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Alle falde del Vesuvio

Comm'è bella 'a muntagna stanotte, bella accussí, nun ll'aggio vista maje!
N'ánema pare, rassignata e stanca, sott''a cuperta 'e chesta luna janca.
Tu ca nun chiagne e chiágnere mme faje, tu, stanotte, addó' staje?
Voglio a te! Voglio a te! Chist'uocchie te vonno, n'ata vota, vedé!
Comm'è calma 'a muntagna stanotte cchiù calma 'e mo, nun ll'aggio vista maje!
E tutto dorme, tutto dorme o more, e i' sulo veglio, pecché veglia Ammore
Tu ca nun chiagne e chiágnere mme faje, tu, stanotte, addó' staje?
Voglio a te!Voglio a te!Chist'uocchie te vonno, n'ata vota, vedé! L. Bovio, E. De Curtis
In una notte silenziosa, la delusione di un uomo innamorato che piange perché la fidanzata, l’ha lasciato; non riesce a rassegnarsi e il suo dolore è indescrivibile. Aspetta inutilmente di vederla affacciarsi, mentre tutti, per la tarda ora, dormono, una luna bianca illumina il monte Somma, ma i suoi occhi non riescono a vederla. Passato del tempo col volto seminascosto dal cappuccio, Carmela a testa bassa si avvia per il Gran Cono, il sentiero che porta al cratere del Vesuvio. Di buon passo le ci vorrà circa un’ora. Nonostante i suoi pensieri siano tutti convogliati e induriti dall’obiettivo di quell’escursione forzata, la donna non può non accorgersi del meraviglioso panorama del Monte Somma, e la Valle del Gigante inondata di grigio vomito lavico dal lontano 1944. Si ferma per qualche istante, si appoggia alla staccionata in legno che costeggia il sentiero, scosta il cappuccio e si lascia emozionare da ciò che gli occhi trasmettono all’anima. Può da un tale mostro nascere ‘na cosa accussì bella? Carmela si aggiusta i capelli, poi posa delicatamente entrambe le mani sul viso, lentamente, fino a stenderne la pelle in maniera innaturale, poi riposiziona il cappuccio, e riprende il suo cammino. Non sembra affatto felice. Dopo più di un’ora giunge sul cratere; appena mette piede sul terreno pianeggiante si ferma ancora, respira a fatica, si china su se stessa con le mani appoggiate sulle ginocchia. Solamente quando si riprende, riesce a godersi lo spettacolo, nonostante la giornata non sia delle migliori dal punto di vista atmosferico, grigia e piena di nuvole, da lassù ammira il Golfo di Napoli, la Piana Campana con i suoi borghi e i suoi piccoli comuni. Com’è grande e profondo il cratere; in alcuni punti sbuffano le fumarole, segno che il gigante è vivo e vegeto, e temibile. Ora Carmela sta con un bastardo che passa più tempo in galera che a casa e quelle rare volte che è fuori si dedica volentieri ai suoi passatempi preferiti: ubriacarsi e struppiarla ‘e mazzate. Ne ha prese tante, che ormai non ci da più peso, ma la cosa che la infastidisce maggiormente quando la prende da dietro tirandole forte per i capelli, se la sbatte alla pecorina e la sottomette in ogni senso, legata polsi, caviglie e tenuta a guinzaglio con un collare; svegliarsi il mattino dopo con ancora qualche segno delle sue sudicie mani. Accidenti, come si è fatto tardi, mentre era avvolta da quei disgustosi e nauseanti ricordi, le ore trascorsero velocemente, senza che lei se ne accorgesse. Meglio scendere a quel punto. Già, ma dove? La donna si guarda intorno; che strano, non ricorda il colore del picchetto segnavia che contrassegnava il sentiero dal quale era venuta. Cerca la mappa nella tasca. Non c’è. Già, il vento se l’è portata via. E’ proprio buio, ora. La donna prende una torcia ma è inutile, la pila è scarica e la luce è talmente fievole, che non fa nessuna differenza tenerla accesa o spenta. Non si vede nemmeno la luna, coperta da scuri nuvoloni gravidi di pioggia. Maronna… San Genna’e mmo? Comm’ cazz’ me ne vaco ‘a cca ‘ncoppa? A tentoni raggiunge il corrimano che circonda il cratere, lo segue fino al punto in cui si biforca, dovrebbe raggiungere l’imbocco del sentiero. Sotto le mani la ringhiera è gelida come la sua anima; cammina con cautela, mettendo una mano avanti all’altra in attesa di tastare la biforcazione. Arriva ad un tratto di catena, dove c’è un anello semiaperto, potrebbe essere pericoloso, se ci finisce dentro sarebbe la fine. Intanto è buio pesto e della biforcazione nemmeno l’ombra. Il custode avrà già chiuso da un pezzo, mica si sarà ricordato di lei, della donna con il cappuccio. Si ferma un attimo per riscaldarsi le mani. Riprende a camminare. La biforcazione non arriva. Ha di nuovo l’affanno, e le palpitazioni a mille. Cammina. Un’altra catena. No, un momento… è la stessa! La riconosce dall’anello semiaperto. Calma, niente paura. La biforcazione dev’esserle sfuggita. Bisogna riprovare ma più lentamente, stavolta. Rifà il giro per altre due volte; poi spunta uno spicchio di luna, quel tanto che basta per illuminare il sentiero. Si precipita in quella direzione prima che la luna scompaia dietro le nuvole. Ci vuole una traccia da seguire, come prima il corrimano di ferro. Tasta tutt’intorno. Il muretto a secco, ecco la traccia. La discesa. Inizia a derapare procedendo con il sedere contro le pietre, il cuore a mille ed un sorrisetto sulle labbra. Si torna a casa, finalmente. Chissà che ore sono. La donna si pente di non aver portato con sé l’orologio, rimasto sul comodino della camera da letto. Se l’era tolto quando ha lasciato quel santo di fidanzato, per mettersi con quel balordo e poco di buono. Nessun prezzo è troppo alto purché il bastardo stia buono, non la tocchi, non la picchi e mentre rimugina tutto ciò la donna si arresta. Ha avvertito un rumore nel vento. Passi. Foglie calpestate. Sassi che rotolano. Cala il silenzio. Ora si ode soltanto il suo respiro affannoso. Il buio è ancora più fitto e radicato, non si vede ad un palmo di naso. Dev’essere stato un animale, ce ne sono tanti lassù, sul Vesuvio. Riprende a scendere ma dopo qualche passo riecco quel rumore. Si ferma. Più nulla. Riparte e di nuovo il rumore che la paralizza. Si ferma. Nulla. La donna avverte che le sta succedendo qualcosa di strano; vorrebbe gridare, ma la paura la blocca e non esce che un flebile lamento. Quella voce è riconducibile al solo pensiero; è direttamente la mente, che rimodula le frequenze, per placare la coscienza con un linguaggio che solo lei conosce. Chi sono io? Dovresti saperlo. La donna la percepisce, si spaventa. Comincia anche a piovere. Che fare, dove andare… Nulla, da nessuna parte. Il buio l’ha resa cieca, ha annegato ogni cosa nell’unico colore che possiede. Vuole rispondere a quella voce ma, prima che possa aprire bocca, le parole le escono dritto dalla testa. Avverte uno spostamento d’aria, come se qualcuno avesse soffiato così forte da generare quel vortice di vento. In quell’attimo le nuvole si diradano lasciando apparire la faccia bianca della luna. Finalmente si possono distinguere i contorni degli alberi, il vallone, il sentiero col suo muretto a secco… ed una figura massiccia che si staglia alle sue spalle. E lui, il suo ex, bello ma non dannato, non “il bel tenebroso” per intenderci, il ragazzo che con una sola occhiata in tralice le stende tutte! Non ha quell'aria da ammaliatore, che ha già visto tutto, tutto assaporato, e tutto conosciuto e le guarda con quell'aria di sufficienza che spesso procura una vera scossa elettrica. E sì! Perché stare con un uomo indecifrabile, risolvere il rebus della sua testa e del suo cuore, è un po’ come guardarsi allo specchio. Se a questo aggiungiamo che noi donne abbiamo un talento speciale per ficcarci nelle situazioni più impossibili e tentare di risolverle, il gioco è fatto! La figura del “maledetto” ha sempre esercitato un fascino speciale sulle donne, perché la dannazione, la sregolatezza, l’eccesso di trasgressioni sono indici di debolezza e di fragilità. E nella maggior parte delle donne è sufficiente questo a far scattare l’istinto materno. E come fare a non subire il fascino di un uomo così? Invece lui dolce e tenero, tranquillo, serioso senza grilli per la testa, come ho fatto a lasciarmelo scappare, per uno che non vale la pena di starci un solo minuto. Ricorda che la riempiva di attenzioni e lei era sempre al centro dei suoi pensieri, pendeva dalle sue labbra; un generoso che le dava sempre l’ultimo boccone della sua torta al cioccolato. Faceva cose che non avresti mai pensato, per esempio aspettarla tutta la notte che si affacciasse solo per vederla. Anche se era arrabbiato per qualcosa di sbagliato da parte di lei, ce lo faceva notare con garbo e delicatezza cercando di non ferirla. Non notava nessun difetto! Era troppo occupato ad ammirarla, baciarla e riempirla di coccole. Non trascurava nulla e si ricordava di tutte le ricorrenze; non dimenticava nessun dettaglio, nemmeno il suo piatto o vino preferito. L’ha portata su una nuvola da cui poi scendere le è stata impossibile! Non smetteva mai di guardarla e lei percepiva che qualsiasi cosa facesse aveva i suoi occhi addosso pieni di ammirazione. Lui aveva lo sguardo perso su di lei, come se non l’avesse mai vista prima. Era veramente, follemente, profondamente innamorato e non perdeva mai occasione per farglielo sapere, lo ripeteva all’infinito di amarla. Come fosse una poesia, lui non poteva trattenersi dal dirle quanto era fantastica, ne poteva evitare di farle una carezza e dirle che era bella. Una cosa davvero strappalacrime! Eppure l’aveva lasciato, credeva che tutte quelle attenzioni fossero da smidollati! Come vorrebbe fermare il tempo e più che affacciarsi dal balcone, quella fatidica notte silenziosa, scendere giù e correre verso di lui; abbracciarlo e riempirlo di baci. La donna vede la luna nascondersi dietro ad una grossa nuvola e intuisce che sta tornando il buio. Alza lo sguardo verso al cielo; gocce di pioggia s’instillano negli occhi come collirio. Sviene. Quando riapre gli occhi è accolta dallo stesso chiarore lunare che aveva lasciato. Non è più sul sentiero, è di nuovo sul cratere, riconosce il corrimano di ferro. Ma dov’è lui? Lui è ancora lì, accanto a lei, in paziente attesa.
Ma tu che vuoi da me?
L’uomo le risponde con un’altra domanda.
Perché hai lasciato che accadesse? Perché hai permesso che quell’uomo ti facesse del male?
Male? Ma quale male! A me fa male, quando mi gonfia di botte, quando a letto mi piglia peggio di una bestia!
Ne sei sicura? Guarda, allora.
L’uomo le afferra la testa con le mani e la spinge a toccare la sua fronte, che restano calamitate in una sorta di passaggio di dati. Attraverso quella morsa le immagini arrivano direttamente negli archivi della memoria, dove scorrono i fotogrammi di un film visto e rivisto, dove la sua anima si muove, ascolta ed urla tutto il suo tormento. Implora che lui ponga fine a quello strazio. Quella che chiede pietà ogni volta che il padre si avvicina, che si contorce quando lui abusa del suo corpo inerme e piagato. Rivede l’intero suo vissuto fluire davanti agli occhi e a quel punto esclama: Basta, per carità! Basta! BASTA! Basta…
Cambia la scena. Un dolore atroce, indicibile, che esplode in ogni centimetro di quel corpo già martoriato dalla sorte con la forza di implosione di una stella nana.
Ti scongiuro, basta… perdono! Perdono!
La scena cambia ancora. Non capisce dove si trova. È una stanza piccola e brutta, con pareti decrepite e ci sono delle scritte incise, un vecchio tavolino di formica e uno sgabello, una tazza del water in un angolo e un lavabo accanto al muro, un letto di ferro arrugginito ed una finestra con una grata. È in galera! È la cella dove è detenuto suo marito. L’uomo e lei attraversano il portone blindato come se fosse d’acqua. Nessun altro può vederli. Si avvicinano a lui, lei urla ma nessun altro capisce perché. Con la mano l’uomo gli sfonda il petto, abbranca il cuore, lo tira fuori e con furia lo sbatte a terra.
La donna è raggomitolata su se stessa, ancora in preda agli spasmi. Le sue lacrime si mescolano alla pioggia che ora scende copiosa e urla: L’hai ammazzato! Ma tu chi sei?
Che importa chi sono? Lo scoprirai tra poco, tu stessa. L’afferra al collo stavolta, e la solleva come un fuscello e la trasporta sul ciglio del cratere vulcanico. La bocca del Vesuvio, calda e profonda. La donna non ha nemmeno il tempo per reagire, neppure ne ha voglia, la stretta le impedisce perfino di respirare; può soltanto guardare il suo ex uomo negli occhi, dove i colori vorticano e si avvitano gli uni sugli altri, pregando che quel vortice risucchi anche lei prima che il suo corpo tocchi terra.
La sua anima fluttua sopra la cavità vesuviana e la sua coscienza si quieta.



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Racconto scritto il 18/03/2018 - 10:18
Da Pica Giulia
Letta n.979 volte.
Voto:
su 4 votanti


Commenti


Un racconto onirico che impegna il lettore nelle varie possibili interpretazioni. Molto apprezzato il richiamo alla canzone Tu ca nun chiagne, che è poi la sintesi del canovaccio del racconto. Un brano questo ben scritto, con proprietà di linguaggio, e proprio per questo appaiono strani certi errori, o refusi, alcuni anche nella punteggiatura che è invece quasi sempre molto curata e precisa. Sicuramente sviste...

Corrado B. 19/03/2018 - 07:56

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Mi hai estasiato, raccontando una storia che calza a pennello su una delle canzoni più belle napoletane. Dando una chiave di lettura del tutto originale, anche se rispetta i contenuti espressi degli autori. Sei stata capace di riscattare alla sciatteria iniziale della ragazza, che la propria coscienza ha lasciato eliminare, proprio dall'uomo a cui aveva procurato tanta sofferenza. E la stessa uccisione del marito, come rivendicazione all'abbandono, che rappresenta non solo l'ex fidanzato, ma la purezza d'animo e il più alto significato che l'amore può assurgere. Se la storia fosse finita, che i due si sarebbero di nuovo insieme, avrebbe perso di peculiarità e novità. Invece questa tua trovata che ai più potrebbe sembrare stravagante e bizzarra, ha una connotazione retrospettiva e allo stesso tempo di avanguardia. Complimenti in toto, per la descrizione, per i contenuti, per lo stile e per la scorrevolezza.

Savino Spina 18/03/2018 - 12:18

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MOLTO BELLO LETTURA SCORREVOLE

GIANCARLO POETA DELL'AMORE 18/03/2018 - 11:07

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