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L'immortale Terza parte

Come ulteriore precauzione, ultimato il
tetto con tegole di legno, lo coprii di un leggero strato di terra su
cui adagiai delle zolle di terra ed erba sperando che attecchissero.
Allargai la "cintura" delle mine antiuomo ad oltre 500
metri di raggio dalla casa stessa e circa dieci metri prima
di ogni mina, misi dei teschi di animali su dei pali, come a dire,
vai avanti a tuo rischio e pericolo. Giusto per un residuo di un
piccolissimo scrupolo. In prossimità del torrente più a valle
trovai delle specie di bambù, delle grosse canne di palude, ma
molto grosse; me ne feci bicchieri e contenitori di tutti i tipi,
ma anche tubature per ricevere l'acqua direttamente in
casa dal torrente: fu un impianto decisamente artigianale
e di cui avrei dovuto cambiare diversi pezzi man mano
che si corrodevano le canne, ma vi assicuro che farmi
una vera e propria doccia dopo quattro mesi di quella
vita fu una esperienza esaltante! Ormai ero ben piazzato.
Sotto la piattaforma scavai una cisterna che impermeabilizzai
con muschio, foglie, malta e fieno, in un modo molto rozzo ma
efficace (avevo ancora molti fogli di plastica a disposizione, ma
preferivo usare materiali naturali che reperivo intorno a me); un
piccolo tubo vi portava l'acqua ed un altro ne portava fuori
l'eccesso; avevo così una riserva d'acqua anche in caso di
assedio; chiusi i muri intorno e sotto alla piattaforma con rocce e
rovi secchi e coprii di piantine di rampicanti e di rovi tutta la
base della casa ed altri punti strategici, con la prospettiva di
riuscire in poco tempo a coprirla tutta.
Avevo ormai a disposizione una capanna di tronchi quasi
completamente mimetizzata, e che con la prossima stagione,
e i rovi attecchivano, lo sarebbe stata completamente; con
all'interno un camino di sassi fissati con una maltaccia di fango
e fieno, la cui cappa finiva nella grotta; il fumo si disperdeva
dopo essere passato all'interno della grotta stessa, da tre diverse
uscite, più a monte, ed in modo tale da essere praticamente
invisibile.
Ero perfettamente mimetizzato. Solo chi mi fosse capitato
letteralmente addosso per caso mi avrebbe potuto
vedere. Continuai a cacciare ed a mettere da parte quanta più
selvaggina potevo per affrontare l'inverno: le carni le affumicavo
nella grotta ed avevo visto che si mantenevano bene; avevo
trovato anche varie ricette di cibi da sopravvivenza
in un libro sul ritorno alla natura che avevo comprato anni prima
ma non avevo mai letto seriamente e che mi ero fatto ristampare
dal computer; fra questi la ricetta del "pemmicam", il cibo
invernale degli indiani nordamericani: pesce secco affumicato e
sminuzzato con carne secca; non era granché ma era cibo che
non si rovinava. Il pesce lo pescavo con facilità in uno dei molti
laghetti formati dal torrente più a valle: trovai perfino dei
salmoni. Nei contenitori di canna impermeabilizzati con foglie
aromatiche secche conservavo diversi tipi di marmellate
di bacche; non sapevo quanto sarebbero durate e restate
commestibili ma c'erano buone speranze; le marmellate
le avevo fatte bollendo le bacche dapprima nelle pentole
che avevo portato con me, poi in recipienti di coccio che
mi ero fabbricato da solo quando avevo scoperto della
creta in un'ansa del torrente. Usavo i vasi di vetro che
mi ero portato appresso, ma, di nuovo, cercavo una tecnologia
compatibile con l'ambiente in cui ero. Nel frattempo mangiavo
ingordamente anche al di là della fame, e soprattutto il più grasso
che potevo, con il dichiarato scopo di ingrassare: proprio come
fanno gli animali che vanno in letargo. Frutta secca, funghi
secchi, pezzi di carne cotti e conservati nello strutto ricavato dal
grasso degli animali che uccidevo; insomma passai tutta la
primavera, l'estate e parte dell'autunno a fare provviste, legna
compresa. E feci bene. Non avevo idea di quando sarebbe
arrivato il freddo e di quanto forte sarebbe stato; potevo
legittimamente supporre che sarebbe stato simile a quello
delle montagne europee o nordamericane corrispondenti,
tipo Centro Europa o nord degli Stati Uniti. Il che significava
anche 30 gradi sotto zero. Quando arrivò, fu pesante. Fossero
meno 30 o meno 40 non saprei dirvi: non avevo pensato a
chiedere alla macchina un termometro da esterno. Fu freddo. Ma
molto freddo. Per fortuna avevo conservato (e conciato alla
meno peggio con il sale ed il sole) tutte le pelli degli animali
che avevo ucciso e le avevo cucite grossolanamente fra
loro; quando calava il sole andavo a letto vestito, dentro
il mio sacco a pelo di piume e sotto una pila di pelli, con
fuori appena un pezzetto del naso per respirare. Ed avevo
freddo. La mattina non mi alzavo finché il sole non era alto,
accendevo il fuoco e tornavo sotto le pelli, e solo quando
un po' di tepore si diffondeva nella mia capanna mi
alzavo e mi organizzavo la giornata. Che consisteva per lo più
nel mangiare, nel fare un po' di movimento per non paralizzarmi
del tutto. Provai anche a scrivere ed a tenere un diario, ma non
durò a lungo, così come anche la lettura non mi aiutò, anzi.
Leggere di un mondo che potevo considerare perso
per sempre mi deprimeva. Ero arrivato infatti alla conclusione
che per poter mantenere un minimo di salute mentale, alla Terra
non ci dovevo pensare più. Questo era il mio mondo e qui
dovevo restare. Quando avessi avuto qualche informazione in più
su quello che mi era successo avrei potuto cosa? Niente. Non
avrei potuto quasi sicuramente fare niente, quindi tanto valeva
non pensarci più. Per la prima parte dell'inverno uscii raramente
dalla capanna; man mano che il freddo si fece più forte mi
passò proprio la voglia di uscire. Passato l'equivalente
del solstizio invernale di quel pianeta, quando le giornate
cominciarono ad allungarsi di nuovo, cominciai ad
uscire più spesso ed a trovare perfino bello il luogo in
cui ero. La neve copriva tutto, ovviamente, ma era una neve
strana: per non so quale fenomeno non era una neve tutta
e soltanto bianca; forse cristalli minerali presenti nel
pulviscolo atmosferico, forse una particolarità d'altro
tipo nella luce del sole di quel sistema, non so, il risultato
era che la neve era bianca, sì, ma percorsa da incredibili
striature di colore, appena accennate, molto flou, tenui,
ma con tutti i colori dello spettro; il risultato era,
sotto il sole, soprattutto all'alba ed al tramonto, una
variegatissima serie di colori cangianti. La conseguenza più
spettacolosa erano le pellicce invernali degli animali: anch'esse
variegate di bianco e colori tenui, e spesso cangianti.
Che fosse un adattamento naturale o voluto da qualcuno,
quegli animali avevano delle pellicce incredibili,
che sulla Terra sarebbero costate cento volte quelle normali.
Grazie a questa loro mimetizzazione erano bellissimi
e difficilissimi da identificare, sia le prede che i predatori,
che per altro non erano molto pericolosi per me, per fortuna: lupi
ed aquile per lo più; a queste non interessavo, e quelli non si
fecero vedere, anche se ne vidi un branco una delle poche volte
che uscii dal recinto, a valle per altro. Avevo visto degli orsi,
d'estate, ma essendo tutti scomparsi dovevano essere andati in
letargo come i loro omologhi terrestri. E meno male: un
esemplare maschio di orso che a primavera vidi a duecento metri
da me sarà stato alto almeno tre metri. Per il resto sembrava
un normalissimo Grizzly. Voglio dire, non sarebbe stato strano a
quel punto trovarsi di fronte ad un 'Ursus spaeleus', l'orso delle
caverne estinto 30.000 anni fa. Avete presente? Vivevo nel
terrore d’incontrarne uno. La fortuna mi aveva aiutato nella
scelta del luogo in cui costruire la capanna: era riparata dai venti
dominanti nella zona per cui le tempeste non erano mai troppo
turbolente ed a parte i 45 giorni più duri, poi fu possibile
vivere abbastanza confortevolmente. La solitudine mi spinse alla
depressione dapprima, poi alla meditazione. Dato che dormivo,
mangiavo e non facevo quasi nulla, presi l'abitudine di stare il
giorno seduto a meditare, a fare esercizi di respirazione yoga, a
cercare di concentrarmi su progetti, programmi, sul mio futuro in
quel pianeta. All'inizio fu soprattutto per rilassarmi e per passare
il tempo, poi divenne una esperienza che non esiterei a definire
mistica: ero sette, otto ore al giorno in contemplazione
di una natura dura e spietata, ma anche bellissima
ed il risultato fu una crescente sensazione di integrazione,
direi, di inserimento nella natura. Ebbi delle visoni. Non saprei
come definirle altrimenti. Animali, colori, alberi tutt'intorno a me
sembravano parlarmi, interagire con me; ogni mattina mi alzavo
uscivo e salutavo (in silenzio, con gesti e pensieri, senza
parole) un grosso abete che era oltre la barriera e gli chiedevo
com'era andata la notte; e lui, in qualche modo, mi rispondeva.
Era semplicemente un momento di pausa nella mia
vita, come non ne avevo mai avuti prima e come non ne
ebbi mai dopo, nel quale mi era dato tempo e pena per
"sentire" la vita che scorreva intorno a me.
A primavera decisi di avventurarmi verso la valle. Mi
ero fabbricato delle racchette da neve e con il mio
equipaggiamento mimetizzato mi avventurai verso il basso.
Seguii il torrente, per lo più e dopo due giorni giunsi
a valle, segnando regolarmente la strada che facevo con
segni apparentemente casuali sui tronchi. Almeno speravo
potessero apparire casuali. A valle faceva molto più caldo. Il sole
batteva più a lungo e più forte, e in fondo alla vallata, che si
affacciava su una pianura più lontana e più grande, intravidi
campi coltivati ed un villaggio fortificato.
Quella vista mi emozionò e mi spaventò anche. Avevo
un fortissimo desiderio, me ne accorsi solo allora, di
andare incontro a degli esseri umani, ma al tempo stesso
avevo la paura di chi sa che cos'è la sensazione della
morte, e non intendevo ripeterla per niente al mondo.
Mi misi ad osservare a distanza il villaggio, con il potentissimo
binocolo che la macchina mi aveva fornito.
Essendo dotato di visione notturna potevo studiare il
fortino anche di notte. Sembrava essere un avamposto di
confine, con vicino capanne di coloni, gente che si era
avventurata sin lassù da qualche altra parte del pianeta.
Erano evidentemente a guardia del passo che portava
nella vallata più grande, cui si arrivava dopo aver passato
la catena di montagne su cui sorgeva la mia capanna e
dall'altro lato della quale ci doveva essere un'altra pianura,
e forse una qualche civiltà.
Gli occupanti del fortino erano evidentemente guerrieri:
portavano armature di cuoio e metallo, con corazze,
spallacci e gambali, una via di mezzo fra le armature
di un legionario romano e quelle di un soldato del rinascimento;
portavano armi bianche quali spade, scuri,
asce da combattimento, mazze, lance e balestre di due
tipi, una leggera e portatile evidentemente da combattimento
ravvicinato ed una più grossa, che tirava verrettoni
più lunghi e pesanti ed evidentemente più letali. Sembravano
armi di acciaio o come minimo di ferro battuto
quindi tecnologicamente già evolute, molto più dei selvaggi
che avevo incontrato la prima volta.
Da quel che potevo vedere con il mio binocolo, nel
forte sembrava ci fosse anche una popolazione mista, tipica
dei luoghi di frontiera: da lontano sembravano mercanti,
prostitute, schiavi, viaggiatori di tutti i tipi. I costumi
e gli abiti erano i più diversi, da quelli quasi familiari,
pantaloni e corsetti e gonne, a quelli più strani,
come tutte intere e disegni astratti, fino alla nudità quasi
totale; altri elementi come gioielli, ornamenti, trucco,
seguivano la stessa apparente anarchia totale di stili.
Non sapevo che fare. Aspettare? A che scopo? Rischiare
l'incontro? Con quali prospettive? Quello era un
posto di frontiera, dovevano essere abituati agli stranieri.
Ma io quanto lo ero? Quanto ero alieno per loro? In
che lingua ci avrei parlato? Decisi di aspettare ancora un po'.
Rimasi così nella zona, cacciando e sempre sorvegliando quello
che accadeva, per altri 5 giorni, senza che accadesse niente e
senza prendere una decisione. Il sesto giorno, di mattina, ero al
torrente, lontano dal forte ma relativamente vicino alla strada che
vi arrivava e ne veniva, a cercare di pescare una specie di
salmoni con una barriera di canne ed un cesto di vimini
improvvisato, quando udii dei rumori sul greto poco più a valle,
in un punto dove sapevo esserci un guado. Mi nascosi,
maledicendo il fatto di aver lasciato il kalashnikov RPK
nell'accampamento 200 metri più a monte. Ero sceso
alla barriera per vedere se avevo catturato qualcosa, con
l'idea di tornare subito e non mi ero portato appresso
nessuna arma, con me avevo solo un coltello.
I rumori aumentarono ed erano chiaramente rumori di
lotta. Non resistetti alla curiosità, mi avvicinai e vidi un
gruppo di armigeri del forte che aveva bloccato un carro.
A terra alcuni uomini morti, in abiti colorati, e fra di
essi un paio di bambini forse decenni; ed uno degli armigeri.
Altri tre armigeri stavano finendo di uccidere in un
modo orribile uno degli uomini mentre gli altri, sette od
otto, stavano violentando tre donne.
Rivedere da vicino degli esseri umani era già uno
choc in sé e per sé, assistere ad una scena di violenza
così spropositata ed apparentemente perfino banale per
quegli uomini, lo fu cento volte di più. Non pensai, non decisi.
Fu tutto molto automatico. Come se i mesi passati da solo
avessero contribuito a creare un nuovo me stesso. Fra l'altro in
quei mesi, oltre a cacciare, mi ero allenato al tiro al bersaglio,
proprio per cacciare meglio; mi ero allenato a portare pesi, ed il
lavoro mi aveva irrobustito in modo veramente notevole.
Ero magro, scattante e forte come non ero stato mai
in vita mia. Mi allontanai in silenzio e lentamente, poi corsi
veloce al mio campo; raggiuntolo senza nemmeno pensare a
quello che stavo facendo indossai il giubbotto antiproiettile
di fibra, presi il kalashnikov RPK, la carabina telescopica e dei
caricatori e corsi verso il guado.
Ero pieno di rabbia per quello che avevo visto. Mi ero
ovviamente identificato, anche troppo, e non ci avevo
pensato un secondo, avevo deciso d'istinto: dovevo fermare
quegli assassini e l'unico modo era ammazzarli o tramortirli .
Stavolta non avevo dubbi o esitazioni.
Quando li raggiunsi ansante dietro un dosso, mentre
regolavo e caricavo la carabina, mi resi subito conto che
l'uomo torturato era evidentemente morto, una delle
donne non gridava nemmeno più e quando la lasciarono
capii che era morta anche lei.
Mentre si accingevano a continuare la violenza sulle
altre due, mi misi in posizione da cecchino, sdraiato sulla
pancia in mezzo all'erba con un piccolo cespuglio davanti
alla canna e da cui la canna sporgeva e freddamente
cominciai ad uccidere quegli uomini. Nel corso dell'inverno
mi ero allenato tanto, soprattutto con balestra e
fucile ad avancarica, ma anche con il fucile da cecchino,
ed ero diventato un tiratore più che discreto.
Decisi di sparare prima a quelli che erano lontani dalle
donne, per essere sicuro di non sbagliare, dato che
erano in piedi: erano a circa cinquanta metri.
Cinquanta metri per un tiratore allenato non sono
molti, per uno non allenato moltissimi, credetemi, sia
pure con un cannocchiale. Comunque ne uccisi tre prima
che gli altri otto si accorgessero che c'era qualcosa
che non andava; smisero di violentare le donne ed
estrassero le armi; ma non sapevano chi e come li attaccava;
e riuscii così ad ucciderne altri tre.
I due rimasti ripararono dietro il carro, avendo capito
dal rumore degli spari e dal fumo dove ero e furono raggiunti
da altri tre che non avevo notato.
Forse non avevano mai visto prima armi da fuoco in
azione, ma erano evidentemente veloci ad imparare. E
quella di imparare velocemente in combattimento sembrava
essere una di quelle caratteristiche che la vita sul
pianeta premiava con la sopravvivenza. Io l'avevo già
imparato sulla mia pelle.
Mi individuarono e da dietro il carro cominciarono a
tirare frecce e verrettoni nella mia direzione urlando
come forsennati, tentando sia il tiro diretto, teso, sia
quello a parabola. Quando un paio di frecce mi arrivarono
troppo vicino decisi di non rischiare oltre.
Scesi dal dosso su cui mi trovavo verso il torrente e
mi ci immersi fino al torace tenendo alte le armi e mi
avviai fra le canne verso il guado 30 metri più in là: avevo
notato un canneto fitto che arrivava fin sulla sponda
del torrente e mi ci infilai, giungendo, coperto, a ridosso
del loro accampamento, vedendoli, di lato, nascosti dietro
al carro. Loro continuavano ad urlare ed a lanciare
frecce verso la posizione in cui ero prima.
Due degli uomini preso il coraggio a due mani, indossati
elmi e scudi, estrassero le spade e si gettarono urlando
verso la posizione che avevo occupato fino a pochi
minuti prima.
Io uscii, non visto, dall'acqua ed in punta di piedi, dal
lato opposto a quello in cui erano diretti loro.
I tre dietro il carro non mi videro, ma le donne sì.
Anzi, la donna, l'altra era svenuta. Tacque, guardandomi
spaventata.
Ero arrivato a dieci metri dagli uomini quando uno si
voltò, mi vide ed urlò armando la balestra.
Con il kalashnikov RPK falciai lui e l'uomo che gli era vicino,
ma la mitragliatrice, forse per l'acqua o per altro, dopo la prima
raffica si inceppò, proprio mentre un verrettone mi faceva
il pelo alla guancia destra. La carabina era a tracolla e
non feci in tempo ad impugnarla. Il terzo uomo mi si gettò
addosso con la spada e rotolammo
a terra; non era più un'opera di giustizia ma pura
e semplice lotta animale per la sopravvivenza. La cinta
della carabina si staccò e l'arma rotolò via.
Mentre lottavo con lui i due che erano sulla collina si
accorsero di tutto e tornarono correndo verso di noi.
Non so come, uccisi il mio aggressore piantandogli il
coltello in pancia; mi rivolsi ai due che correvano verso
di me, estrassi da una tasca la pistola, che in precedenza avevo
regolato sul tramortimento.
I due scesero e passando vicino alle due donne in un
accesso di furia le colpirono entrambe.
Il primo mi era addosso quando mi voltai con la pistola, lo
investii con una scarica elettrica, che lo fece cadere a terra,
mettendolo fuori combattimento, ma per un piccolo
malfunzionamento, l’arma per un attimo stordì anche me.
L'altro si fermò un attimo poi vedendomi intontito e
spaventato riprese coraggio e venne verso di me ghignando.
Alzò la spada sulla testa con entrambe le mani. E un
attimo prima che potesse abbassare le braccia era passato
da parte a parte dalla punta di una lancia.
Era una delle due donne, la più giovane, ferita, con le
vesti stracciate ma ancora in grado di salvarmi la vita.
Urlò qualcosa che non compresi, era agitata, stravolta.
Tornò indietro e si diresse verso l'uomo che avevo ferito
ed era ancora vivo.
Gli prese il coltello dal fodero, gli disse qualcosa con
una voce ed un tono dolcissimi e lo sgozzò. Si rivolse
poi agli altri e controllò chi era ancora vivo. Tre erano in
effetti solo feriti, fra cui quello che doveva essere evidentemente il capo del drappello.
Uccise i primi due nello stesso modo, poi sempre sorridendo
e parlando dolcemente si dedicò al terzo.
Studiò le sue ferite e vide che era stato colpito alla
spalla, probabilmente al polmone, e che respirava a fatica.
Lo fece accomodare meglio, gli mise un giaciglio
sotto il petto per aiutarlo a respirare, e, mentre io la
guardavo instupidito, dalla lotta, dall'adrenalina e dalla
percezione di ciò che avevo fatto, lei, serafica, gli aprì la
giacca, gli tagliò la camicia e denudatogli il petto cominciò
a torturarlo con il coltello. Non credevo ai miei
occhi.



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Racconto scritto il 30/06/2016 - 16:21
Da Savino Spina
Letta n.1380 volte.
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