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Breve storia di ferrovia

Era sabato pomeriggio e, come ogni sabato, non vedevo l’ora di tornare a casa dai miei. Da un po’ di tempo mi sentivo fragile e bastava poco per farmi piangere. La settimana di lavoro era stata pesante ed il mio matrimonio arrancava con fatica, come il treno su cui viaggiavo, diretto alla stazione di cambio di Verona Porta Nuova. Fuori dal finestrino scorreva un inverno in bianco e nero e tutto era uguale a sempre, mentre chiudevo il libro che stavo leggendo e lo riponevo nel borsone.
Indossato il cappotto, sistemata la borsa a tracolla, uscii dallo scompartimento. In corridoio alcune persone erano ferme in piedi, in attesa di scendere.
Quasi subito mi accorsi che qualcosa non andava.
Guardai la borsa. Era aperta! Rovistai febbrilmente cercando il portafoglio. Sparito! Andai in tilt. Già mi vedevo, senza biglietto, senza soldi e senza documenti, andar per uffici a far denunce, perdendo un sacco di tempo per ottenere, se andava bene, un documento di viaggio che, in ogni caso, mi avrebbe riportato là da dove ero partita. In alternativa, avrei dovuto aspettare che qualcuno venisse a prendermi.
In preda all’ansia e al nervosismo, piantai gli occhi in faccia al ragazzo in fila dietro di me che, indifferente, lo sguardo rivolto al finestrino, sembrava trovare irresistibile il paesaggio.
Mi parve tutto fin troppo chiaro. - Ridammelo! – articolai col fiato corto. Lui non si prese neppure la briga di fingersi sorpreso: - Hai perso qualcosa? Avanti! Guarda pure! Vuoi perquisirmi? – attaccò, sfottente, aprendosi la giacca davanti a me.
Mi andò il sangue al cervello: – ma bravo! – mi sentii dire – di sicuro l’hai già passato ai tuoi amici là dietro! Lui replicò ma non l’ascoltai. D’un tratto mi sentii molto stanca e molto sola.
Un tocco gentile sulla spalla. Una voce pacata:
- Cosa succede, signora?-
Mi voltai. L’uomo era alto, sulla cinquantina, con un cappotto scuro, il viso serio, proteso nell’ascolto. Era un perfetto sconosciuto ma il suo sguardo diretto emanava una forza serena, un fascino tranquillo. E io avevo bisogno di fidarmi. Mentre il treno si fermava, probabilmente per un semaforo rosso, proruppi d’un fiato che non trovavo più il portafoglio, che non mi importavano i pochi soldi che avevo ma che i documenti e il biglietto, quelli sì, mi servivano! Tacqui. Avevo esaurito la mia riserva di energia. E a questo punto tutto cambiò.
La voce dell'uomo era calma, autorevole:
- Signori, ora entreremo in stazione e verrete tutti con me –
La frase, pronunciata a bassa voce, suonò chiara nel silenzio che si era creato.
C’erano tre persone presenti, oltre a me e a quel signore: due uomini e una donna, piuttosto giovani, l’aria vagamente aggressiva. Mi aspettavo una reazione ma, stranamente, nessuno replicò.
Il treno, dolcemente, si rimise in moto ed entrò in stazione, fermandosi con un gemito.
L’uomo scese dal treno e si incamminò deciso lungo il binario. Non si voltò. Pareva sapere che l’avremmo seguito. E infatti, come pesci prigionieri in una rete agganciata al suo cappotto, lo seguimmo nel sottopassaggio.
Mi girava un po’ la testa e mi sembrava di camminare sott’acqua. Sentivo il sangue rombare nelle orecchie e le voci arrivavano deboli, lontane.
D’un tratto, con la coda dell’occhio, colsi un movimento alla mia sinistra. Qualcuno mi mise in mano qualcosa e si dileguò prima che potessi fiatare. Nella mano stringevo… il mio portafoglio!
Solo allora mi accorsi che le persone del treno non c’erano più. Eravamo rimasti soli, quel signore ed io, ed uscimmo dal sottopassaggio.
L’aria fresca mi snebbiò il cervello. L’incantesimo si ruppe e il mondo riprese a correre e a vociare, come sempre.
- Controlli bene, signora. E’ tutto a posto? – chiese l’uomo.
“ma tu”, pensai, “chi sei? Non ti sei presentato né qualificato...Potresti essere un funzionario delle ferrovie o magari un agente in borghese, o forse, semplicemente, sei uno a cui non piacciono i furbi...”.
Guardai il vecchio portafoglio di pelle, regalo di mia sorella per un lontano compleanno accorgendomi solo allora di quanto fosse logoro… Lo aprii. – Sì! – risposi emozionata. - C’è tutto! Mi hanno lasciato anche i soldi! Se non ci fosse stato Lei…non so proprio come ringraziarLa! Posso ofrirLe un caffè? Qualcosa da bere?-
Alzai il viso verso di lui ma vidi solo la nuvola del mio fiato svanire nell’aria gelida.
A bocca aperta mi guardai intorno: due ragazzine correvano ridendo verso l’uscita della stazione. Una donna sfogliava una rivista. In piedi accanto alla sua valigia, un uomo consultava gli orari sul tabellone.
Avevo la testa vuota ma già annunciavano il treno per Milano.
Mi recai al binario e dieci minuti più tardi, seduta al caldo, mentre lasciavo Verona, mi accorsi con sorpresa che di quella persona non riuscivo a ricordare neppure i lineamenti…
Una domanda bizzarra mi attraversò la mente: chissà che faccia hanno gli angeli?
Poi coccolai il pensiero che, di lì a poco, avrei abbracciato mia madre e le avrei raccontato…



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Racconto scritto il 07/03/2013 - 15:36
Da maria clara
Letta n.1272 volte.
Voto:
su 1 votanti


Commenti


Dunque, voglio dire questo: ecco le stranezze di questo sito. 500 letture e nemmeno un commento. Allora lo faccio io: il racconto è bellissimo e scritto in maniera magistrale, so quel che dico. peccato che hai pubbblicato tanto poco. Una domanda. forse sei rimasta delusa per la freddezza? Ascolta il mio consiglio: scrivi ancora, narrativa, è il tuo genere. ciaociao...e 5 stelle

Spartaco Messina 25/07/2016 - 17:19

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