E' vero siamo moderni, aperti all'interculturalità, leggiamo Internazionale e con i voli low cost ci siamo abituati a girare il mondo, ma in fondo una paura ancestrale ci sussurra di diffidare di quei ragazzi.
Si, perché alla fin fine sono soltanto dei ragazzi e sono 3 massimo 4. Avranno si e no vent'anni, ma in un piccolo paesino di una provincia del nord Italia dove da sempre tutto scorre tranquillo non siamo abituati all'intrusione dell'altro, di chi ci ricorda che il mondo continua al di là delle montagne che ci circondano, che non tutto funziona come lo facciamo funzionare noi.
Come una bobina ci passano davanti agli occhi le immagini dei telegiornali con rapimenti, violenza, furti...e ci immaginiamo che quei ragazzi possano compiere le peggiori nefandezze. La televisione ci sta abituando a pensare che nella vita succedano sempre delle tragedie, ma ci dimentichiamo che per lo più la vita scorre tranquilla, ordinaria, che il nostro vicino non è un pluriomicida, che gli uomini per lo più hanno solo voglia di essere lasciati in pace.
Nessuno scoop. Se non c'è allora cosa facciamo? Ce lo inventiamo.
- Non mando più mia figlia al parco da sola perché mi hanno detto che gira brutta gente, che per avere qualche soldo sono pronti a tutto.
- Fai bene, non si sa mai. Come faranno a permettersi quei cellulari, poi, se non lavorano. Di sicuro o rubano o spacciano.
- E noi li manteniamo pure.
- Sai, ho sentito dalla mia vicina che una sua amica non manda più al parco sua figlia da sola, perché sembra che uno di quei profughi che sta sempre lì le abbia rubato il cellulare, costringendola con la forza a darglielo.
- Pensa in che mondo viviamo. Nemmeno qui si può più stare tranquilli.
- Che ritornino da dove vengono e ci lascino stare.
Si, in fondo abbiamo paura che ci rubino un pezzetto della nostra proprietà, o meglio della nostra identità e troviamo il nostro alibi nel passaparola di paese.
Non tutti, però.
Mattia è un ragazzo del paese, tutti lo conoscono, o meglio conoscono i suoi genitori, lo salutano, ma nessuno si ferma mai a parlare con lui.
E' introverso, dicono alcuni, è strano, forse un po' matto, dicono altri, ma in realtà Mattia è solo uguale a se stesso, alle proprie paure e speranze. Non ama la gente, ecco tutto. E' allergico ai pettegolezzi, alle dicerie ed alle frasi comuni, ovvero a ciò che normalmente condisce la maggior parte delle conversazioni fra i paesani. Ha paura di non essere all'altezza delle aspettative dei suoi genitori, della scuola, ha paura dello sguardo degli altri che sente sempre un po' giudicante. Sogna di diventare scrittore, di rivivere la vita con il filtro dei suoi pensieri. Ama sentire le dita che scorrono veloci sulla tastiera, la mente in effervescenza ed il cuore che batte più forte quando sente di scrivere qualcosa di importante, almeno per lui.
Ama leggere, perdersi fra le pagine di un libro, tornare indietro a rileggere i passi più importanti e densi. A volte, immagina di trovarsi faccia a faccia con l'autore del libro e di parlare della trama, del mondo, della vita. Altre volte, si arrabbia con un personaggio del racconto o si immedesima a tal punto con esso da voler vivere la sua vita.
Era aprile, cominciavano i primi caldi. Mattia non aveva voglia di stare in casa e decise di andare a leggere al parco.
Si sedette sulla sua solita panchina, quella intelligentemente posata all'ombra di un ciliegio. Il profumo dei fiori dava un senso di pace e tranquillità. Il libro aperto sulle ginocchia, non riusciva a concentrarsi. Una musica diversa da quella che ascoltavano i ragazzi del paese fuoriusciva dagli auricolari del suo vicino. Musica araba, sicuramente, si disse Mattia. Il suo compagno di panchina era probabilmente del Mali o del Senegal.
Mattia continuava a fissare le pagine del libro, ma la mente era da un'altra parte, fra le note di quelle melodie così lontane da quelle cui era abituato da sembrare esotiche.
Socchiuse gli occhi, immaginando di andarsene lontano, di scivolare via. Lo squillo del cellulare lo riportò alla realtà. Era sua madre e doveva tornarsene a casa. Raccolse le sue cose e si allontanò così, senza nemmeno salutare, senza nemmeno incontrare lo sguardo del suo vicino.
Passarono diversi giorni prima che Mattia decidesse di ritornare al parco. Era presto, i bambini non erano ancora usciti dall'asilo. Non c'era nessuno. Solo il ragazzo dell'altro giorno. Sempre con le cuffie alle orecchie e il cellulare fra le mani.
- Come ti chiami? Ti ho visto l’altro giorno qui.
Mattia trasalì e, non abituato ad essere al centro dell’attenzione, imbarazzato si presentò: mi chiamo Mattia e tu?
-Ciao, sono Ali e, se te lo stai chiedendo, vengo dal Mali. Sai dov’è?
-Si, più o meno. Parli bene l’italiano.
- Grazie, sono in Italia, nel campo che c’è qui vicino, da circa un anno. Non c’è molto da fare, quindi mi sono impegnato per imparare la lingua.
Mattia cominciò a rilassarsi e senza accorgersene passò più di un’ora a chiacchierare con quel ragazzo, ad ascoltare la sua storia di fuga dalla povertà, di paura e stenti nelle prigioni in Libia, del suo coraggio nel salire su di un barcone della speranza.
Riuscì a sentire l’angoscia che stava vivendo, nell’attesa che qualcuno decidesse del suo futuro.
Aveva presentato la domanda di riconoscimento della protezione internazionale ma la Commissione Territoriale aveva rigettato la sua richiesta. Era “solo” un migrante economico e non politico. Stava tentando la strada del ricorso. Stava attendendo con la consapevolezza che un ulteriore “no”, avrebbe significato l’espulsione o la strada dell’illegalità.
Era tardi e si salutarono come vecchi amici.
Passò qualche giorno e Mattia ritornò al parco nella certezza di ritrovare quel suo nuovo amico.
Non c’era nessuno seduto su quella panchina.
Ritornò il giorno dopo ed un altro ragazzo era seduto al posto di Ali.
Facendosi coraggio, chiese al ragazzo dove fosse il suo nuovo amico. Non riuscendo ad ottenere risposta improvvisò qualche frase con il suo francese scolastico e comprese che se ne era dovuto andare perché il Tribunale non aveva accolto il suo ricorso. Dove fosse il ragazzo non lo sapeva, forse Napoli o forse Milano. Di sicuro in qualche grande città dove è più facile essere invisibili.
Mattia era triste. Non riusciva a comprendere il senso di quella che chiamiamo accoglienza, se poi da ospiti quei ragazzi dovevano trasformarsi in fantasmi.
Un modo per dar loro visibilità, però, forse c’era. La sua scrittura da triste e malinconica, si trasformò in pura volontà di raccontare le vite di quei ragazzi, di farle conoscere, se non altro, ai suoi compaesani, per cominciare a far vedere loro dei volti e degli sguardi oltre i muri della paura e dell’indifferenza.
Mattia, dimentico della propria timidezza, cominciò a dedicarsi con passione a raccogliere i frammenti delle vite dei tanti Ali che passavano su quella panchina.
Adesso, ogni giorno, ritornando a casa dal lavoro, su quella panchina vedo il mondo che si racconta, vedo ragazzi del Mali, del Senegal, …, vedo Mattia con la matita in mano e vedo i tratti abbozzati di un mondo diverso. Vedo la gente che pur guardando ancora con diffidenza e perplessità quei ragazzi e Mattia, sempre così strano, comincia anche a porsi qualche interrogativo: chissà forse non sono poi così cattivi...
Vedo e sorrido della ricchezza che può nascere quando superiamo il muro dell’indifferenza e della paura.
Oggi ho deciso di rallentare e di sedermi anch’io su quella panchina.
Chissà in quale parte del mondo mi porteranno le parole sussurrate e raccolte in un’anonima panchina.
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