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Un altro giro di Mais.

Un altro giro di Mais.


-Per me Jack cointreau e amaretto- dissi nervosamente al barista.
Il bar era uno del centro, il solito.
C’era folla quel giorno al centro, tante Erasmus e lupi in calore.
Il centro era un’orgia di ormoni.
-Ci vai giù pesante- disse lei, sulla ventina, un corpo minuto con belle gambe e senza seni. Indossava scarpe da ginnastica ed abiti casuali, nessun dettaglio nell'abbigliamento tanti nelle espressioni del viso.
-Ragazza questo è il mio cocktail- dissi scocciato.
-Perché è il tuo cocktail?- mi chiese.
-Perché l’ho inventato io-
-E non gli hai dato un nome?-
-Molti qui lo chiamano con il mio cognome-
Arrivò il cocktail e buttai giù mezzo bicchiere mentre con la testa all'indietro cercavo di capire se avesse almeno il culo sodo visto che a tette stava messa molto male.
-E qual è il tuo cognome?-
-Mais.-
-ah ah-
-Che ti ridi ?-
-Ma che cognome è Mais?-
-E che nomi sono Margherita, Viola e Rosa?-
-Nomi di fiori.-
-E allora che problema c’è col Mais? Mica sono fiori blu?-Ero nervoso e il cocktail già finito. Tutta acqua.
Annacquano tutto in questo posto, gli alcolici, le donne e perfino i profumi.
Il centro aveva dei profumi terribili.
-T i va un giro di Mais?- le chiesi.
-Certo-
-Altri due di questi, per favore, e aggiungici angostura e buccia d’arancia- ordinai al barista .
-Buccia d’arancia?- Chiese lei
-Si.- Risposi
-Sta’ attento con le storie inventate. Rivelano cosa c’è sotto. Tal quale i sogni.-
-Bella sta frase-
-L’ho trovata in un libro-
-Qualche volta penso che tu sia il mio inconscio- dissi.
-Probabile. Sembra che tu sottovaluti i sogni.-
-Sai benissimo che non è così. Sinceramente credevo che il mio inconscio mi avrebbe dato del lei.-
-Io sono di quel tipo scostumato.-
Arrivarono i due cocktail, annacquati:
-E anche oggi l’ho preso in quel posto- dissi nervoso.
Lei sorrise.
Avevo trentaquattro anni quei giorni, ero ubriaco; Ed era solo martedì.
I lampioni del centro illuminavano il malessere di tutti insieme alle bottiglie di vino, birre di vetro e canne. Il disagio era un luogo comune del centro. Al posto del centro si sarebbe potuto dire-Ci vediamo nel pieno del disagio- e invece dicevano – ci si vede al centro.- Faticavo a tenere gli occhi aperti, forse non volevano guardare tutto quello spettacolo.
Ci trovammo a parlare sotto la statua io e lei. I vent'anni e quelli centenari di marmo.
-Più ti guardo e più aumenta la mia malinconia.- Dissi
-Come mai?- rispose lei rollandosi un siluro pieno d’erba fresca, giovane.
-Perché è così.-
-Eppure non sembri vecchio.-
-Ma neppure tanto giovane.- Conclusi.
-Vuoi fumare?-
-Non fumo più.-
-Vuoi fare l’amore?-
-Che senso avrebbe? Ho trentaquattro anni, non godo più nei venti.-
-E cos'è che vuoi?- Disse mentre fumava.
-Restare qui, fermo a guardare il movimento dei pianeti.-
-Finisco questa e ti porto in un posto.-
-Non è detto che io voglia muovermi da qui.-
-Ti funzionano le gambe?-
-Si.-
-Allora verrai.-


La ragazza mi prese per la mano e mi portò via dalla statua
-Ce l’hai un nome?-
-I fiori blu.- disse.
C’incamminammo in strade sempre più strette caratterizzate da meno persone e meno ombre. La luce si affievoliva e così la mia vista. Ma non la sua.
Poi si fermò di fronte una porta doppia di ferro ai piedi di un grande palazzone.
-Sei pronto?- disse lei.
-Per cosa?-
-E’ tutto un valzer, la vita, il tempo ed i fiori blu.-
-Non sono più così giovane.-
-Ma neanche così vecchio.-
Lei bussò in maniera ritmica, una specie di codice. Mentre aspettavamo, la guardavo. Aveva negli occhi cose che io non provavo più. Aveva negli occhi il braciere che il vento del tempo aveva spento nei miei. Eravamo due pianeti che distavano quindici anni di differenza. Lei ancora vicina al Sole, io distante nell'oscurità delle galassie.-
-Non era male il tuo cocktail, il Mais.- poi aggiunse -Ma oggi è diverso.-
-Diverso come?-
-Più droghe sintetiche, più alchimia e meno tradizioni.-
-Una volta reggevo il confronto dei salti generazionali.-
Poi la porta si aprì, due cavalli, o meglio due figure verticali con il volto da cavallo ci lasciarono entrare.
-Piccola, è un tuo amico questo vecchio........?- Disse il cavallo sulla sinistra.
Erano vestiti in maniera elegante, giacca e cravatta in colori scuri.
-Si, lascialo stare.- Disse lei. –Non vedi che non è poi tanto vecchio?-
Il cavallo a destra non disse niente, ci guardava entrare.
-Puoi posare lì la tua giacca- continuò –Qui nessuno tocca niente, e non ti ammalerai.-
Andando verso il guardaroba fui rapito da una strana musica di violino proveniente da una piccola stanza. Seguendo le mie orecchie m’incamminai verso quella, e più mi avvicinavo, più sentivo chiaramente che era una canzone che scrissi dieci anni fa con la chitarra. La ragazza la eseguiva con un violino ed era impeccabile. Parlava del deserto, dell’amore e di altre emozioni che adesso non sentivo più. Non saprei dire chi è che ne parlava, io o la ragazza. Sul violino era cosparsa polvere bianca. La stanza era piccola e tappezzata di lancette. Seduto su una sedia presi un bicchiere pieno a metà e ascoltai la mia melodia. Senza considerare cosa c’era nel bicchiere lo buttai giù in un sorso. Non fu una buona idea. Ci doveva essere qualche droga strana dentro. Iniziò la tachicardia, la ragazza smise di suonare e sudando andai al guardaroba. Girava tutto, non ero più abituato a quelle cose, come mi è passato per la testa di bere in quel bicchiere, non reggo più l’alchimia delle nuove generazioni.
Posata la giacca, iniziai a cercare la ragazza, ma era sparita.
Un orologio mi strinse il polso:
-Vieni, di qua.-
Il tavolo era di quelli rotondi, mi dovetti sedere con l’orologio alla mia sinistra e le galassie a destra. Ero un punto nel più entusiasmante dei piani cartesiani. Di fronte a me una pasticca mischiava le carte e qualcun altro mi dava le fiches
-Così poche?- dissi
-Ne hai già consumate parecchie.-
-Ma va’-
E l’incappucciato sorrideva.
La pasticca era uno di quei giocatori violenti, sempre in all in, il tempo e lo spazio moderati e l’incappucciato osservava. Osservava.
La pasticca presto perse tutto e se ne andò, urlava e impazziva mentre si allontanava. Tutti al tavolo risero, tranne me.
-Dovresti osare di più- disse il tempo
-Dovresti andare via- disse lo spazio
L’incappucciato non parlava, mi guardava, immobile.
Da lontano, finalmente, vidi la ragazza e cercai di raggiungerla tra le lamentele di quelli al tavolo.
-Spartitevi le mie fiches- conclusi allontanandomi
L’avevo quasi raggiunta quando un grosso crostaceo si parò davanti
-Non credi mica che lei tornerà da te come tanto tempo fa.-
-Cosa?- dissi al crostaceo confuso.
-No scusa, ti ho scambiato per un mio amico-
La persi di vista di nuovo. Mi ritrovai in una grande sala con musica dal vivo. Il batterista li guardava suonare e seduto vicino a me con il suo whisky, fumava una Winston Blue:
-Questo è il nuovo album.-
-Voi credete ancora nei sogni?- chiesi.
-Nessuno ci crede più. Si fa quel piace, altrimenti che vita è? Dimmelo tu Mais, altrimenti che vita è?-
-Come conosci il mio nome?-
-Guardati allo specchio.-
Il batterista salì sul palco e io mi avviai verso lo specchio. Iniziò a suonare con il resto del gruppo, io, osservavo allo specchio un chicco di mais mentre la musica incalzava.
-Cosa cazzo sta succedendo?-
Tolto il travestimento due infermiere si avvicinarono a me:
-Non te la prendere, è pur sempre carnevale, divertiti.- e lo dissero contemporaneamente.



Chiusi la porta.
Finalmente vidi una terrazza. Mi fermai a guardare Napoli. Anche di notte, nell'oscurità, così piena di colori e di forme, piena di rumori e di vita. Piena di paure e di ansie. Tanti anni insieme a Napoli di notte.
-Vuoi un altro giro di Mais?- chiese la ragazza che mi aveva portato in questo manicomio.
-Finalmente sei tornata, mi sento disorientato-dissi
- E’ normale.- Si tolse la parrucca, era un uomo, assomigliava a me, quando avevo vent'anni.
-Lo vuoi o no?- mi chiese
-Basta alcol, non ho più i tuoi occhi lo vuoi capire? Mi hai trascinato qui con la speranza che io mi rendessi conto che sto appassendo, ebbene anche i fiori blu prima o poi muoiono-
-Sei proprio uno stupido- disse e se ne andò.
Arrivò poi il tempo :
-E’ proprio bello da qui su, sembra che tutto sia fermo, così come deve essere.- e si lanciò giù.
Si sentì uno strano rumore di ingranaggi e sangue ne schizzò da tutte le parti.
Realizzai che dovevo andare via.
Mentre prendevo la mia giacca,
I due cavalli si scagliarono violentemente contro di me e mi riempirono di botte; poi mi cacciarono dal locale che ancora perdevo sangue.
Fuori c’era l’orologio senza vita. Mi allontanai.
All'angolo della stradina, una ragazza vestita da fiore blu fumava nervosa seduta per terra, spalle al muro. Mi sedetti vicino a lei.
-Carnevale è proprio una grande stronzata.- le dico
-E’ un modo per fregare il tempo- Dice lei piangendo
-Il tempo è morto, si è buttato dalla terrazza dove il panorama è mozzafiato.-
-Come ti dicevo hanno fregato il tempo.-
-Non sembri felice- Le dissi
-Ho trentacinque anni-
-Io li faccio il mese prossimo-
Poi passò un’ambulanza e si fermò a raccogliere quello che restava del tempo.
Me ne andai, lasciando lì il fiore blu. Piangeva.
Tornai in piazza. Guardai la statua. Aveva un’espressione malinconica mentre mi osservava.




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Racconto scritto il 07/09/2016 - 11:54
Da Bruno Gais
Letta n.1110 volte.
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