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LA MIA CALABRIA

Quando mi prende la nostalgia irresistibile, m'imbarco sull'aereo e vado in Calabria. Nella mia terra natia, dove l'aria del mare, mi rigenera la mente e i miei amici calabresi, mi abbracciano felici di vedermi, felici di raccontarci e ricordare il passato. Quando sono li, mi reco spesso nei soliti bellissimi posti,
le cime delle colline, che s'affacciano sul mare. La dove la brezza fresca fa svolazzare i miei capelli. La sento sulla pelle, sul viso. Da li, sentire il canto della risacca che abbraccia gli scogli, li nasconde nelle creste spumeggianti, per poi farli riemergere come giganti bronzei. In cima al promontorio a picco sul mare, la dove la provinciale lascia la città inerpicandosi nei suoi tornanti a gomito sulla montagna verso la città di Pizzo e poi Vibo Valentia. Prima di entrare in città, fermarsi negli appositi spazi e, volgere l'occhio verso il mare, per godere di tanta bellezza. Da li, scrutare la spiaggia dorata e poi via verso l'orizzonte, la dove la fine dell'Aspromonte si tuffa nel mare e si fonde con il cielo. A destra verso est, dove il sole alzandosi radioso, scalda la terra, la sabbia, i sassi gli alberi e le sterminate terre dove il grano già alto, dipinge di giallo un mare di spighe. Tutta una musica soave dove l'armonia del paesaggio accusa una grave stonatura. Le terre abbandonate dall'uomo, la gramigna impera sovrana, e silenti altre terre arse, sterili, bruciati dal sole, desolati. Un tempo lontano popolati e lavorati da contadini, che li resero fertili e fiorenti. Pare di sentire ancora il rumore delle zappe, come lame scintillanti rivoltavano le zolle. Quei ragazzi e padri di famiglia,li chiamavano, zappatori. Erano gli eroi senza medaglie che lavoravano la dura terra, la campagna. Uomini dalla pelle dura, uomini abituati a mangiare pane impregnato di sudore sotto il sole ardente. In quelle vallate schierati, allineati dieci, venti uomini, uno accanto all'altro, sotto i larghi cappelli di paglia, per ripararsi dal sole, e alzare gli occhi, soltanto per asciugare col dorso del braccio, il sudore che faceva bruciare gli occhi. Afferrare la brocca in terracotta che una ragazza con il grembiule e i capelli nascosti da un fazzoletto bianco gli porgeva. Bevevano a canna, alla stessa maniera che aveva bevuto per primo nella medesima brocca. Un vecchissimo di rito, tramandato nei secoli, recitava che: se la brocca era nuova, era assolutamente vietato far bere per prima una donna, poiché se questo accadesse, l'acqua in quella brocca avrebbe preso uno strano odore una puzza che l'avrebbe resa non bevibile per sempre . Quindi per evitare che il detto si avverasse, per sverginare una brocca nuova, avrebbero chiamato un uomo di qualsiasi età, anche un bambino, purché fosse maschio, invitandolo a bere per primo. Gli zappatori, accaldati, bevevano avidamente quell'acqua pura fresca, qualche goccia d’acqua scivola dal lato della bocca e cadeva sulla fresca zolla. Come fosse un dono a quella terra di sacrifici, che gli permetteva di vivere con dignità la vita difficile, dura ma, onesta da contadino. Sotto quegli ulivi secolari, la dove i fichi e il fico d'india fiorito, costeggiava i sentieri che portano verso le vecchie masserie, le vecchie stalle. La dove l'odore del fieno si confondeva con quello dei limoni, e degli aranceti. Fu lì che da ragazzo, trascorsi la mia infanzia, le mie primavere e gli inverni, assieme ai coetanei, compagni d’asilo e poi di scuola. Quella bella terra, dove gli avi calabresi, giacciono e riposano, in quel piccolo cimitero, che impera sopra un piccolo colle, dove su quelle lapidi, tanti cognomi sfilano sotto lo sguardo di chi passa. Nomi che furono maestri di vita di lavoro e di studi. Compagni di giochi e, di miseria. Compagni di scuola, amici calabresi… La mia gente. La mia terra… La mia Calabria.



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Racconto scritto il 30/09/2016 - 17:08
Da Michele Nomicisio
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