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L'uomo che ha salvato il mondo

Era un periodo di grandissima tensione tra le due superpotenze. All’inizio del mese un caccia sovietico aveva abbattuto un aereo di linea sudcoreano che, per errore, era penetrato nello spazio aereo dell’URSS, erano morte tutte le 269 persone a bordo; il 1° settembre 1983 a controllare i radar c’era un militare disciplinato e ottuso che riferì ai suoi superiori: un apparecchio, probabilmente un aereo spia degli Stati Uniti, aveva violato il territorio della madrepatria. I generali e i politici applicarono le regole. In pochi minuti il maggiore Gennadij Osipovich che aveva affiancato il jet civile con il suo Sukhoi, ricevette l’ordine di abbattere l’intruso. «Non dissi alla base che era un Boeing, perché nessuno me lo aveva chiesto», si è giustificato in seguito. Militari, ex agenti del KGB non sono abituati a mettere in discussione le procedure. Pochi mesi prima il Presidente Reagan aveva coniato l’espressione “Impero del Male” e annunciato il programma delle guerre stellari. Si programmava il dispiegamento dei missili Pershing in Europa. Al Cremlino c’era Yuri Andropov che si era convinto che gli USA stavano preparando un attacco, un primo colpo nucleare. Quello è stato il momento di maggiore rischio per l’umanità, ancora peggiore della crisi dei missili a Cuba. 26 settembre 1983, il tenente colonnello sovietico sperava di trascorrere una tranquilla serata di lavoro nel bunker Serpukhov 15 nel distretto di Kalunga, ha il turno di notte e deve controllare i dati che vengono inviati dai satelliti che spiano i movimenti degli armamenti statunitensi. Alle ore 00:15, il sistema di sorveglianza lanciò un primo allarme segnalando, tra l’altro, la presenza di un missile in avvicinamento al territorio sovietico e lanciato da una base militare sita in Montana; poi tutto d’un tratto i suoi schermi gli indicano che altri cinque missili intercontinentali sono partiti da suddetta base. Tutti si girarono verso di me, aspettando un ordine. Io ero come paralizzato, dapprincipio. Ci mettemmo subito a controllare l’operatività del sistema, ventinove livelli in tutto», pochissimi minuti e si accese un’altra luce, poi un’altra. «Nessun dubbio, il sistema diceva che erano in corso lanci multipli dalla stessa base». «Una nostra comunicazione avrebbe dato ai vertici del paese al massimo 12 minuti. Poi sarebbe stato troppo tardi». Ero sicuro che la segnalazione fosse sbagliata, nonostante tutto. «Ero un analista, ero certo che si trattasse di un errore, me lo diceva la mia intuizione» Così comunicai che c’era stato un malfunzionamento del sistema. “I quindici minuti di attesa furono lunghissimi. E se eravamo noi a sbagliare? Ma nessun missile colpì l’Unione Sovietica”. Da buon analista avevo avuto ragione, nonostante il computer mi segnalasse l’avvicinamento ero convinto dell'errore della macchina nonostante la gran parte dei tecnici la pensava diversamente; non ho avvertito i miei superiori. Il cervellone Krokus, orgoglio dell’URSS , ultimo modello informatico a quel tempo, era ritenuto infallibile, di sicura affidabilità e precisione, ma era ancora da rodare e quella fantomatica notte qualche problemino l’ha avuto. Gli ordini ricevuti erano chiari e non contestabili, se krokus avesse segnalato qualunque movimento sospetto, l’addetto al controllo doveva immediatamente riferire ai superiori, che loro avrebbero subito prese le contromisure. Il tenente colonnello non rispettando il protocollo, evitò che la Mutual Total Destruction venisse applicata, perché sapeva bene che l’allarme lanciato percorrerà la scala gerarchica e porterà in pochi minuti alla massiccia operazione di rappresaglia: partiranno missili balistici sufficienti a distruggere obiettivi strategici in Inghilterra, Francia, Germania Ovest e Stati Uniti. La cosa abbastanza singolare e che riuscì a tranquillizzare gli altri militari, che erano di turno con lui; impedendo che avvertissero le alte sfere e in quel modo salvò il mondo, e in pochi lo sanno. Era chiaro che in quella situazione eravamo tutti stressati, vedevo in tutti aumentare la velocità del battito cardiaco, la respirazione affannosa e addirittura alcuni miei uomini erano entrati in panico. Notavo che alcuni avevano il volto arrossato e caldo, il cuore che batteva forte e le mani sudate e altri ancora con la nausea. Eppure erano uomini selezionati, controllati periodicamente agli stress emotivi, ma evidentemente quel tipo di situazione era del tutto inusuale e particolare, che non aveva i crismi della normalità. Di solito ho sempre usata l’autorevolezza con i miei subalterni, ma in quel caso ho usato l’autorità e le maniere forti, per scuotere i miei uomini. Si sono ripresi quasi tutti, tranne qualcuno che a fatica sono riuscito a tranquillizzare; ho spiegato e fatto capire a rigor di logica, che era il cervellone non abbastanza rodato ad essere andato in tilt e che noi dovevamo solo aspettare. Sono stati i quindici minuti più lunghi della mia vita, cercavo di pensare ad altro; meditavo su quello che avrei lasciato se solo l'affanno mi avesse preso e mi è passata l’intero mio vissuto davanti agli occhi, ma cosa ero io rispetto a tutto il resto dell’umanità? Capita, sin troppo spesso nel mondo, di avvertire il peso di una vita che non soddisfa, dei giorni che passano senza una prospettiva, degli incroci senza sapere dove andare. Capita di non avere una direzione, di essere spaventati, spaesati, di ascoltare il vuoto dei propri passi chiedendosene il senso. Capita di essere stanchi, di sentirsi come orme che spariscono sulla sabbia, di accorgersi che, forse, si è qui privi di un vero perché. Intanto, il tempo scorre in fretta e noi non riusciamo a farlo nostro, ma in quei quindici minuti, un minuto non è affatto un minuto; si allunga, per sempre, come un oceano di tempo. Per me, fu lo starmene sdraiato al campeggio a guardare le stelle cadenti; le foglie gialle degli aceri che fiancheggiavano la nostra strada; le mani di mia nonna, e come la sua pelle sembrava di carta. E la prima volta che vidi mio figlio Dmitrij nella sala prenatale e mia moglie sofferente ma felice a letto nella stanza accanto. Potrei essere piuttosto incazzato per quello che mi è successo, ma è difficile restare arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel mondo. È stato il giorno in cui ho capito che c’era tutta un’intera vita dietro a ogni cosa, e un’incredibile forza benevola che voleva che sapessi che non c’era motivo di avere paura. Così tutto venne insabbiato e finì tra le storie “soverscenno secretno”, top secret. “Alla fine, quando mi congedai, non mi concessero nemmeno la solita promozione a colonnello. Se il tenente colonnello o qualsiasi altro militare avesse dato l'allarme, in circa quindici minuti il Cremlino avrebbe reagito sganciando sull'Europa e sull'America una serie di bombe atomiche che avrebbero provocato un disastro nucleare dalle conseguenze inimmaginabili. No!, che ho fatto? Niente di speciale, solamente il mio lavoro. Ero l'uomo giusto al posto giusto al momento giusto. Avevo tutti i dati, se avessi dato l'allarme nessuno avrebbe potuto dire una parola contro di me, ma sapevo che un eventuale attacco nucleare degli Stati Uniti all'Urss sarebbe stato portato con centinaia di missili, e non con un solo minuteman. Conoscevo la realtà della Guerra Fredda e ho agito con freddezza e intelligenza e l’ho raccontata solo nel 1998 all’epoca riformista di Gorbaciov, prima non me l’hanno permesso e fui premiato pubblicamente a New York. Dall'Urss, però, nessun riconoscimento, anzi ricevetti addirittura un richiamo per non aver eseguito la procedura standard di pericolo. In realtà è stata una fortuna per questo pianeta che il tenente colonnello non fosse un militare qualunque, uno dei tanti addetti alla sorveglianza a distanza dei silos americani nei quali sono custoditi i missili intercontinentali. Lui era un analista che quella notte si trovò quasi casualmente a fare un turno di guardia ai calcolatori, sostituendo uno dei militari professionisti. Un altro avrebbe semplicemente controllato i segnali in arrivo (cosa che lui fece) e si sarebbe limitato ad applicare il protocollo, informando i suoi superiori: «Missili americani in arrivo. Colpiranno il territorio dell’Unione Sovietica fra 25/30 minuti». L’analista reagì invece diversamente, con grande professionalità. Si convinse che fosse «un’avaria del sistema». Il giovane soldato, inizialmente pietrificato dalla comparsa di quella luce rossa, ritenne impossibile la presenza di un missile in quanto, nessuna super potenza avrebbe potuto attaccare l’Unione Sovietica lanciando una sola ed unica testata. Pochi minuti dopo, però, il satellite iniziò a segnalare la presenza di altre testate termonucleari in avvicinamento, ben 4 per la precisione, e questo attirò immediatamente l’attenzione e la preoccupazione del tenente colonnello. Cosa fare a questo punto? Lanciare l’allarme, in base a quanto segnalato dal sistema, avrebbe significato lo scoppio di una guerra nucleare su vasta scala. Lasciare perdere avrebbe potuto portare al crollo dell’Unione Sovietica in caso di un attacco vero da parte statunitense. Aveva solo una decina di minuti per decidere se avvisare il Cremlino oppure no ed il soldato era perfettamente a conoscenza del fatto che una telefonata avrebbe potuto cambiare le sorti o del mondo intero o dell’URSS, in particolare in quel 1983. Quell’anno, infatti, fu il più pericoloso dell’intera Guerra Fredda con il Presidente Reagan che definì l’Unione Sovietica “l’Impero del Male” e con Andropov fortemente intenzionato ad attaccare gli USA. A un attacco, quindi, si sarebbe risposto con un altro, scatenando una vera e propria rappresaglia termonucleare. Stanislav, tuttavia, grazie alle sue approfondite conoscenze del sistema sovietico OKO, ritenne i vari allarmi una serie di errori e decise, alla fine, di riportare il tutto ai suoi superiori come un malfunzionamento del sistema. La sua decisione si rivelò fortunatamente corretta, perché venne accertato il falso allarme, probabilmente dovuto a una particolare congiunzione tra il nostro pianeta, il Sole, gli ammassi nuvolosi presenti quel giorno e l’orbita del satellite OKO. Non era vero, infatti, che gli Stati Uniti lanciarono una serie di missili termonucleari contro la Russia e la sua presenza quel giorno in quel bunker fu una vera e propria fortuna per l’intero pianeta Terra. Nonostante abbia salvato il mondo intero, però, nessuna onorificenza gli venne concessa a parte le sole gratifiche ottenute a livello militare, che furono: L’onorificenza all’ordine del servizio alla patria nelle forze armate di III classe. La medaglia commemorativa per il giubileo dei 100 anni dalla nascita di Lenin. La medaglia per il servizio impeccabile di III classe. Ed infine, la medaglia per il giubileo dei 50 anni delle forze armate URSS. Sarebbe stato lecito aspettarsi una qualche forma di riconoscimento, di ringraziamento, per avere evitato un abbaglio di simili proporzioni. La sua decisione, in fondo, era stata quella giusta; il disastro era stato evitato. Eppure, il fatto di avere rivelato che qualcosa non funzionava, in quel meccanismo sovietico che doveva essere considerato perfetto per definizione, divenne una colpa incancellabile. L'ufficiale troppo scrupoloso fu redarguito, e, in seguito, posto in pensione anticipata. Come un qualsiasi militare punito per un errore inconfessabile. Se qualcosa era andato storto, era a causa di qualcuno molto più in alto di lui, e che non doveva essere in alcun modo smascherato. Petrov non ebbe altra scelta che ritirarsi in buon ordine, roso dall'amarezza, in un paese vicino alla capitale che si chiama Frjazino, che deve il nome agli artisti italiani che venivano a lavorare in Russia al tempo degli Zar. Era in pace con sé stesso. In fondo, aveva soltanto seguito il precetto di Gogol: «Evita qualsiasi frenesia, lascia che i tuoi giudizi smascherino la stupidità».



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Racconto scritto il 02/12/2017 - 00:20
Da Savino Spina
Letta n.962 volte.
Voto:
su 2 votanti


Commenti


un bel racconto

GIANCARLO POETA DELL'AMORE 02/12/2017 - 21:08

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Solo con il passare del tempo, ed in particolare grazie ad indagini condotte da alcuni giornalisti, la sua storia emerse e molti Paesi decisero di riconoscere ufficialmente l’impegno e la giusta analisi di Stanislav Petrov. In onore del tenente colonnello l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite istituì la “Giornata Internazionale per l’eliminazione delle armi nucleari”, celebrata il 26 settembre di ogni anno. I suoi superiori non la pensarono così: fu obbligato ad andare in pensione anticipatamente, ebbe un esaurimento nervoso per lo stress. La sua storia è venuta alla luce solo molti anni dopo, anche perché, come ama dire lui, “in fondo, ho deciso solo di non fare niente”! A 76 anni, nel 2016, faceva la vita di sempre nel palazzo di Fryasino, poi la salute è peggiorata e il figlio Dmitrij lo ha ricoverato più volte in ospedale; il 19 maggio di quest’anno è venuto a mancare.

Savino Spina 02/12/2017 - 08:57

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