Sì lo so che se anche ti avessi detto quello che provo, non andrebbe diversamente tra noi, siamo troppo differenti tu ed io per diventare intimi.
E non credo sia dipeso solo da me se le parole mi si sono fermate in gola invece di uscire. Le avresti sapute accogliere? Saresti stato pronto a sentire nominare da altri la ferita? Se ti avessi detto che, quando ho visto il tuo sorriso nelle foto di quest’ultimo anno illuminarti il volto ed eri il ritratto della felicità, ho sperato sinceramente che tu avessi trovato il tuo compimento, il tuo rapimento. E che mi dispiace profondamente sentirti dire che è tutto finito. Tu lo racconti come un accadimento, “succede” hai detto, scevro da ogni turbamento. Ma proprio per questo non mi sfugge che il dolore è ancora più fondo. Avrei voluto stringerti la mano e dirti conosco questo male. Ritrovarsi ancora una volta soli, dopo aver messo a nudo l’anima: è come se ci avessero portato via tutto il sangue, il midollo, il respiro. E si brancola per ritrovare gli appigli del nostro essere. E il tempo incalza, si fa più stretto.
Avrei voluto dirti lo so, lo conosco, ma non ti scoraggiare, tutto è ancora possibile. Forse qualcosa anche tu puoi fare, per non ripetere gli stessi errori.
Saresti stato pronto? Però è proprio questo che mi strugge, non lo saprò mai.
O non sarà, la mia, solo arroganza? Come se parlandoti potessi renderti più sopportabile il dolore; io, che non ho certo una via da mostrare come esempio; io, che per non sentire quello strazio vigliaccamente taccio, anche del mio dolore.
Forse, è semplicemente così che deve andare; tu intento a progettare il tuo futuro di avventure, io a un inesausto meditare sulla friabilità dell’esistenza.
E domani,
“Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi
e saprò d’esser io: gettando un’occhiata,
mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino,
uscirò per le strade cercando i colori.” (C. Pavese)
E non credo sia dipeso solo da me se le parole mi si sono fermate in gola invece di uscire. Le avresti sapute accogliere? Saresti stato pronto a sentire nominare da altri la ferita? Se ti avessi detto che, quando ho visto il tuo sorriso nelle foto di quest’ultimo anno illuminarti il volto ed eri il ritratto della felicità, ho sperato sinceramente che tu avessi trovato il tuo compimento, il tuo rapimento. E che mi dispiace profondamente sentirti dire che è tutto finito. Tu lo racconti come un accadimento, “succede” hai detto, scevro da ogni turbamento. Ma proprio per questo non mi sfugge che il dolore è ancora più fondo. Avrei voluto stringerti la mano e dirti conosco questo male. Ritrovarsi ancora una volta soli, dopo aver messo a nudo l’anima: è come se ci avessero portato via tutto il sangue, il midollo, il respiro. E si brancola per ritrovare gli appigli del nostro essere. E il tempo incalza, si fa più stretto.
Avrei voluto dirti lo so, lo conosco, ma non ti scoraggiare, tutto è ancora possibile. Forse qualcosa anche tu puoi fare, per non ripetere gli stessi errori.
Saresti stato pronto? Però è proprio questo che mi strugge, non lo saprò mai.
O non sarà, la mia, solo arroganza? Come se parlandoti potessi renderti più sopportabile il dolore; io, che non ho certo una via da mostrare come esempio; io, che per non sentire quello strazio vigliaccamente taccio, anche del mio dolore.
Forse, è semplicemente così che deve andare; tu intento a progettare il tuo futuro di avventure, io a un inesausto meditare sulla friabilità dell’esistenza.
E domani,
“Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi
e saprò d’esser io: gettando un’occhiata,
mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino,
uscirò per le strade cercando i colori.” (C. Pavese)
Racconto scritto il 10/12/2016 - 10:13
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