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Attimo condiviso

L’attimo condiviso


«E’ per questo attimo condiviso
che è valsa la pena inseguirti per cent’anni
ora che so cos’è la felicità
posso andarmene sereno.»


La solitudine da combattere ogni giorno, ogni ora, ogni minuto da quando, tre anni prima (il 20 giugno 2035), la compagna di una vita se n’era volata in cielo, era il tormento dell’ottantanovenne Marco Aurora.
Era riuscito a scavallare un altro inverno, il periodo più duro, con le sue giornate brevi e cupe da trascorrere chiuso in casa; e la primavera, seduto sulla solita panchina del parco a osservare la natura rinnovarsi, se n’era volata via con i fiori del ciliegio.


Seduto sulla solita panchina, ombreggiata dalle ampie fronde di un tiglio, Marco (camicia bianca con le maniche arrotolate fin sopra ai gomiti, panama in testa e occhiali dalla montatura nera) trascorreva in modo insolito la mattinata, simile a molte altre, di un estate particolarmente afosa.
L’anomalia che sarebbe balzata agli occhi di chi, ogni mattina, fosse solito incontrarlo al parco; sarebbe stata la mancanza del solito quotidiano, dietro cui si riparava per sbirciare, da sopra le pagine, ad intervalli più o meno regolari, la varia umanità che, deambulando, smuoveva la ghiaia dei vialetti immersi nel verde.

Osservava, Marco, con sguardo aperto e un’espressione serena, il parco; e gli occhi, saturi d’incanto, parevano vedere ben altro che l’erba bruciata dalla perdurante siccità, le panchine imbrattate e scomode, o l’esausto zampillo della scalcinata fontana sita nel suo centro.
Chissà, forse sognava ad occhi aperti, dipingendo un luogo fuori dal tempo, dove l’erba non sarebbe mai ingiallita, le panchine avrebbero avuto sedute comode e pulite e lo zampillo danzante della fontana sarebbe salito sempre più in alto, senza mai stancarsi.


«Nonna! Nonna! Mamma! Mamma! Andiamo alla fontana.» La vocina eccitata di un bimbetto che correndo si avvicinava spense, in uno sbatter di ciglia, lo straniamento di Marco: ora il suo sguardo non era più lieve e i suoi occhi, tornando a guardare la realtà, si riempirono di un’antica tristezza.
«Robertino, non correre! Fermati!» la voce stridula della madre fermò la sua corsa davanti alla panchina.
«Volevo solo arrivare alla fontana», disse il ragazzino, facendosi venire il magone.
«Lo so, ma nonna e mamma, non ce la fanno a correre», si giustificò la madre.
«La nonna, ha pure molto caldo…» saltò su l’anziana. Indicò la panchina all’ombra dove era seduto Marco e, rivolgendosi alla figlia, aggiunse: «Senti, Anita, io mi siedo lì… tu accompagna tuo figlio a questa benedetta fontana».
«Come vuoi, mamma», rispose lei. Poi, puntando l’indice addosso al figlio, proseguì indurendo il tono: «Senza correre eh! Altrimenti andiamo a casa… di corsa!»
«Va bene, mamma», fece il bambino, incamminandosi a testa bassa.


«Posso?» chiese gentilmente la signora, avvicinandosi alla panchina.
«Prego!» fece Marco, scostandosi dal centro verso destra per far posto alla donna. Poi, senza peraltro accorgersene, si mise a fissare intensamente i lineamenti e i capelli argentei di lei.
«Ci conosciamo?» domandò allora la donna, sentendosi osservata.
«Non credo», rispose Marco, tornando subitamente a guardare il parco.
Ora era lei a fissare, con un tale trasporto i lineamenti antichi di Marco, da farlo sentire in dovere di esprimere il proprio disagio. Usando una delicatezza d’altri tempi, egli, così si espresse: «Se la mia presenza la disturba, non si faccia remore, posso andare a sedermi su un’altra panchina, se questo può servire a farla star meglio».
Un sorriso imbarazzato attraversò il volto della donna, arrossando l’incarnato candido. «Ma no, che dice, non mi permetterei mai…» si giustificò. Abbassando lo sguardo cercò in mezzo alla ghiaia del vialetto prospicente la panchina il coraggio per esplicitare il suo curioso pensiero. «Il fatto è che, osservandola, mi pare di cogliere un non so che di… di… no, non di familiare; ma di già visto, già incontrato in non so quale situazione… Lei, è certo che non ci siamo visti prima d’ora?»
Ora che il ghiaccio era rotto, Marco, volgendo lo sguardo su di lei, si prese la libertà di mettersi ad osservare i lineamenti delicati del viso della sua interlocutrice, con un’intensità tale da crearle disagio.
«La prego», sospirò lei, scostando lo sguardo di lato, quando gli occhi di entrambi si penetrarono.
«Mi scusi…» fece allora Marco. Poi, gettando lo sguardo lontano, proseguì: «Vede, il fatto è che quest’incontro, del tutto casuale, ha fatto scattare qualcosa dentro qui…» indicando con l’indice la tempia destra tornò con lo sguardo sulla donna. «Non ricordo quando e dove… eppure devo averla conosciuta; mi son detto al primo sguardo… Non so, ho incrociato così tanti volti nella mia lunga esistenza che, magari, mi è capitato di sfiorare anche il suo, per strada piuttosto che in un bar».
«Non credo che un volto, incrociato per un attimo, possa restare indelebilmente impresso tra i ricordi da portare con sé per il resto della vita», replicò sorridendo la donna.
«Lei crede?» fece Marco, sistemandosi gli occhiali prima di attraversare con le pupille liquide le lenti indossate da entrambi e raggiungere i grandi occhi grigioverdi di lei. «Eppure, io ricordo nitidamente due occhi grandi, come i suoi; che, a dire il vero, vidi solo in fotografia.» E mentre lei ascoltava incredula, concluse domandandole: «Spero di non apparire invadente, o peggio, maleducato, se le chiedo il suo nome?»
E come poteva rifiutarsi di rispondere a un uomo che le si rivolgeva con tale garbo. Un garbo che in lei accese ricordi di un tempo lontano, di desideri evaporati in rimpianti. «Galatea… mi chiamo, Galatea», rispose in un sussurro.
E tanto bastò a far sospirare Marco che, alzandosi dalla panchina, guardandola negli occhi declamò commosso: «E’ per questo attimo condiviso… che è valsa la pena inseguirti per cent’anni… Ora che so cos’è la felicità… posso andarmene sereno».
Galatea ascoltava attonita il disvelarsi dell’iperbole, nata da un desiderio a lei ben noto, mai udita dalla viva voce dell’autore. «Tu… tu… non puoi essere che, Marco…» provò a dire alla fine, sfidando una commozione così profonda da toglierle il fiato. Inspirando l’incredulità si fece certezza. «Quanto tempo è passato?» gli chiese allora, con occhi lucidi.
«Più di vent’anni… dal mio ultimo messaggio… che non ottenne mai risposta», le rammentò Marco. Poi, accomodandosi accanto a lei, sospirando aggiunse con trasporto: «Quando l’ho desiderato, sfiorare il tuo calore, come sto facendo ora… Ascoltare la tua voce, perdermi nei lineamenti delicati del tuo viso... Rammento una fotografia che mi inviasti: un primo piano con i capelli, neri, scarmigliati… Ecco, l’unica differenza che certifica lo scorrere del tempo, è nell’argentea chioma da fascinosa signora che, a onor del vero, ti dona moltissimo…»
«Ti prego, Marco», lo interruppe, scostandosi impercettibilmente.
«Ti fa dunque così schifo, sedere accanto a un vecchio?» rilanciò Marco, imbrunendosi.
«Non sei il solo ad essere invecchiato. E non mi fa per niente schifo averti incontrato… ma è accaduto tutto così all’improvviso…» provò a giustificarsi Galatea, tendendo gli angoli della bocca sino a disegnare un malinconico sorriso.
Prontamente rintuzzata da Marco: «Tu sei una splendida sessantaseienne… Io, un decrepito quasi novantenne… La verità è che sarebbe troppo, anche il solo sperare che avessi conservato un buon ricordo del nostro rapporto… come definirlo: virtuale? Epistolare?» Guardandola attese una risposta, che lei pareva stesse cercando ma tardava ad arrivare. Allora alzò la posta, chiedendole con tono di sfida: «Io ho conservato ogni messaggio che ci scambiammo in quei lunghi, passionali sette anni… Tu, puoi dire altrettanto?»
Qualche attimo d’attesa e, finalmente, stimolata dalla poco gradita domanda di Marco, Galatea riemerse dai ricordi con qualcosa di tangibile. «Quella dedica, che poc’anzi hai declamato…» iniziò dicendo, cercando lo Smartphone dentro la borsa. «Ricordi che ti inviai l’immagine della schermata dello Smart?»
«Rammento», confermò Marco.
«Ricordi lo sfondo?» proseguì lei, cercando un’immagine sullo schermo.
«Una ninfea sopra la quale, in corsivo, avevi riportato la mia dedica», rispose lucidamente Marco.
«E’ questa?» fece Galatea indurendo il tono, mettendogli lo Smartphone sotto il naso.
«Dunque… anche tu… anche tu…» biascicò commosso, senza riuscire a terminare la frase.
«Sì, anch’io…» lo aiutò Galatea, sorridendo. «S’era detto che m’avresti inseguita per cent’anni… E, a Dio piacendo, per cent’anni l’avrei conservata, per mostrarti la prova tangibile, di non aver dimenticato il nostro appuntamento, dentro l’attimo condiviso.»
«Come ho fatto a dubitare di te… Sono uno stupido! Chiedo venia», fece Marco, visibilmente contrito.
«Non sei uno stupido. E’ il tempo che alimenta e fa crescere il dubbio… E se anche non son cento, vent’anni d’attesa sono davvero tanti», lo confortò Galatea.
«L’attimo, è finalmente giunto… Prima dei cent’anni previsti, ma sempre troppo tardi, per condividere la passione coinvolgente, tanto volte agognata», chiosò Marco, scuotendo il capo.
«Se anche fosse giunto, vent’anni fa… non l’avremmo comunque goduto appieno. Mai avremmo trovato il coraggio di tradire chi, riamati, abbiamo amato», obiettò Galatea.
«Tuo marito», fece Marco, aggrottando le sopracciglia.
Galatea confermò annuendo. Poi aggiunse: «E tua moglie».
«Un ben strano modo d’amare, il nostro», osservò Marco, accennando un triste sorriso.
«Per niente!» saltò su stizzita Galatea. Poi, abbassando il tono, proseguì: «Succede molto più spesso di quanto si sia portati a credere, specialmente nelle lunghe unioni, che amore e passione, a un certo punto divergano».
«E a quel punto… cosa accade?» le chiese un interessato Marco.
«Accade che l’amore potrebbe sdoppiarsi… E mentre l’amore affettivo continuerebbe a mantenere vivo l’antico rapporto… l’amore passionale prenderebbe altre strade; finendo, a volte, nel limbo di un’attesa che potrebbe protrarsi per un tempo lunghissimo…» sospirò. «Anche per sempre.»
«Una triste prospettiva», provò a tirare le somme Marco.
«Amare, non è sempre gioire», chiosò amaramente Galatea.
Marco rifletté, prima di domandarle: «Come va con tuo marito?»
«Normale… Come tu con tua moglie, credo», rispose alzando le spalle.
«Mia moglie, è morta tre anni fa», la informò abbassando lo sguardo.
«Scusami, non sapevo», replicò contrita.
«Lascia stare», fece Marco, roteando la mano destra, tacendosi subito dopo.
Calò un breve silenzio dal quale, Marco, riemerse con una domanda: «Siete venuti a vivere in città?»
«No, lui è a casa. Io sono ospite di mia figlia… Domani mio genero ci accompagna al mare… un mese a Sanremo», rispose. Prima di chiedergli: «Tu, abiti qui vicino?»
Marco si voltò, indicò una finestra al secondo piano di uno stabile a ridosso del parco. «Quella è la finestra del mio studiolo. Ci passo i mesi freddi a guardare il parco, sognando e scrivendo… racconti… poesie.»
Galatea lo ascoltò guardando la finestra. Poi, volgendo lo sguardo su di lui, gli domandò: «Pubblichi ancora sul web?»
«No, ho smesso. Ora leggo soltanto… I racconti, li scrivo solo per me stesso», sorrise. «Ho pudore a svelarlo… Mi sono messo in testa di creare un mondo… chiamiamolo: metafisico. Un non luogo dentro un non tempo, dove immergermi e vivere in eterno l’attimo felice.»
«Bello!» esclamò Galatea, sgranando gli occhi. «Non è che ci sarebbe un posticino anche per me, nel tuo eden?» gli chiese senza ironia.
«Ci sono solo due posti… Uno è per me… l’altro… naturalmente è per te!» confermò Marco.
A Galatea, seppur piacevolmente sorpresa, sovvenne di domandargli: «E, tua moglie?»
«Con lei, c’incontreremo nell’aldilà», rispose alzando gli occhi al cielo. «Con te condividerei il parco metafisico dei miei sogni», aggiunse indicandolo. Poi, attingendo a poetici pensieri, concluse estatico: «Prova a immaginare: un parco immensamente più grande, bello e luminoso di questo, colorato e profumato da piante e fiori d’un ‘si incommensurabile splendore, che mai l’occhi ebbero il privilegio di vedere e le nari d’assorbire. Dove godere l’armonia dell’opulenta natura dentro un’eterna estate… E lì… il tempo della passione sarà, un felice continuo divenire… per noi… solo per noi».
Rammentando le poesie che Marco era d’uso dedicarle, Galatea si lasciò trasportare nel mondo dei sogni. «Sarebbe stupendo», fece, sospirando; condividendo, per un attimo, il volo onirico di Marco.
«Lo è già, nel racconto che ho terminato di scrivere due notti fa… E ora che ci siamo finalmente incontrati… so che potrò attenderti serenamente, dentro il sogno… il nostro sogno», replicò immergendosi con sguardo trasognante dentro il parco che, ora, si mostrava ai suoi occhi nell’opulenta magnificenza precedentemente descritta.
“Povero Marco, la perdita della moglie, gli anni di solitudine… devono aver concorso a mandarlo fuori di testa”, pensò Galatea, tornando con i piedi ben piantati per terra; cercando di non far trasparire la commozione dallo sguardo pregno d’affetto per un vecchio amico, giudicato ormai prossimo al decisivo passo.
Volgendo lo sguardo dentro il parco, Galatea trovò l’appiglio per chiudere degnamente un gradito incontro, che rischiava di cadere in un profondo struggersi per entrambi. «Mia figlia e mio nipote stanno tornando… devo andare. Spero ci sia l’occasione d’incontrarci nuovamente», disse con voce scossa, alzandosi, indicando la ragazza e il bambino che si stavano avvicinando.
«L’attimo condiviso… l’abbiamo finalmente vissuto…» rispose Marco, alzandosi prontamente. «La prossima volta, se accadrà, sarà per condividere il luogo metafisico che ho creato per noi.»
«Allora datti da fare, che il tempo corre… Ciao Marco, sapessi come mi ha fatto piacere incontrarti», lo salutò abbracciandolo.
«Mai quanto lo ha fatto a me… E’ stato emozionante, dopo aver trascorso anni a leggere messaggi, chiedendomi come fosse, udire finalmente la tua voce», rispose. Poi, indicando la panchina, chiosò con trasporto: «Io sarò sempre seduto lì, ad attenderti… da ora e per altri cento anni».
Galatea annuì accennando un commosso sorriso, e si allontanò senza aggiungere altro.
Marco, tornato a sedersi sulla panchina, la vide andare incontro alla figlia, accarezzare la testa del nipotino e incamminarsi insieme a loro. Un ultimo, fugace scambio di sguardi complici, quando transitò davanti a lui per lasciare il parco, sancì la promessa di ritrovarsi dentro il sogno, disvelato dall’attimo condiviso.


“E’ stato emozionante… gli anni non hanno intaccato la sua innata dolcezza… Marco, con il suo modo gentile e allo stesso tempo passionale di porsi, riesce ancora farmi correre brividi lungo la schiena”, pensava Galatea, sorridendo.
Camminava accanto alla figlia che, accortasi del fatto, le chiese ironicamente: «Mamma, stai ridendo con gli angeli, per caso?»
«Sì, con un angelo a cui non servono ali, per volare e farti volare», rispose con trasporto, alzando lo sguardo sino a raggiungere la finestra dello studiolo di Marco. «C’è un uomo che ci osserva!» esclamò improvvisamente, sgranando gli occhi.
«Dove, mamma?» le chiese preoccupata sua figlia.
«Là… dietro quella finestra!» rispose Galatea, indicandola con l’indice e il braccio teso.
Anita sorrise. «Ma mamma, è solo il riflesso del sole sul vetro… Mi sa che è ora di cambiare le lenti degli occhiali, eh?» replicò ironicamente.
“Era lui che mi sorrideva, ne sono certa”, pensò Galatea. Si voltò in direzione del parco. “No, è ancora là seduto sulla panchina, ha ragione Anita è solo un riflesso sul vetro”, tirò le somme, notando il capo coperto dal panama bianco.


Camminando lungo il marciapiede, Galatea notò un androne addobbato con dei paramenti funebri. “Mah, questo è il palazzo dove abita Marco”, pensò.
«E’ impossibile!» sbottò spaventando figlia e nipote.
«Mamma! Stai male?» fece lei.
«Quella fotografia… non assomiglia all’uomo che era seduto sulla panchina accanto a me?» le chiese scossa, indicando il ritratto sul cavalletto.
«Cosa stai dicendo, mamma. Eri sola, non c’era nessun’altro seduto accanto a te.»
Galatea la guardò stranita. “Presa com’era a rincorrere quella peste di Robertino, non deve averci fatto caso”, pensò di primo acchito. Volgendo lo sguardo si mise a leggere il manifesto funebre. «Il nome… l’età… tutto coincide, ma è impossibile», diceva con voce tremante, indicandolo.
«Marco Aurora, anni 89…» iniziò a leggere Anita. «E’ morto ieri sera, lo conoscevi?» le chiese poi.
«Sì, cioè, no… Insomma, prima, quando siamo passate per andare al parco, non c’era nessun paramento né manifesto funebre», rispose confusa, allarmando la figlia.
«Se c’è adesso, dev’esserci stato anche prima… Solamente noi, avendo percorso la via dall’altro lato, non ci abbiamo fatto caso», provò a rassicurarla Anita.
«Già, dev’essere come dici tu», replicò poco convinta Galatea. «Mi scusi?» chiese allora ad un fiorista che stava entrando con dei crisantemi.
«Dica pure, signora», fece lui, fermandosi.
«A che piano è la salma?»
«Secondo. Deve salire?»
«Sì!» rispose decisa Galatea.
«Venga, l’accompagno all’ascensore.»
«Molto gentile, la ringrazio.»
«Mah! Mamma…» provò a dire l’allibita Anita.
«Tu e tuo figlio aspettate qua. Torno subito!» la interruppe bruscamente Galatea, seguendo il fiorista all’interno.


Due donne, pregando, srotolavano un rosario accanto alla bara. Galatea le salutò con un cenno del capo e si avvicinò, gettò uno sguardo alla salma. “E’ lui… ma allora, chi ho incontrato nel parco?” si chiese angosciata. Sentendosi soffocare uscì sveltamente. Giunta sul pianerottolo si appoggiò alla parete e, ansimando, vide scorrere davanti allo sguardo ogni frase, ogni parola scambiata in sette lunghi anni, senza mai trovare il coraggio di compiere il decisivo passo in direzione dell’attimo condiviso.
Riemergendo dai ricordi, notò il registro delle visite accanto alla porta; allora prese la penna e, con una grafia che tradì lo sconvolgimento interiore, scrisse: “C’incontreremo ancora, non saprei dirti quando, sicuramente un po’ prima di cento anni, aspettami”. Poi appose la sua firma e se ne andò.


«Mamma, che ti è successo! Sei bianca come un cencio?» domandò spaventata Anita.
«Nulla, ho salutato e dato appuntamento a un amico», rispose Galatea. Sospirò e concluse: «Andiamo a casa, sono stanca, ho bisogno di riposare».

FINE




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Racconto scritto il 04/02/2018 - 17:01
Da vecchio scarpone
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