STORIA DI UN ARDITO
Giovane, coraggioso ed entusiasta, animato dagli spiriti nazionalisti e da quegli ideali di Patria che, nei primi anni del novecento, segnò il destino di numerosi giovani ed ebbe il suo sviluppo e triste epilogo nelle vicende del colonialismo nel Corno d’Africa e nelle devastanti guerre mondiali. E la storia triste di un volontario delle squadre dei bersaglieri arditi, partito per l’Africa per partecipare alla guerra e trovare infine la morte in un banale incidente, quasi uno scherzo del destino.
La mancanza di documentazione ha dovuto lasciare campo alla fantasia, trovando spunto nei ricordi delle narrazioni orali e nelle sue foto in divisa con il grande cappello di bersagliere. Nella sua breve vita un risvolto romantico mi aveva particolarmente affascinato: la foto di una giovane ragazza bruna, il suo amore che non riuscì a sopravvivere al dolore. Due vite spezzate, ardori spenti. E’ la storia di mio zio sottotenente Calogero Giglio che non ho conosciuto, ma il suo ricordo è rimasto vivo tra noi.
L’antica foto in bianco e nero, presa dalla scatola di latta rimandava l’immagine di un giovane in divisa con il grande cappello tipico dei bersaglieri. Bello, bruno, con il profilo greco e grandi occhi scuri mi sembrava terribile che fosse morto a ventinove anni. La sua storia veniva narrata da mia madre, che dopo tanti anni non riusciva ancora a farsi una ragione per la perdita precoce di quel fratello. Mi raccontava del suo grande coraggio e che solo a diciotto anni aveva aderito alle tematiche nazionalistiche e come tanti giovani dell’epoca imbottiti di nobili ideali, erano stati mandati a conquistare terre, decimando le popolazioni locali e a perdere la vita a vent’anni. Divenne volontario e come bersagliere del Corpo degli Arditi, partì per la sua campagna militare in Africa. Fu quella una generazione di giovani che, tra la fine dell’ottocento e i primi anni del novecento fu segnata dalle guerre, dalla morte precoce e dalla inquietudine culturale di un’epoca in cui la lotta estrema e la guerra venivano esaltate e spesso considerate come igiene del mondo.
Ancora guerre di Roma, mai stanca dopo millenni, di conquiste e di invasioni. Si esaltava il coraggio e l’ eroismo per camuffare la tenace volontà di conquista e l’oscuro disegno di sottomettere, di estremizzare una violenza che finì poi per caratterizzare i conflitti del novecento.
Anche lui si trovò in divisa, pronto ad offrire la sua vita per la Patria e seguì come sottoufficiale il suo esercito che giunse nella caserma di Torino, in stazione di attesa per partire per l’Africa. Erano giorni pieni di ansia e di fermenti. Gli piaceva quella città che non aveva mai visto, con bei palazzi e il grande fiume Po che l’attraversava. In caserma si respirava rigore, rigidi disciplinari di allenamenti e di regole da imparare, ma nelle ore libere si divertiva con gli altri a girare per la città. Fu durante una di queste uscite che il caso decise di farlo incontrare con un conoscente che non vedeva da tempo, un nobile di origini siciliane che da tempo si era stabilito con la sua famiglia in quella città. Dopo i convenevoli lo invitò ad un ricevimento che avrebbe avuto luogo il sabato successivo nel suo palazzo.
Alto, bruno, elegante nella divisa, fece ingresso con altri colleghi invitati, nel salone principale dell’antico palazzo nobiliare che per quella sera era stato riccamente addobbato e in cui già gli invitati, in abito da sera e con sfoggio, da parte delle donne, di gioielli di gran pregio, si muovevano tra le sale illuminate sfarzosamente dai grandi lampadari in cristallo. Le sale erano ricolme di profumi, di voci e del suono melodico di una piccola orchestra. Egli si guardò intorno con i suoi grandi occhi scuri, un po’ smarrito perché non abituato a quel genere di festeggiamenti. Ma il suo sguardo si soffermò su una giovane ragazza bruna, con un bellissimo sorriso e elegantissima nel suo lungo abito, prezioso nei decori, fresco in una tonalità rosa chiaro.
Si sentì attratto da quella giovane e fece in modo di essere presentato alla famiglia e finalmente strinse la piccola e delicata mano. Decisero di fare un ballo e da quel momento i loro occhi non riuscivano a staccarsi e parlarono a lungo. Si chiamava Adriana e viveva a Torino e apparteneva ad una ricca famiglia . Dopo quella sera Calogero, in divisa e con l’ansia di rivederla si fece ricevere dai suoi genitori e ne chiese la mano. Come una favola felice, il fidanzamento fu presto annunciato con il consenso delle famiglie e i due giovani vissero magicamente quei giorni felici, con grandi promesse per il futuro.
-Vedrai tornerò presto e potremo sposarci- diceva Calogero e Adriana immaginava già la loro casa e la loro vita felice.
Infine giunse la tanto attesa chiamata per la partenza in Africa e venne il momento per la coppia di salutarsi. Con grande tristezza si abbracciarono alla stazione, scambiandosi mille promesse e desiderosi di rivedersi presto. Non immaginavano che quello sarebbe stato il loro ultimo abbraccio.
Il percorso che il treno tracciò sui binari che attraversavano la penisola, fu lungo e stancante. Chiusi nelle divise, gli uomini stavano silenziosi, ognuno immerso nei propri pensieri. Era primavera e il paesaggio attraversato dal convoglio mostrava il suo bellissimo volto ricco di vegetazione, di fiori, di profumi nell’aria tiepida.
I giovani militari, provenienti da ogni angolo dell’Italia, seduti scompostamente per l’irrequietezza che li animava, si scambiavano opinioni ed esperienze, fantasticavano sulle aspettative che quella guerra offriva.
- Cosa pensi troveremo in Africa?- diceva uno
- Di sicuro animali feroci! - diceva l’altro, tentando di fare lo spiritoso
- E la guerra no?- aggiungeva un altro ancora
Scherzavano, ma cercavano con l’immaginazione di squarciare il velo dell’ incognita, di ciò che li aspettava, di ciò che dovevano fare.
Attraversarono città, paesi e villaggi, poi il Mediterraneo verso il grande continente africano, e le ore sembravano allungarsi in quella immensità azzurra e senza nuvole. Quando sbarcarono in Africa, il sole alto nel cielo distendeva ombre in quella terra dai confini immensi , il caldo era già intenso e i giovani pronti alla battaglia chiusi nelle divise cominciavano a sudare . Giunsero infine sul Corno d’Africa e finalmente presero posizione nei vari accampamenti. Avevano attraversato una parte di deserto e il vento caldo e a volte violento li aveva resi coscienti che si trovavano in una realtà che non immaginavano, diversa, di cui non facevano parte. Una sottile paura serpeggiava nel loro animo e si sentivano smarriti in quel mondo antico e affascinante, ma si dicevano che il loro compito era quello di occupare terre, bruciare i villaggi, invadere i campi e distruggere le vite degli indigeni. Ucciderli e i sopravvissuti sottometterli. Presero postazione nelle trincee e iniziarono le operazioni militari. Iniziò la violenza e l’invasione. Anche Calogero eseguì gli ordini, ma cominciò ad essere impressionato da tutto ciò e non vedeva cosa ci fosse di eroico in quello che facevano. La delusione iniziava a farsi strada nella sua mente e anziché eroe cominciò a sentirsi un vigliacco. Vedeva indigeni inermi morire. Civili, donne, bambini e anziani privati di tutto. Uccidevano non soltanto vite umane, ma civiltà diverse e remote, culture sconosciute e poi c’era il caldo asfissiante, la sporcizia, le mosche, la sabbia. Un senso di nausea l’afferrò insieme ad una rabbia improvvisa, confuso dalle domande che non trovavano risposta e che gli agitavano l’anima.
L’unico sollievo lo trovava nelle lettere che inviava Adriana da Torino, a cui rispondeva subito, e quelle dei genitori che scrivevano dal suo paese. Scriveva dicendo di star bene, di essere contento di onorare la Patria e che sarebbe tornato presto. Ma in cuor suo sapeva che non era più così. Vedeva tanti suoi compagni trasformati in belve, mentre veniva osannata la violenza. Ma tanti come lui avevano il cuore pieno di pentimento e non vedevano l’ora di rientrare.
Le battaglie lasciavano i campi con tanti morti e ne svelavano l’orrore.
Ma non fu per quello che Calogero morì, il destino aveva riservato per lui un brutto scherzo.
Il camion per andare nel loro accampamento e preparare i bagagli per la partenza, era pronto. Poi avrebbero proseguito per il porto. Era contento perché sarebbe finito l’incubo e fra non molto avrebbe rivisto i suoi e poi la sua amata Adriana.
Veloce, come era stata sempre la sua vita preparò il suo piccolo bagaglio e si posizionarono sul mezzo di trasporto vecchio e scoperto. In quel momento giunse la richiesta da parte del comando di dover prendere dei documenti importanti presso una località vicina e quindi il percorso prefissato subiva una modifica.
Era il 30 dicembre del 1928 e il vecchio camion percorreva la strada sterrata piena di buche e sassi che facevano rimbalzare di frequente il mezzo e dovevano fare attenzione ai fucili, tenuti carichi anche per il pericolo di belve feroci che transitavano nella zona.
Calogero si sentiva stanco perché gli ultimi giorni erano stati febbrili e adesso sentiva uno strano torpore impadronirsi di lui. Fu quasi senza accorgersene che poggiò il volto sul fucile carico messo in verticale e fu così che una buca più grande, presa in pieno dalle ruote, provocò un brutto strattone alla vettura e il colpo partì dal fucile, uccidendolo sul colpo. La sua vita, i suoi sogni, le sue speranze si conclusero in quel momento, per uno strano scherzo del destino.
La notizia della tragedia giunse subito ai familiari che sconvolti dalla grande perdita, si chiusero in un lutto simile ad una sepoltura. Le aperture della loro casa furono coperte da tendaggi scuri, così pure gli specchi e le finestre. Anche la giovane fidanzata, che contava le ore per riabbracciarlo, alla notizia ebbe un collasso e spezzata da quel dolore non si riprese più e in poco tempo la vita si spense anche per lei.
Anche quest’anno, come gli altri passati, mi sono recata nel giorno della commemorazione dei defunti, nella cappella di famiglia e soffermandomi davanti al suo ritratto, posto sulla lapide, ho incontrato il suo sorriso. Ho deciso così di ricordarlo in questo breve racconto dall’epilogo tragico e per ricordare a me stessa e agli altri che la vita è un bene prezioso, così come il diritto di viverla è un atto sacro per tutte le creature, diritto spesso dissacrato e dimenticato.
Mi viene in mente che la sua vita si può paragonare alla vita di una farfalla, che è abbastanza breve nel suo percorso, ma bellissima quando da bruco, chiuso e avvolto nelle sue membrane, finalmente apre le sue meravigliose e colorate ali che la portano a volare libera nel cielo.
Giovane, coraggioso ed entusiasta, animato dagli spiriti nazionalisti e da quegli ideali di Patria che, nei primi anni del novecento, segnò il destino di numerosi giovani ed ebbe il suo sviluppo e triste epilogo nelle vicende del colonialismo nel Corno d’Africa e nelle devastanti guerre mondiali. E la storia triste di un volontario delle squadre dei bersaglieri arditi, partito per l’Africa per partecipare alla guerra e trovare infine la morte in un banale incidente, quasi uno scherzo del destino.
La mancanza di documentazione ha dovuto lasciare campo alla fantasia, trovando spunto nei ricordi delle narrazioni orali e nelle sue foto in divisa con il grande cappello di bersagliere. Nella sua breve vita un risvolto romantico mi aveva particolarmente affascinato: la foto di una giovane ragazza bruna, il suo amore che non riuscì a sopravvivere al dolore. Due vite spezzate, ardori spenti. E’ la storia di mio zio sottotenente Calogero Giglio che non ho conosciuto, ma il suo ricordo è rimasto vivo tra noi.
L’antica foto in bianco e nero, presa dalla scatola di latta rimandava l’immagine di un giovane in divisa con il grande cappello tipico dei bersaglieri. Bello, bruno, con il profilo greco e grandi occhi scuri mi sembrava terribile che fosse morto a ventinove anni. La sua storia veniva narrata da mia madre, che dopo tanti anni non riusciva ancora a farsi una ragione per la perdita precoce di quel fratello. Mi raccontava del suo grande coraggio e che solo a diciotto anni aveva aderito alle tematiche nazionalistiche e come tanti giovani dell’epoca imbottiti di nobili ideali, erano stati mandati a conquistare terre, decimando le popolazioni locali e a perdere la vita a vent’anni. Divenne volontario e come bersagliere del Corpo degli Arditi, partì per la sua campagna militare in Africa. Fu quella una generazione di giovani che, tra la fine dell’ottocento e i primi anni del novecento fu segnata dalle guerre, dalla morte precoce e dalla inquietudine culturale di un’epoca in cui la lotta estrema e la guerra venivano esaltate e spesso considerate come igiene del mondo.
Ancora guerre di Roma, mai stanca dopo millenni, di conquiste e di invasioni. Si esaltava il coraggio e l’ eroismo per camuffare la tenace volontà di conquista e l’oscuro disegno di sottomettere, di estremizzare una violenza che finì poi per caratterizzare i conflitti del novecento.
Anche lui si trovò in divisa, pronto ad offrire la sua vita per la Patria e seguì come sottoufficiale il suo esercito che giunse nella caserma di Torino, in stazione di attesa per partire per l’Africa. Erano giorni pieni di ansia e di fermenti. Gli piaceva quella città che non aveva mai visto, con bei palazzi e il grande fiume Po che l’attraversava. In caserma si respirava rigore, rigidi disciplinari di allenamenti e di regole da imparare, ma nelle ore libere si divertiva con gli altri a girare per la città. Fu durante una di queste uscite che il caso decise di farlo incontrare con un conoscente che non vedeva da tempo, un nobile di origini siciliane che da tempo si era stabilito con la sua famiglia in quella città. Dopo i convenevoli lo invitò ad un ricevimento che avrebbe avuto luogo il sabato successivo nel suo palazzo.
Alto, bruno, elegante nella divisa, fece ingresso con altri colleghi invitati, nel salone principale dell’antico palazzo nobiliare che per quella sera era stato riccamente addobbato e in cui già gli invitati, in abito da sera e con sfoggio, da parte delle donne, di gioielli di gran pregio, si muovevano tra le sale illuminate sfarzosamente dai grandi lampadari in cristallo. Le sale erano ricolme di profumi, di voci e del suono melodico di una piccola orchestra. Egli si guardò intorno con i suoi grandi occhi scuri, un po’ smarrito perché non abituato a quel genere di festeggiamenti. Ma il suo sguardo si soffermò su una giovane ragazza bruna, con un bellissimo sorriso e elegantissima nel suo lungo abito, prezioso nei decori, fresco in una tonalità rosa chiaro.
Si sentì attratto da quella giovane e fece in modo di essere presentato alla famiglia e finalmente strinse la piccola e delicata mano. Decisero di fare un ballo e da quel momento i loro occhi non riuscivano a staccarsi e parlarono a lungo. Si chiamava Adriana e viveva a Torino e apparteneva ad una ricca famiglia . Dopo quella sera Calogero, in divisa e con l’ansia di rivederla si fece ricevere dai suoi genitori e ne chiese la mano. Come una favola felice, il fidanzamento fu presto annunciato con il consenso delle famiglie e i due giovani vissero magicamente quei giorni felici, con grandi promesse per il futuro.
-Vedrai tornerò presto e potremo sposarci- diceva Calogero e Adriana immaginava già la loro casa e la loro vita felice.
Infine giunse la tanto attesa chiamata per la partenza in Africa e venne il momento per la coppia di salutarsi. Con grande tristezza si abbracciarono alla stazione, scambiandosi mille promesse e desiderosi di rivedersi presto. Non immaginavano che quello sarebbe stato il loro ultimo abbraccio.
Il percorso che il treno tracciò sui binari che attraversavano la penisola, fu lungo e stancante. Chiusi nelle divise, gli uomini stavano silenziosi, ognuno immerso nei propri pensieri. Era primavera e il paesaggio attraversato dal convoglio mostrava il suo bellissimo volto ricco di vegetazione, di fiori, di profumi nell’aria tiepida.
I giovani militari, provenienti da ogni angolo dell’Italia, seduti scompostamente per l’irrequietezza che li animava, si scambiavano opinioni ed esperienze, fantasticavano sulle aspettative che quella guerra offriva.
- Cosa pensi troveremo in Africa?- diceva uno
- Di sicuro animali feroci! - diceva l’altro, tentando di fare lo spiritoso
- E la guerra no?- aggiungeva un altro ancora
Scherzavano, ma cercavano con l’immaginazione di squarciare il velo dell’ incognita, di ciò che li aspettava, di ciò che dovevano fare.
Attraversarono città, paesi e villaggi, poi il Mediterraneo verso il grande continente africano, e le ore sembravano allungarsi in quella immensità azzurra e senza nuvole. Quando sbarcarono in Africa, il sole alto nel cielo distendeva ombre in quella terra dai confini immensi , il caldo era già intenso e i giovani pronti alla battaglia chiusi nelle divise cominciavano a sudare . Giunsero infine sul Corno d’Africa e finalmente presero posizione nei vari accampamenti. Avevano attraversato una parte di deserto e il vento caldo e a volte violento li aveva resi coscienti che si trovavano in una realtà che non immaginavano, diversa, di cui non facevano parte. Una sottile paura serpeggiava nel loro animo e si sentivano smarriti in quel mondo antico e affascinante, ma si dicevano che il loro compito era quello di occupare terre, bruciare i villaggi, invadere i campi e distruggere le vite degli indigeni. Ucciderli e i sopravvissuti sottometterli. Presero postazione nelle trincee e iniziarono le operazioni militari. Iniziò la violenza e l’invasione. Anche Calogero eseguì gli ordini, ma cominciò ad essere impressionato da tutto ciò e non vedeva cosa ci fosse di eroico in quello che facevano. La delusione iniziava a farsi strada nella sua mente e anziché eroe cominciò a sentirsi un vigliacco. Vedeva indigeni inermi morire. Civili, donne, bambini e anziani privati di tutto. Uccidevano non soltanto vite umane, ma civiltà diverse e remote, culture sconosciute e poi c’era il caldo asfissiante, la sporcizia, le mosche, la sabbia. Un senso di nausea l’afferrò insieme ad una rabbia improvvisa, confuso dalle domande che non trovavano risposta e che gli agitavano l’anima.
L’unico sollievo lo trovava nelle lettere che inviava Adriana da Torino, a cui rispondeva subito, e quelle dei genitori che scrivevano dal suo paese. Scriveva dicendo di star bene, di essere contento di onorare la Patria e che sarebbe tornato presto. Ma in cuor suo sapeva che non era più così. Vedeva tanti suoi compagni trasformati in belve, mentre veniva osannata la violenza. Ma tanti come lui avevano il cuore pieno di pentimento e non vedevano l’ora di rientrare.
Le battaglie lasciavano i campi con tanti morti e ne svelavano l’orrore.
Ma non fu per quello che Calogero morì, il destino aveva riservato per lui un brutto scherzo.
Il camion per andare nel loro accampamento e preparare i bagagli per la partenza, era pronto. Poi avrebbero proseguito per il porto. Era contento perché sarebbe finito l’incubo e fra non molto avrebbe rivisto i suoi e poi la sua amata Adriana.
Veloce, come era stata sempre la sua vita preparò il suo piccolo bagaglio e si posizionarono sul mezzo di trasporto vecchio e scoperto. In quel momento giunse la richiesta da parte del comando di dover prendere dei documenti importanti presso una località vicina e quindi il percorso prefissato subiva una modifica.
Era il 30 dicembre del 1928 e il vecchio camion percorreva la strada sterrata piena di buche e sassi che facevano rimbalzare di frequente il mezzo e dovevano fare attenzione ai fucili, tenuti carichi anche per il pericolo di belve feroci che transitavano nella zona.
Calogero si sentiva stanco perché gli ultimi giorni erano stati febbrili e adesso sentiva uno strano torpore impadronirsi di lui. Fu quasi senza accorgersene che poggiò il volto sul fucile carico messo in verticale e fu così che una buca più grande, presa in pieno dalle ruote, provocò un brutto strattone alla vettura e il colpo partì dal fucile, uccidendolo sul colpo. La sua vita, i suoi sogni, le sue speranze si conclusero in quel momento, per uno strano scherzo del destino.
La notizia della tragedia giunse subito ai familiari che sconvolti dalla grande perdita, si chiusero in un lutto simile ad una sepoltura. Le aperture della loro casa furono coperte da tendaggi scuri, così pure gli specchi e le finestre. Anche la giovane fidanzata, che contava le ore per riabbracciarlo, alla notizia ebbe un collasso e spezzata da quel dolore non si riprese più e in poco tempo la vita si spense anche per lei.
Anche quest’anno, come gli altri passati, mi sono recata nel giorno della commemorazione dei defunti, nella cappella di famiglia e soffermandomi davanti al suo ritratto, posto sulla lapide, ho incontrato il suo sorriso. Ho deciso così di ricordarlo in questo breve racconto dall’epilogo tragico e per ricordare a me stessa e agli altri che la vita è un bene prezioso, così come il diritto di viverla è un atto sacro per tutte le creature, diritto spesso dissacrato e dimenticato.
Mi viene in mente che la sua vita si può paragonare alla vita di una farfalla, che è abbastanza breve nel suo percorso, ma bellissima quando da bruco, chiuso e avvolto nelle sue membrane, finalmente apre le sue meravigliose e colorate ali che la portano a volare libera nel cielo.
Racconto scritto il 08/11/2017 - 17:18
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Commenti
grazie Giulio!
Patrizia Lo Bue 08/11/2017 - 22:20
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Mi è piaciuto molto questo racconto su di un ragazzo che entra nell'Arma col sogno di servire il suo paese e si ritrova davanti alla violenza e all'insensatezza della guerra. Ben scritto e coinvolgente. Giulio Soro
Giulio Soro 08/11/2017 - 18:11
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