Ediz. Youcanprint Self publishing. Giugno 2017
(L’immagine che accompagna il racconto è un dipinto ad olio dello stesso autore)
PREFAZIONE
Casualmente mesi fa, balzò alla memoria un mio dipinto a olio del 19.. da me sempre tanto apprezzato però, messo da parte, in un angolo dello sgabuzzino.
L’ho rispolverato con dedizione e amore. L’ho adesso davanti ai mei occhi. Rappresenta una donna il cui volto è illuminato dalla luce di una semplice candela. Il dipinto è quello riportato nella copertina del libro.
A lei ho voluto dedicare, questa storia che desidera unicamente rendere in qualche modo merito alla sua impareggiabile bellezza e voluttà.
Il quadro venne fuori, a quel tempo, dal mio pennello di giovane, inesperto pittore e pessimo ritrattista come lo sono tutt’oggi, poco capace d’evidenziare ciò che di bello possedeva lei, il cui volto adesso, ha un nome: Rose.
Appena terminerò questa storia, emetterò, di sicuro, un grido incontenibile di eterna liberazione.
Sto Scherzando!
A mia moglie
L'amour ne disparaît jamais.
Il reste pour toujours dans le monde
L’amore non va mai via. Resta nel mondo in eterno.
Non se ne sperde mai una briciola per strada.
Pur dopo la morte continua negli altri.
Crea, si moltiplica a dismisura e poi si mostra in tutta la sua bellezza in ogni piccola cosa, soprattutto nelle varie espressioni dell’Arte.
L’Autore
QUELLA FEMMINA FUORI PAESE
Questa è la mia storia che desidero scrivere prima che arrivi la morte a condurmi nel regno beato.
Oramai sono un vecchio stralunato, abituato a parlare da solo, ovverosia con i miei fantasmi che mi fanno sempre una buona, dolce, compagnia.
E poi voglio alleggerire questo mio cervello popolato solo di ricordi che si accavallano prepotenti come se l’uno volesse sopraffare l’altro per predominare.
Sento d’alleggerirlo del peso delle mie reminiscenze per restare poi libero di volare assieme a lei.
Desidero raccontare adesso questa che considero la mia unica, vera, avventura della vita e poi magari lanciare le pagine fuori da questo balcone per farli giungere, trasportati dal vento mio amico e ruffiano, ai piedi della mia amata.
Non so se uscirà dalla mia fantasia, dal mio desiderio, dalla volontà, magari da quei lontani ricordi o da questa mia stupida testa impasticciata, oramai sovraffollata di sogni, inganni del cuore, semplici illusioni.
Chi sa chi può dirlo?
Mi chiamo Alessandro. Frequentavo allora l’ultimo anno di quel liceo classico, in quegli anni sessanta rigorosamente seguito dai ragazzi che sin dalle scuole medie inferiori, erano segnalati dalla preside come “dotati”, cioè meritevoli di proseguire gli studi classici ginnasiali.
Che sciocca, assurda convinzione quella di quei tempi beceri e bui!
Gli altri scolari negati per lo studio in genere e pure quelli meno portati verso le materie classiche, umanistiche, erano abbandonati al loro destino, insomma marchiati a vita, come elementi di scarto nella classifica dei valori umani, professionali, che avrebbero occupato i posti sicuramente marginali della società.
Di fatti erano indirizzati, semmai, verso gli istituti tecnici commerciali, industriali o altro.
Questa era la persuasione nelle famiglie dei grossi centri siciliani.
Da ragazzo, i miei capelli erano nettamente chiari.
Prendevano d’estate il colore della paglia ed erano marcati con una riga diritta sul lato sinistro, per indicare appunto, anche esteriormente, la retta via da seguire nella vita, che doveva essere principalmente basata sull’onestà, sul rispetto delle regole, morigerata; insomma integerrima sotto tutti i punti di vista.
Così imponeva mio padre al barbiere di famiglia e questi erano i principi, i capisaldi che dovevamo tenere a mente noi giovani considerati di buona famiglia.
I capelli comunemente chiamati “zazzera” erano lisciati e pettinati di buona mattina, prima di recarci a scuola, rigorosamente con acqua, raramente con brillantina.
L’aspetto esteriore di una persona, secondo gli insegnamenti di allora, doveva riflettere, quanto più possibile, il bagaglio d’integrità interiore che ogni persona doveva possedere ad ogni costo, come patrimonio personale, regalato, in dotazione ai figli dalla buona famiglia.
Mio padre era così fermamente convinto. Con tali principi e regole ci educava.
Me la ricordo bene la sua immagine e quando mi torna in mente, lo rivedo ancora come un gigante, alto come una montagna, forse perché nella mia memoria l’ho, con tempo, idealizzato.
Personalità ferrea, indiscutibile; dall’aspetto severo e rigido in ogni circostanza come se l’accenno di un sorriso, la gentilezza e la disponibilità indicassero vulnerabilità, leggerezza, adatta più al sesso debole che a un vero uomo di quei tempi.
Il suo cuore era però tenero, flessibile negli affetti come lo stelo di una rosa che porta con sé, inevitabilmente, le immancabili spine.
I papà dall’ora, negli approcci con i figli, difficilmente discutevano. Ordinavano semplicemente e i ragazzi dovevano solo ubbidire a ogni costo, senza la minima discussione.
Nel caso in cui i giovanotti con l’età cominciavano ad avere grilli per la testa e osassero pensare, obiettare, con un “se” o con un “ma” assumendosene i rischi e i pericoli, bene, era automatico che subentrassero, all’orizzonte, seri guai.
Era poi la sferza che parlava e convinceva più di ogni argomento, e se non bastava, in casi di necessità, si aggiungevano le punizioni e i divieti di qualsiasi e variegata natura.
C’era solo l‘imbarazzo della scelta.
Ricordo quel giorno come oggi, impresso nella mia mente. Ebbi l’incontro più incisivo, importante della mia vita.
Era una giornata di splendida primavera ed io mi trovavo spensierato e allegro come lo sono del resto, tutti i giovani a quell’età.
Con i compagni di classe, all’uscita della scuola, lungo il corso principale, stavamo discutendo allegramente, quando all’improvviso sentì un piacevolissimo profondo colpo al cuore, tanto che istintivamente portai la mano al petto per quel pizzicore strano e caldo che sollecitò perfino l‘anima mia a riflettere.
Poi un violento alito di vento caldo che proveniva da dentro il mio corpo, lo senti scalpitare come un puledro selvaggio imbestialito, simile a una pentola quando viene portata in lenta ebollizione e poi, all’improvviso, proprio inaspettatamente, travasa.
Vidi lei, quella bellissima ragazza
Rimasi estasiato, fermo pietrificato e non riuscì a procedere, mentre i miei compagni, proseguivano senza accorgersi di me e di quella mia strana sensazione di bollente torpore.
Poi uno di loro si voltò, fece tre passi indietro e mi venne incontro dicendomi:
- Cammina Alessandro!
Che sei cretino a incantarti in questo modo?
Perché ti sei fermato?
Chi credi d’aver visto?
Non farti accorgere dalla gente che squadri quella lì in questo modo.
Non lo sai chi è quella ragazza?
È troppo pericolosa e bisogna starle alla larga che già a guardarla in un certo modo, dicono, si commetta peccato mortale.
Dai muoviti.
È conosciuta da tutti quella donna…. insomma quella...
Si chiama…
Non ascoltavo più nulla perché rimasi per qualche attimo insensibile, come stordito, avulso dalla realtà intorno.
Vidi per la prima volta, sì proprio quella ragazza che per sentito dire, si vociferava abitasse lontano, insomma fuori paese, proprio in una casetta vicino al mare.
Sino a quel momento non mi ero interessato più di tanto di tale personaggio, semplicemente perché mai l’avevo visto prima, da tutti spettegolata, sotto voce, come “Quella lì”; colei che commette chissà quali “cose oscene e peccaminose”.
Devo confessare, diversamente dai giovani d’oggi, a quell’a età, nella mia mente ingenua e avulsa dagli insegnamenti della vita, non capivo, non percepivo neanche lontanamente che significato potesse avere la parola generica “cose” e pure “oscene”.
Non sapevo davvero nulla della vita, dei misteriosi concetti che riguardassero il sesso, degli arcani prorompenti istinti della carne, del desiderio sfrenato dei sensi e così via dicendo.
Fino a quell’età ero stato amabilmente isolato, circondato da rigidi paletti, ideali, divisori, imposti da quei canoni vigenti nella mia famiglia che aveva pensato bene di tutelarmi, allontanarmi, proteggermi da ogni “pericolo” o inquinamento che potesse classificarsi come “immorale, vizioso, dissoluto” contrario cioè ai principi rigidi della fede cristiana.
Ero, non me ne vergogno ad ammetterlo, completamente ignorante di ciò che girava attorno al concetto di “passionalità,”, quello che conduce per legge naturale all’eros, alla sensualità, insomma di tutto ciò che concerne la sfera dell’erotismo umano.
Il significato logico era certamente pienamente comprensibile; mi era pure ben nota la sua etimologia, ma quanto alla pratica!
Sì è vero, capitava di frequente che tra coetanei girassero sotto tono e nascostamente opinioni e vaghe informazioni sul sesso; però più confuse che strampalate.
Spesso espresse concitatamente, con quel senso di vergogna, perché peccaminose; più che dare chiarimenti, procuravano immaginazioni e chissà quali altri misfatti o devianze mentali che dovevano assolutamente scansarsi, per non cadere nella tentazione e non uscirne con l’animo deforme e meritevole dell’inferno.
Tutto ciò ad esso correlato, mi riferisco alla sensualità, era solo idealmente abbozzato nella mente, che a tradurlo a parole si poteva pure esprimere, ma passare all’atto pratico appariva semplicemente impossibile per un giovane, tanto arduo, astruso come difficilissimo era fare una corretta e perfetta traduzione dal latino o da greco.
Tutti i miei coetanei affermavano di sapere ogni cosa sulla sessualità, ma all’atto pratico e a volerne approfondire l’argomento, tagliavano corto, oppure cambiavano il discorso troncando l’interlocutore con la frase:
- Ma tu queste cose ancora non le sai davvero?
Te le devo spiegare io?
Chiedile piuttosto a tuo padre perché per quanto riguarda la mia persona ne so più di tutti.
Mi sono aggiornato da solo giacché a mio padre non oso minimante domandare.
Mi prenderebbe a sberle e di quelle sonore.
Ecco questa è la verità. In poche parole, il sesso rappresentava allora un perfetto tabù!
Per me l’erotismo era un pianeta tutto da scoprire e non conoscendolo, lo consideravo quanto una versione latina o greca di Catullo, Lucrezio, Orazio, Virgilio; tra i prosatori Cicerone, Tacito, Cesare, Livio, Seneca, e tra quei due autori di teatro, Plauto e Terenzio.
Vivevo nel mio mondo ancora ingenuo, popolato unicamente da persone per bene, rette, tutte oneste e chiare negli atteggiamenti così come l’acqua che sgorgava limpida dalla fonte.
A quell’età ero un ragazzo sereno e spensierato e non conoscevo ancora i guizzi del cuore, le ansie della mente e le inquietudini di quei sentimenti che all’improvviso, proprio quel preciso giorno, presero tutto di me e di volata, come se volessero recuperare il tempo perduto.
Lo fecero senza darmi il minimo avvertimento o preavviso per quelli che consideravo i miei vaghi sensi.
Mi portarono in mondo sconosciuto, ma terribilmente piacevole, affascinante, inebriante ove mai prima avevo provato deliziarmi, ove tutto era da liberare, svincolare e dare finalmente modo di scoprire le gioie naturali, quelle del sentimento e dello sconfinato mondo dell’eros.
Quando vidi quella ragazza, Rose, chiusi per un istante gli occhi e cominciai a fantasticare, dando sfogo improvvisamente alla mia infinita incosciente immaginazione, sino a quel momento imbrigliata e imbavagliata.
Vagavo con lei nel sogno senza sapere dove; la conducevo nei miei incanti inconfessabili, le parlavo e le sorridevo penetrando la bellezza di quegli occhi neri e bellissimi ove mi sperdevo e mi piaceva confondermi.
E poi del suo corpo facevo tutto ciò che la mia fervida fantasia ambiva soddisfare, per riprendere subito dopo la corsa affannosa e proseguire sempre più oltre sino a varcare quegli ambiti misteriosi, bramati, dove terra e cielo desiderano incontrarsi per baciarsi, abbracciarsi, ottenere poi finalmente, la quiete e l’attenuazione del piacere dopo l’esplosione dell’atto d’amore.
Immaginavo Rose come se solo con lei volessi restare, solo lei accarezzare per quel tempo che dura una vita, ma che finisce dopo un istante d’eccitante voglia di vivere e di esistere, per ripartire subito dopo, nella corsa affannosa e sfrenata.
Cominciai a provare per la prima volta, dal momento in cui la vidi, svariate sensazioni, come se inaspettatamente scoprissi di possedere in me le corde di un violino custodito in una cassaforte dorata, e solo lei le facesse vibrare soavemente, melodiosamente.
Ed io, inconsapevole e stupito, non sapevo di possederne, di custodirne il valore, il pregio e la musicalità che poi col tempo, scoprì avere il sapore eterno, vero, ambito e trasognato, della gioia della vita.
Oramai la consideravo nei mei pensieri tormentosi la mia sola, unica ”Rose”.
Era diventata nella fervida fantasia di giovane inesperto, la ragazza dei miei desideri che governava sovrana, anzi dominava completamente la mia bizzarria, abbattendo tutte le inutilità che sino a quel momento popolavano la mia mente, padroneggiando solo lei sul trono della mia ambizione.
Rose lo sapevano tutti, tranne il sottoscritto, abitava fuori paese come forse quelle altre della sua risma e categoria che vendevano se stesse, il loro corpo, probabilmente per sopravvivere, per non morire.
Che potevano fare del resto se la sorte, per molte di loro, era stata maligna lasciandole nell’indigenza, nella povertà più assoluta!
Così si vociferava in paese che Rose, essendo rimasta da sola, era stata costretta, poco per volta a condurre quell’esistenza per far fronte appunto alla povertà davvero inesorabile.
Suo padre, navigante, aveva conosciuto la madre in una delle sue visite nelle coste francesi.
Si erano amati, sposati; dal loro matrimonio e poi, trasferimento definitivo in Sicilia, era nata proprio lei, Rose.
Forse, per queste donne venditrici del loro corpo, in simili situazioni, si dovrebbero aprire le porte dell’inferno, della prigione?
Oppure morire di una morte repentina per togliersi di mezzo definitivamente dalla faccia della gente moralista e ipocrita?
Così venivano marchiate coloro che facevano del proprio corpo mercimonio: “Donne di malaffare, rovinafamiglie e dispensatrici di amore scandaloso, immorale, peccaminoso”.
Insomma le donne per bene e gli uomini con pochi scrupoli, le individuavano inesorabilmente e sotto voce, simile a quel venticello calunniatore, come “puttane”.
Non poteva farci nulla se Rose, agli occhi degli uomini e in coscienza anche delle donne, fosse più che attraente, affascinante, bellissima!
Era oramai giudicata, “una di quelle”, una malafemmina, ma lei rimaneva pur sempre terribilmente giovane, piacente, invitante e stuzzicante; affascinava, come se oramai tutti i libertini del paese dipendessero da lei.
Non aveva parenti in paese e se qualcuno per caso voleva collegare il parentado di “quella lì” a qualche famiglia locale, riceveva dall’interessato, riposta risentita, come fosse scandalizzato, e immediatamente ne prendeva le opportune distanze.
Rose trattava tutti quei paesani pidocchiosi con distacco e una certa altezzosità; non dava mai confidenza a nessuno; reagiva solo quando qualcuno la inquietava o la provocava volutamente per strada.
Camminando per i corsi del paese, con quei suoi movimenti pur sempre aggraziati, la camicetta appena allacciata, faceva bene intravedere quel seno tornito e tondeggiante, quasi acerbo come di una diciottenne.
Quei bighelloni giovinastri e gli omaccioni maturi che bivaccavano al solito bar e poi gli altri anziani attempati, seduti davanti al circolo, intenti nella lettura, quando Rose percorreva quelle vie, smettevano sistematicamente le loro “serie” incombenze, per concentrarsi ad ammirare le curve, le fattezze, la bellezza mozzafiato.
Provavano a stringere bene gli occhi con avidità a bramosia, per evitare si appannassero dalla loro stessa ingordigia che all’improvviso saliva da quella prospiciente pancia sino al cervello, oscurando loro l’intelletto e sollecitando i sensi, per la maggior parte di quei decrepiti, già da qualche tempo assopiti, avulsi da qualsiasi stimolo delle comuni percezioni.
Eppure esternavano sottotono, apprezzamenti infamanti, pronunziavano quelle mezze frasi disdicevoli e screditanti, più offensive di una qualsiasi parolaccia espressa chiaramente in quel becero intercalare dei discorsi da bar o da circolo.
Quei giovinastri e i cosiddetti uomini perditempo, non avevano remora alcuna a esprimere apertamente le loro sensazioni, sollecitati dalle loro frattaglie inservibili, scompensate, ubicate dalla cintola in giù.
Scattavano gli ipocriti come pecoroni da quelle sedie di metallo, facendo un baccano inconfondibile simile a un plotone di militari quando disgraziatamente i soldati ruzzolano l’uno sull’altro, a seguito di una mina scoppiata davanti a loro.
Rose si muoveva a volte, questo sì, con una certa disinvoltura, diciamo avvincente, piacevolmente stimolante.
Per gli studenti, risultava di certo, più intrigante, piuttosto che ammirare, scrutare un’opera d’arte dentro un opprimente museo cittadino di Palermo.
ROSE ERA... ROSE SEI… ROSE CHE CONQUISTA
Rose non seduceva, non affascinava, non rapiva né irretiva; non faceva strumento chiassoso appariscenze della sua naturale, generosa bellezza.
Rose soprattutto non amava: cedeva, offriva, acconsentiva e non guardava. Rose non odiava e non stimava; non parlava e non dava mai a nessuno la sua parola per un giuramento.
Rose non ballava ma danzava con la musica che usciva dal suo cuore e lei si trasformava in una farfalla con le ali d’oro e poi li tingeva di rosso, di viola e di giallo; di verde smeraldo e del celeste, infine spiccava libera nel cielo.
La melodia che Rose sentiva non usciva dal suono di un tamburo, né da una chitarra o da un flauto, ma solamente dall’ispirazione del suo cuore.
Chi abbracciava Rose non la stringeva mai a sé perché lei se ne volava subito via.
Scompariva con la mente di velluto e vagava nel suo mondo popolato di mostri o di fate incantate, in un prato di orchidee e di gigli, di narcisi e di ginestre, perché quello era il suo palcoscenico, come fosse soprannaturale, popolato unicamente dalle stelle del firmamento, da boschi, dalle foreste stregate, da oceani o montagne prodigiose.
E poi chiamava con un sorriso le sue fantasie infinite, magiche e inventate; dinanzi a loro adagiava, su un candido lino, il suo corpo per farsi solamente sfiorare, accarezzare come lei sapeva e voleva.
Rose non piangeva, non bagnava i suoi occhi delle lacrime dell’amore e del tormento. Nascondeva sempre con dolcezza il dolore semplicemente nella profondità della sua anima.
Rose non conosceva l’angoscia o l’amarezza perché la vita l’aveva già immunizzata e resa refrattaria al male.
Rose non domandava nulla a nessuno, e chi prendeva da lei, lasciava quel che voleva, e lei si voltava.
Copriva con le mani il suo volto fatto di cristallo, del colore della neve di primavera.
Rose amava pur negando a tutti l’amore.
Rose era la vita che scorreva in quella fetta di mare che rinfrangendo i flutti sulla sabbia e sulle coste scoscese, giocava con lei nel ritmo continuo e infinito del suo canto crepuscolare.
Le onde la inseguivano in un gioco di schiuma misto a sale, tingendole il volto del candore della vita, proprio quando nasce nuova e si proietta nella speranza.
A Rose piaceva scappare per tornare e si divertiva a bendare me, divenuto poi suo amante, perché desiderava assaporassi l’amore per quello che sentivo e mai per ciò che vedevo.
Rose era la bellezza della mia vita trasformata in persona; Rose dalle fattezze meravigliose che regalava con generosità a tutti per pochi soldi o per un sorriso di tenera gioia.
Rose era la donna che così aveva deciso di essere e di vivere, perché sapeva, immaginava, presentiva che presto sarebbe svanita nel nulla per non tornare mai più.
Per questo Rose lasciava le sue orme con i piedi nudi sulla sabbia, per giocare ancora col suo mare, nel ritmo dell’eternità e mentre quello subito dopo gliele cancellava, lei rimetteva di nuovo le sue impronte, perché la sua vita così doveva essere, così voleva vivere, cioè esistere per lasciare e restare viva, immortalata nel tempo comunque, ovunque, eternamente.
Rose era la gioventù che viveva per la gioia di esistere e non correva mai sui quei granelli di sabbia, perché erano loro che la incalzavano per sentire il battito del suo cuore e il profumo della sua pelle di donna.
Rose non pettinava i capelli ma li lasciava liberi di godere il sole e di arricciolarli con la salsedine del suo mare e con il rumore proveniente dalle conchiglie magiche.
Rose amava e poi donava sempre.
Rose indugiava, spettava solo me, l’uomo forse della sua vita. Rose attendeva chi bussasse alla porta per aprirla al suo innamorato della vita… e poi trovò me.
Rose vedeva e accettò col tempo solo me. Rose era l’illusione della vita, era la mia vita fatta sogno, abbaglio, che aveva accecato l’anima imperniandola del suo lei.
Mi cercava tra quei dieci, cento mille uomini che giungevano alla sua porta e si distendevano sul suo letto per ricevere la melodia delle carezze, dei baci, e poi per essere sfiorati magistralmente come le corde del violino, per emettere la melodia della vita che si rinnova nel soave, armonioso canto dell’amore carnale.
Voto: | su 2 votanti |
godibilissimo. Giulio Soro
è la prima volta che ti leggo e devo dire che mi piace molto il tuo modo di scrivere.E' fluido, forbito ed anche il ritmo è ben tenuto. Non mi fa meraviglia.
La Sicilia è terra di grandi scrittori
Complimenti per la pubblicazione!
Nicol
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