signor Verne!»
«Certo che ne ho il diritto: io ho creato quei personaggi e solo io posso decidere se essi debbano vivere o morire.»
«Qui si sconfina nella filosofia, signor Verne. Ma io sono fermamente convinto che né lei né nessun altro abbia il diritto di decidere della vita di un uomo, un uomo badi bene, non un personaggio, una volta che questi sia stato messo al mondo. Del resto anche lei deve avere dei dubbi, se no perchè sarebbe venuto sino a Londra per comunicare a Sir Fogg questo gesto? Non poteva semplicemente distruggere il manoscritto nella sua casa di Parigi?»
Verne abbandonò l'atteggiamento aggressivo, fece un gesto come di rassegnazione e si sedette. Anche gli altri presero posto nelle poltrone, compreso Sir Fogg che non pareva essersi del tutto ripreso dalla sorpresa e dal terrore che dovevano averlo sopraffatto pochi istanti prima.
«Ha ragione signor Holmes. Io avevo dei dubbi, e prima di compiere quel gesto definitivo sono voluto venire qua, al Reform Club, per capire sino a che punto avrei potuto spingermi nella mia pretesa di essere un dio, padrone della vita e della morte di coloro che ho creato. Ora che ho conosciuto Phileas Fogg…»
Verne non completò la frase. Rimise la sua opera nella borsa e uscì quasi correndo. Nessuno di noi fece un gesto per tentare di fermarlo.
Più tardi il mio amico ed io scambiammo qualche parola sulla carrozza che ci stava riportando in Baker Street.
«Una serata da non dimenticare, mio caro Holmes. Se non fossi stato presente mi rifiuterei di credere a ciò che è accaduto. Ma mi dica, pensa che il signor Verne una volta tornato a Parigi tornerà sulla sua decisione?»
Holmes pareva assente, lo sguardo fisso fuori dal finestrino, e non parlò sino a quando fummo scesi davanti al portone di casa. La luce delle due lanterne, nella nebbia che avvolgeva tutta Londra, era solo un alone giallastro e il mio amico pareva avere il viso dello stesso colore quando sussurrò alcune parole che io ricorderò per sempre.
«La mia mente razionale non ha una risposta a tutte le domande che quest’avventura ha fatto sorgere. Una su tutte: possiamo noi cambiare un futuro già scritto? Ma il quesito principale è un altro, caro Watson, ed è molto più inquietante del cammello zoppo di cui mi parlava due giorni fa: mi sto chiedendo chi sia il nostro autore e se i racconti che sta scrivendo siano degni di essere pubblicati.»


Il dottor Arthur Conan-Doyle finì di rileggere il manoscritto.
Era profondamente irritato. Il suo editore insisteva perché scrivesse ancora racconti polizieschi con Sherlock Holmes. Quel dannato investigatore saccente! Accidenti al momento in cui lo aveva ideato, ne era diventato schiavo e i risultati erano questi: un racconto raffazzonato, senza né capo né coda e quell’incipit: “Una notte un uomo si svegliò in mezzo al deserto…” e poi il cammello zoppo. Ma perbacco, non c’entra proprio col racconto!
Con un gesto di stizza prese il manoscritto e lo gettò nel camino acceso.
Placato, si sedette ancora alla scrivania, tirò fuori un altro manoscritto cui stava lavorando, in quel caso con molta soddisfazione, impugnò la penna e tracciò una riga sulla prima pagina, sopra il titolo che recitava “Autobiografia”.
Con un ghigno sulle labbra scrisse il nuovo titolo: “Ucciderò Sherlock Holmes”.


NdA:- La prima riga dell'incipit è tratta da un romanzo di S. Benni.
- Per i due lettori che non lo ricordassero,“Ucciderò Sherlock Holmes” è il titolo reale dell’autobiografia di A. Conan Doyle




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Racconto scritto il 09/05/2016 - 18:22
Da mario malgieri
Letta n.1194 volte.
Voto:
su 1 votanti


Commenti


La solita maestria che questa volta ci conduce nell'elaborata storia fantastica sulla genesi di un romanzo. Sembra quasi una dotta recensione. Buona serata.

salvo bonafè 10/05/2016 - 19:08

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Patrizia, grazie per il commento e per la mirabile sintesi, meglio di tante parole

mario malgieri 10/05/2016 - 15:46

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fantastico!!

patrizia brogi 10/05/2016 - 12:07

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