Nella pelle aveva colorato il suo destino, schiavo del mio candore, che ancora una volta, forse, aveva sbagliato epoca. Gli occhi erano tagliati su misura di un segreto, mentre la bocca aveva la misura dell'amore. Le sue mani erano un ossimoro, elegantemente grandi per fare del corpo un'arte da riguardare. I suoi vestiti, un tempo, erano stati nuovi ed avevano avuto il profumo della commissione ed il sapore che sembrava quello del successo, per come gliel'avevano descritto. Se l'avessi incontrato per strada, senza la sua tela, avrei giurato che si occupasse della sicurezza del mulino, perché mi sembrava il giusto gorilla per quello zoo di ormoni. Ma lui il mulino lo sognava da bambino, aspettando di essere abbastanza uomo per entrarvi; si diceva che ci sarebbe andato un giorno con suo padre, ma la nave se lo era portato via, con il mio, su un diverso mare.
Non sapevo nulla di sua madre, ma nelle sue lacrime di solitudine l'avevo conosciuta, sola e perduta in un amore che le aveva svuotato il cuore e riempito il grembo e così, nelle notti in cui il pittore distruggeva le tele ed urlava il suo abbandono, piangeva due donne in una sola, e mentre lo chiamavo in un bagno di piacere, urlando:
"Jean Philippe..."
lui mi stringeva in silenzio, pensando:
"mamma..."
Salire sul monte era la sua aspirazione, ma una volta in cima, l'aria si era fatta più difficile da respirare e la caduta, dolce tentazione, si era trasformata in un Rembrandt che gli aveva mostrato il vero volto disperato di una città, dietro ad una maschera verde d'assenzio e profumata di vita i cui organi interni erano andati a male.
Jean mi guardava passare, ogni giorno, mettendo da parte la fame ed i soldi per potermi comprare ed io, che sapevo vendermi meglio dei suoi quadri, lo avrei lasciato sulla porta di quella casa in cui non l'avrei mai fatto entrare, perché un giorno di primavera ho deciso che un pittore era l'unica cosa che mi restava da comprare.
Potevo avere tutto, io che degli uomini prendevo il frutto e mai il peccato, io che li aspettavo nella mia camera e poi vi uscivo a cena per essere una donna vera, non solo la chimera di un sogno erotico rincorso e comprato senza fare la fatica di risolvere alcun enigma. Volevo che mi ritraesse, per poter buttare gli specchi, perché le creme non bastavano e non mi bastava il tempo...già, il tempo, quello non mi è proprio bastato.
La stanza in cui lui viveva, dipingeva, distruggeva e ricostruiva era pagata dal mio corpo, quello stesso corpo che lui prendeva, sfiniva, sfondava, segnava e sul quale moriva. Diceva di amarmi, mi chiedeva di smettere, di vivere con lui d'amore e d'arte, poveri, su un letto sfatto, in un appartamento sfitto, abusivi di quella vita di cui io stessa abusavo. Ci ferivamo, come fanno gli amanti, e ci tenevamo, con le unghie e con i denti, come ci si aggrappa alla vita, ma la mia era stretta, così sottile da correre sul filo del pericolo, così pesante da dover rendere il mio corpo leggero, per camminare in equilibrio.
E mi chiamava amore e mi chiamava puttana, in quelle notti malate in cui mi pregava di non uscire, per passare agli schiaffi, convinto che qualche segno mi avrebbe fermata. Ma chi mi fermava? Passavo ore a truccarmi, a rendermi bella e con la cipria coprivo i segni per tornare innocente e farmi scoprire da nuove mani che avrebbero pagato per rincorrersi su di me. Poi tornavo da lui e ritornavo io, libera di ballare, di ridere e viaggiare, portandolo con me in una terra di ricordi, in un uomo che mi ha lasciato, in un'isola stretta dalla quale volavo via, con una madre arida ed inacidita più del vino che imbottigliava.
In quei momenti potevamo dire di essere felici, ma la vita non la si può chiudere fuori dalle finestre e un giorno Jean si ammalò di sospetto: pensava che me ne sarei andata con il Marchese, lasciandolo solo con le sue cornici vuote, che l' avrei amato e ancor di più, che gli sarei stata fedele.
E in una notte ha rincorso i suoi sintomi, per poterli curare, giù da quelle scale, senza pensare a ritornare. E' bastato un attimo per avere le mani sporche e non più solo di colore; la sua anima aveva preso lo stesso colore della sua pelle e quanta fatica avrebbe dovuto fare per poterla sbiancare, ma ci avrebbe pensato poi, perché prima doveva pensare a scappare.
Un uomo che scappa ritorna sempre a casa e così aveva fatto anche Jean, ritornando in quell'appartamento che sapeva di noi. Il tempo delle fragole e dello Champagne era finito, Dio ci aveva punito, perché il peccato iniziava a pesare su entrambi, e allora la notte si faticava a respirare, si tossiva e si sputava sangue.
"Je suis malade...."
E il sonno mi ha portata via, in fretta, senza nemmeno avere il tempo di dire addio, Oh Dio, addio a chi? Che nemmeno avevo avuto la forza di dirgli che l'amavo. Ho lasciato Jean solo con un cadavere che profumava di un solo amore e puzzava di usura, ma che lui amava a tal punto da prendersi in giro, dipingendolo ancora nelle notti in cui l'aria si respirava e in una di quelle notti, soffrendo e firmando nel sangue la sua tela, mi ha raggiunta, giù da un'altra scala che non portava più ad un lampione ma che sapeva di disperazione. L'ho guardato ed in silenzio l' ho preso per mano, dicendogli:
"Andiamo amore mio che l'Inferno ci aspetta..."
E nel preambolo della desolazione, mi ha sorriso d'eterno amore.
Questa è la storia del mio pittore, del nostro malato amore e di un quadro mai finito, sporco di sangue, vernice e che non ha mai trovato la sua cornice.
Voto: | su 2 votanti |
Voto il racconto ottimo e super... visto che sei di Cortemaggiore.
Ciao
Salvo