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Musulmania

Musulmania


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Nota dell’autore: i luoghi, i personaggi e le situazioni descritte in questo racconto sono frutto di pura fantasia, ogni riferimento a luoghi, persone o fatti reali è da ritenersi puramente casuale.
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Il giorno che inaugurarono il primo lotto del quartiere popolare, oltre alla banda, le scolaresche schierate e il sindaco con la fascia, era arrivato pure un onorevole, insieme al vescovo.
Dopo che la banda ebbe suonato l’inno di Mameli, le personalità presenti sul palco misero in scena il solito cerimonioso spettacolino; il sindaco fece il suo bel discorso per raccattare qualche consenso in più in vista delle imminenti elezioni comunali; l’onorevole, da buon democristiano, si sperticò in elogi verso il sindaco che apparteneva al suo stesso partito e il vescovo, dopo aver incensato i due riconoscendone l’indiscussa integrità morale e le indubbie capacità politiche, benedì la targa del nuovo quartiere; pomposamente chiamato: Villaggio del nuovo rinascimento! Manco ci trovassimo nella Firenze medicea, invece che nell’industriosa Pianura Padana.


All’epoca, si era nella primavera del 1954, avevo otto anni. E per un bambino schierato sull’attenti col suo bel grembiulino, la lunga cerimonia infarcita di pomposi, spesso e volentieri anche vacui, incomprensibili discorsi, fu molto peggio della lezione di catechismo che, ogni santa domenica, ero costretto a sorbirmi per non essere espulso dall’oratorio.
Di quella cerimonia ricordo la stanchezza dopo aver trascorso quasi due ore sull’attenti. Ma soprattutto la felicità negli occhi dei miei genitori quando, dopo che il vescovo ebbe benedetto la targa, il sindaco lesse i nomi e l’onorevole, stringendo loro vigorosamente le mani, consegnò le chiavi agli assegnatari degli appartamenti del quartiere.
Per noi, che abitavamo in un’insalubre casa di corte, in due locali privi di servizi igienici (la latrina comune, da dividere con altre quattro famiglie, come un’edicola votiva nella quale prostrarsi, e non certo per pregare, campeggiava in mezzo al cortile), entrare in un tre locali più servizi fu come scoprire le meravigliose stanze di un fiabesco castello.
Aprendo la porta del bagno, io e i miei genitori ci soffermammo a guardare con occhi meravigliati, volgendo lo sguardo all’intorno e in ordine cronologico: il lavello, il bidè, il water e la vasca in ghisa smaltata.
“Finalmente mia mamma non mi trascinerà più ai bagni pubblici il sabato”, pensai sul momento; ma subito dopo, riflettendoci, compresi che quella vasca sarebbe stata una iattura: ogni volta che fossi tornato dall’oratorio per l’ora di cena sudato e sporco di terra, invece che la solita strigliata alla bell’ e meglio, mi sarebbe toccato un lungo e doloroso bagno completo.


Il primo lotto del quartiere si componeva di otto palazzine disposte a L attorno all’ampio parco centrale (i futuri lotti avrebbero negli anni completato il perimetro del parco). Le palazzine, rigorosamente senza ascensore, erano a tre piani, più quello rialzato, per un totale di otto appartamenti per scala. Ogni appartamento aveva la sua piccola cantina di pertinenza e, inoltre, c’era una cantina grande (dagli inquilini chiamato: cantinone) accessibile, oltre che dalla scala condominiale, tramite un scivolo esterno: questo per consentire ai residenti di ricoverare biciclette e motocicli. I box per le automobili, invece, non erano contemplati nel progetto (crescendo ipotizzai che gli architetti avessero pensato che il motociclo fosse il massimo a cui potesse aspirare un operaio). Poco male, visto che l’automobile era il sogno di tutti ma realizzato ancora da pochi. E i pochi che la possedevano, per tenere d’occhio il prezioso bene, la parcheggiavano nel vialetto sotto casa, con le ruote di destra sull’erba delle aiuole per non intralciare il passaggio.
Il villaggio venne completato agli inizi degli anni sessanta. Altre sedici palazzine (rigorosamente senza ascensore e, nonostante la motorizzazione di massa fosse già iniziata, ancora prive di un box di pertinenza per ogni appartamento) si erano aggiunte alle prime otto, andando a completare il perimetro del parco: polmone verde spelacchiato racchiuso al centro del villaggio del nuovo rinascimento.


Allora gli extracomunitari erano ancora di là da venire. Incontrare un uomo di colore era come vincere un terno al lotto; eppure i motivi di frizione non mancavano. C’era pur sempre il razzismo domestico da coltivare, per chi avesse voluto sbizzarrirsi in beceri insulti. Il miracolo economico aveva portato molti italiani a migrare dal sud al nord in cerca di un lavoro onesto e salariato. Quale migliore occasione per sfogare l’odio represso contro qualcuno che si percepiva culturalmente diverso?
Ci vollero anni prima che nord e sud, all’interno del villaggio, iniziassero a guardarsi un po’ meno in cagnesco. E magari a questo, contribuirono inconsapevolmente le masse di diseredati in fuga, prima dai paesi dell’est dopo la dissoluzione dell’impero sovietico e, di seguito, dal sud del mondo: ci vuole sempre e comunque qualcuno su cui rovesciare le nostre frustrazioni, se no, chi incolpi quando le cose vanno male?


Agli inizi degli anni ottanta, l’istituto case popolari propose ai residenti di acquistare l’immobile a un prezzo inferiore a quello di mercato. Molte famiglie accettarono l’alettante proposta, fra queste anche la nostra, e corsero in banca ad accendere un muto.
E anche questo particolare contribuì, quando le famiglie di extracomunitari iniziarono a prendere il posto di quelle autoctone, ad accendere l’odio nei loro confronti. Chi aveva acquistato l’immobile a costo di duri sacrifici economici, mal sopportava la presenza di vicini di pianerottolo che avrebbero contribuito ad abbassare il valore degli appartamenti; all’epoca, dopo il boom immobiliare di fine novecento inizio anni duemila, già in caduta libera.


La multietnicità aveva portato i residenti a seguire, più o meno fedelmente, i dettami di diverse religioni. Ora, quella imperante all’interno del villaggio non era più la cristiana ma bensì la musulmana.
Rammento ancora il periodo in cui fra i residenti stava per scoppiare una vera e propria guerra di religione.


Era accaduto che, durante il Ramadan, i condomini di una palazzina, tutti di religione musulmana, non avendo un posto dove riunirsi per pregare, cambiarono destinazione d’uso, senza autorizzazione alcuna, al cosiddetto cantinone, trasformandolo in luogo di culto.
Poco male se ad usufruirne fossero stati solo i residenti della palazzina in questione. Ma quando per la preghiera del venerdì i vialetti vennero invasi da un numero imprecisato di uomini provenienti non solo dal paese, ma pure dal circondario, la protesta montò. Per fortuna, prima che la faccenda degenerasse in qualcosa di drammatico, arrivarono i vigili insieme ai carabinieri ad apporre i sigilli al cantinone.
Per onestà intellettuale, ci sarebbe da aggiungere che ‘sti poveri musulmani non avevano tutti i torti. Loro l’avevano affittato un capannone nella zona industriale per riunirsi a pregare. E a molti miei compaesani stava pure bene, visto che si trovava ben distante dal centro abitato. Ma quella testa d’uovo del sindaco, per accontentare quattro suoi biliosi elettori leghisti aveva pensato bene di stracciare gli accordi presi verbalmente con il loro Imam, quando questi, prima di stipulare il contratto d’affitto, era andato a chiedergli se potevano usarlo come luogo di culto.


Tornando a noi; ormai chi poteva permetterselo accettava di vendere per un tozzo di pane pur di andarsene dal villaggio del nuovo rinascimento; sarcasticamente ribattezzato “Musulmania” da una banda di ragazzotti di estrema destra che, nottetempo, avevano pure imbrattato la toponomastica scrivendo con una bomboletta spray nera il nuovo nome sul cartello all’inizio della via.


Nella primavera del 2014, soltanto un pugno di residenti della prima ora resisteva stoicamente nelle loro enclave italiche (leggi appartamenti invendibili) all’interno di Musulmania.
Io, ero uno di loro. I miei genitori erano passati a miglior vita lasciandomi erede del loro patrimonio: costituito dall’appartamento e da un modesto conto corrente che usai per le esequie, prima di mia madre e tre mesi dopo di mio padre.
Mi era anche capitata l’occasione di disfarmi dell’immobile; un marocchino, parente dei condomini del piano rialzato, era interessato: gli piaceva il mio appartamento perché era sito all’ultimo piano, diceva. Ma con i soldi che ci avrei fatto, da un’altra parte avrei potuto comprare un box. Considerando anche il fatto che non possedevo neanche un misero Ape Piaggio da mettere a ricovero, non mi sembrava ‘sto gran affare, così rifiutai la poco generosa offerta.
E poi, io lì al villaggio del nuovo rinascimento o Musulmania che dir si voglia, ci avevo passato praticamente tutta la mia vita; e mi piaceva ancora starci, specialmente ora che, raggiunta l’agognata pensione, potevo godermi la vista sul parco spelacchiato dal balcone dell’appartamento piuttosto che da una panchina al suo interno. E andavo anche d’amore e d’accordo con il mio dirimpettaio di pianerottolo: un negro del Burundi. Sì, lo so, che il politicamente corretto imporrebbe il: di colore. Ma non essendo mai stato razzista, oltre che politicamente sempre scorretto, posso permettermi di chiamarlo, senza livore e con molta buona ironia: negro. Che poi, se ci pensate bene, “di colore” non vuol dire niente… di che colore? Nero, giallo, bianco, verde, a pois? Vista la piega multietnica che sta prendendo il mondo, per essere precisi e non confondersi, si dovrebbe comunque specificare il colore, credo. Io non sono razzista, l’ho già detto e lo ribadisco con forza; però mi domando: ma i fascisti, perché non li possono soffrire i neri? In fondo è il loro colore di riferimento, no? Potrei capire i verdi, no, non intendo il partito dei verdi, ma bensì quei leghisti verdi di rabbia e di camicia che una volta sbavavano contro i terroni e adesso hanno rivolto le loro attenzioni ai negri. Oppure i rossi… ma loro affermano con forza di non essere mai stati razzisti. E magari sarà anche vero che la maggioranza non lo sia… A tal proposito, voglio raccontarvi un aneddoto illuminante.


Ero seduto fuori dal bar, insieme a un amico che ancora oggi si professa comunista DOC. Si discuteva di razzismo e, questi, mi stava spiegando perché lui non odiava nessuno; ma proprio nessuno, eh! Mi aveva fatto ‘na capa tanta e alla fine mi aveva quasi convinto; quando, all’improvviso, era saltato su cominciando a inveire con parole infamanti contro un industriale che transitava davanti al bar alla guida della sua Ferrari. «Amico mio caro» l’avevo allora interrotto. «Tu sei più razzista di loro. L’invidia sociale, se non la più grave, è sicuramente la più pericolosa forma di razzismo che conosca. Ti saluto, Stalin!» l’avevo apostrofato, lasciandolo allibito.


Il mio colore di riferimento, politicamente parlando, non è né il bianco né il verde né il rosso né tantomeno il nero; questo penso si sia capito. Mi tengo equidistante da ogni schieramento; e se proprio dovessi scegliere una tinta di riferimento… opterei per l’amaranto: come il colore che m’incendia il volto quando sento parlare i politici in televisione promettendo di tutto e di più.


Dicevo del mio dirimpettaio di pianerottolo; una bravissima persona, moglie e tre figli che fanno un casino della madonna fino a tardi. Ma io sopporto; in fondo mi fanno compagnia, sono sempre in casa da solo.
Questo qui, quando ci incontriamo uscendo di casa mi saluta esclamando ironicamente: «Ciao uomo bianco!» e io, di rimando: «Ciao Negher!» e giù a ridere tutti e due.
No, lui non è musulmano… il marocchino del piano rialzato invece sì, e pure l’egiziano suo dirimpettaio.
Quelli del primo piano, invece, sono ferventi cristiani: vengono dal Salvador.
Al secondo ci sta una famiglia di rumeni e un’altra di albanesi; questi, gli albanesi intendo, furono i primi extracomunitari che si stabilirono nel villaggio.
Insomma, è un coacervo di lingue, di urla e odori di cucine diverse. Quando mi capita di salire le scale vicino al mezzogiorno, è come fare il giro del mondo dei sapori. Il guaio è che la tromba delle scale agisce da camino e tutti gli odori raggruppandosi in alto diventando insopportabili… va beh, ma io sprango la porta, metto il salsicciotto di stoffa sul pavimento ben premuto contro, alzo il volume della televisione e me ne frego.
Io vado praticamente d’accordo con tutte le etnie… anche se non sono ancora ben riuscito a inquadrare alcuni comportamenti dei musulmani.
Ogni tanto, dal balcone, mi metto a osservare il marocchino e la sua famiglia quando escono di casa.
Allora, succede questo; a volte vedo lei, lunga tunica nera e velo in testa d’ordinanza, con i figli al fianco camminare davanti a lui che, due passi indietro, pare controllarla; Altre volte vedo lui davanti e lei e i figli due passi indietro che seguono il capobranco… mai una volta che li abbia visti camminare affiancati, scambiarsi qualche battuta, ridere… boh? Tradizioni loro, da rispettare comunque.
E questo è niente, il marocchino, che di mestiere fa il muratore, mi diceva che durante il mese del Ramadan non tocca né cibo né acqua dall’alba al tramonto, nemmeno con il sole a quaranta gradi; roba da farsi venire una sincope… contento lui. Sono affari suoi, e anche questo non mi pare un buon motivo per essere razzisti.


Due settimane fa, me ne stavo seduto su una panchina del parco, strategicamente messa tra le madri musulmane e i loro bambini da una parte, e lo sparuto gruppo di mamme italiche e i loro pargoli dall’altra.
Mi divertivo ad ascoltare le madri arabe parlare fra loro senza capirci un accidente; mentre con la coda dell’occhio controllavano che i bambini non si allontanassero troppo; non perché temessero chissà cosa, ma perché i bambini, com’è giusto che sia oltre che logico, erano attratti dai coetanei italiani che giocavano a pochi metri e che, naturalmente, avanzavano a loro volta verso il centro controllati dalle madri. Ma poco prima che i due gruppi arrivassero a sfiorarsi, la cacofonia di urla stridule delle madri italiane e musulmane li riportava all'ordine, almeno per un po’.
A un certo punto, sento una voce da dietro: «Ciao Tommaso» mi giro. Era Augusto, il nipote di un mio caro amico. «Ciao giovanotto… come va la vita?» gli chiedo come faccio sempre.
Lui mette giù il muso, si siede vicino a me e si confida. Così vengo a sapere che frequenta una ragazza egiziana che abita sotto di lui, che il padre di lei li ha scoperti e l’ha riempita di botte; perché, a quando dice lui, l’ha già promessa a un uomo molto più grande. Ora, stando alle parole di Augusto, lei ha solo sedici anni, lui diciassette, entrambi minorenni. Il promesso sposo, invece, che sta in Egitto, ne ha ben quarantacinque! E lì, mi monta la rabbia.
Alla fine ‘sto povero ragazzino, con il magone mi chiede un consiglio.
Rammentando l’espediente messo in atto molti anni prima da due piccioncini per scardinare l’opposizione ferrea di un padre calabrese che non voleva permettere a sua figlia, promessa a un suo lontano parente di Locri, di fidanzarsi con un ragazzo del nord; fui tentato di consigliargli la fuitina. Ma nel momento di dirlo la frase morì in gola, “sei pazzo, quelli erano maggiorenni, potresti passare dei guai”, pensai rimanendo con la bocca aperta senza proferire verbo.
O Augusto sapeva leggere il pensiero, o era fin troppo sveglio. Fatto sta che il giorno dopo i due ragazzini scapparono di casa. I genitori di lui e di lei, rigorosamente divisi, lanciarono i loro appelli in televisione. Il padre e la madre di Augusto, uno accanto all’altro, parlarono entrambi. Mentre dall’altra parte parlò solo il padre con la madre silente che ascoltava a testa bassa un passo indietro.
Gli appelli caddero nel vuoto e i due ragazzini furono trovati due giorni dopo che vagavano smarriti nella stazione di Bologna.
Augusto, dopo l’abbraccio ricevette la giusta ramanzina. Della ragazzina invece si persero le tracce. Venni poi a sapere, da amici egiziani, che era stata mandata dai parenti in Egitto e che non sarebbe più tornata in Italia, se non da sposata con il quarantacinquenne a cui era stata promessa dal padre… forse sarebbe meglio dire: venduta come una schiava!
Ecco! Questa è una di quelle vicende che mi fanno imbufalire, e che potrebbe spingermi a chiamare: di colore, un negro… Ma alla fine, non ci riesco proprio ad essere razzista, e continuerò a chiamare: negro il mio dirimpettaio e fascisti i razzisti di qualsiasi colore.


FINE




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Racconto scritto il 26/09/2017 - 21:05
Da vecchio scarpone
Letta n.1060 volte.
Voto:
su 4 votanti


Commenti


Ciao Paola... anche a me fa piacere. Quando ho visto il tuo nome ho fatto un salto sulla sedia. Un altro l'ho fatto quando ho visto che ho cannato tutti i nomi di chi commentava... 'na bella figuraccia tanto per iniziare... va beh, ci devo prendere la mano. Ciao Paola

vecchio scarpone 29/09/2017 - 17:55

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AVVISO IMPORTANTE: per chi ha commentato, scusate ma ho fatto un casino. ho confuso i commenti: quello di Marilla doveva essere di Mirella e pure gli altri nomi vanno scalati. Il fatto è che ho preso i nomi sopra i commenti per quelli dell'autore, poi mi sono accorto che invece sono quelli sotto, non essendo esperto del sito, non so come cancellare e sostituire i nomi. Vi prego di scusarmi, sono mortificato. Prossima volta ci starò più attento.

vecchio scarpone 29/09/2017 - 17:52

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Ciao Giancarlo...l'avevo capito, un piacere ritrovarti anche qui...
Bravo come sempre!!!

PAOLA SALZANO 29/09/2017 - 17:51

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Risposta al commento di Paola Salsano: Ciao Paola, noi ci conosciamo... sono sempre lo stesso Vecchio che sta di là.
Ciao Paola
Giancarlo

vecchio scarpone 29/09/2017 - 17:44

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Risposta al commento di Gian Maria: ti ringrazio per il bentornato e, sopratutto, per condividere pienamente il mio pensiero. Ciao Gian Maria
Giancarlo

vecchio scarpone 29/09/2017 - 17:42

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risposta al commento di Mirella: ti ringrazio per aver letto e apprezzato il racconto. Ciao Mirella
Giancarlo

vecchio scarpone 29/09/2017 - 17:39

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risposta al commento di Marilla: Ti ringrazio per aver letto questo racconto.
Per quanto riguarda l'occupazine delle case, hai perfettamente ragione, aggiungo solo che è una guerra tra poveri che non coinvolge solo gli extracomunitari ma anche gli italiani, è capitato anche che fosse una famiglia italiana a entrare in una casa dopo che l'anziano residente fosse stato ricoverato... detto cìò, non possiamo sicuramente accoglierli tutti, ma nemmeno lasciarli a marcire nei veri e propri campi di concentramento libici. E' ora che l'Europa opulenta, che finora ci ha lasciati soli a gestire il fenomeno, si dia una mossa. Ciao Marilla
Giancarlo

vecchio scarpone 29/09/2017 - 17:36

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*****molto apprezzato!

Marilla Tramonto 29/09/2017 - 16:21

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VECCHIO SCARPONE... Mi limito a dire che è scritto benissimo.Hai ripetuto spesso quasi a sottolinearlo che non sei razzista, ok l'Italia è una nazione dove il razzismo attecchisce poco perche in tempi passati abbiamo avuto le nostre emigrazioni in America.Questo non giustifica che popolazioni di qualsiasi colore si approprino di case il cui proprietario assentato per una degenza all'ospedale torna e si trova in mezzo alla strada è un fatto vero.Prevale l'astio più che il razzismo.

mirella narducci 29/09/2017 - 14:55

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Letto e riletto, con gran piacere. Concordo sia con Francesco Gentile che Paola Salzano, che mi hanno preceduto... il pregio di questo brano sta nel contenuto, condivisibile in toto, ma non solo; anche la componente narrativa, lo stile e la fluidità di narrazione è lodevole. Un saluto...

GianMaria Agosti 29/09/2017 - 13:19

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Colgo l'invito di Francesco, ma in realtà è da un po' che volevo leggerlo.
È un racconto molto bello, per la scrittura e per il tema importante...
Attualissimo, condivido il messaggio del suo autore, contro ogni forma di discriminazione e di pregiudizio.
Davvero bravo e ben ritrovato.
5 * meritatissime

PAOLA SALZANO 29/09/2017 - 13:05

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ti ringrazio per i complimenti, veramente graditi... beh, se il colore di riferimento dell'umanità fosse l'amaranto, forse il mondo girerebbe nel giusto verso. Ciao Francesco

vecchio scarpone 29/09/2017 - 10:03

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Straordinario, bello, importante. Caro "vecchio scarpone". Oppure Uomo bianco? ahahah Beh, io preferisco l'amaranto... come te. Consiglio a tutti, ma proprio a tutti, di leggere questo racconto; di un eccezionale scrittore. Complimenti vivissimi

Francesco Gentile 28/09/2017 - 23:43

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