Gli uomini in genere amano essere apprezzati e godono dell'ammirazione e del consenso altrui. Quanto più forte e generalizzata è l'approvazione degli altri più il proprio io si esalta e cresce nella stima di sé. Accade così, molto spesso, che per suscitare o tenere viva o accrescere questa considerazione che appaga ed inorgoglisce si mettano in atto comportamenti in grado di assicurarla ,direi, automaticamente ma che nulla hanno a che vedere con l'abilità e il talento, che dovrebbero essere gli unici, fondamentali ingredienti per meritare successo e apprezzamento.
Prendiamo, ad esempio, il mondo accademico, nel quale, pur registrandosi numerose, lodevoli eccezioni , si è diffuso un riprovevole meccanismo nell' ambito delle pubblicazioni, per il quale si dispensano consensi e valutazioni positive anche ad opere di scarso valore per assicurarsi il contraccambio : "oggi a te, domani a me", con una ricaduta negativa sulla ricerca, che in Italia potrebbe pervenire a risultati più ragguardevoli.
È questa una grave forma di corruzione che sovverte completamente i criteri di una valutazione vera e giusta che assicuri a ciascuno il suo, con un ritorno positivo per il sapere stesso e per la collettività.
Si può rimediare a tanto? Sarebbe auspicabile ma riesce difficile anche sperarlo in considerazione di quanto prima evidenziato sulla natura umana in genere e su noi italiani in particolare, impenitenti individualisti, abituati a coltivare il nostro orticello, per esso calpestando, talora, la nostra stessa dignità oltre che i diritti degli altri.
Se non è pensabile che le cose cambino, quale atteggiamento moralmente giusto si deve assumere di fronte a palesi forme di ingiustizia e sperequazioni?
Calza a pennello una pagina interessante di G. Ravasi tratta dal suo "Breviario laico" nella quale ci offre una sua riflessione sul "merito" a margine di una frase di Samuel T. Coleridge estrapolata dall' Ode alla malinconia:
"Sembra una storia del regno degli spiriti quando un uomo ottiene ciò che merita e merita ciò che ottiene"
"In questi ultimi anni, reagendo a un eccesso antitetico, ci si è riempiti la bocca della parola «merito», auspicando nella scuola e nella società la pratica di un'autentica «meritocrazia», A essere sinceri, non si può dire che il valore, la virtù o la competenza siano più premiati di prima. Resta, allora, intatta in tutto il suo valore la frase sopra citata.
Quante volte, infatti, viene spontaneo chiedersi davanti a certe carriere folgoranti e sfolgoranti: ma quali meriti, quali benemerenze o qualità ha mai questo signore baciato dal successo?
Per trovare giustizia in questo campo bisognerebbe proprio sperare in un «regno degli spiriti», come dice il poeta, cioè in un mondo ideale. È per questo che una delle regole importanti dell'ascesi (ma anche della nobiltà d'animo) è continuare a compiere il bene con rigore e dignità personale, nonostante l'assenza di gratificazione e di ricompensa, affidando solo a Dio che «vede cuore e reni» (come dice la Bibbia) il giudizio e il premio. Impudenza e arroganza sono, comunque, da denunciare, pur con la consapevolezza che non cambierà il modo di giudicare del mondo, come già amaramente annotava nel Seicento La Rochefoucauld: «Il mondo rende più spesso onore al falso merito di quanto non sia ingiusto col merito vero». E, allora, con costanza andiamo avanti lo stesso a praticare l'onestà, confidando in quell'arduo detto che dichiara essere la virtù premio a se stessa. "
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LIETA GIORNATA.
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Complimenti
Il grande Totò diceva: "siamo uomini o caporali"? Ognuno ha la sua dignità!