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Chiamatemi Aquila

Chiamatemi Aquila


Chiamatemi Aquila… e non per modo di dire. Perché è nelle vesti dell’imperioso rapace che avevo da sempre desiderato rinascere in un’altra vita, che poi, è solo un nuovo inizio di quella che mi porto dentro da quasi quarant’anni… Mettiamola così: nella prima parte della mia vita ero un bambino di pianura, che nella stagione calda se ne stava steso supino dentro un prato a guardare stupefatto gli uccelli volare cercando di dialogare con loro, e d’autunno li salutava osservandoli con sguardo malinconico migrare verso sud.
Il mio sogno è sempre stato quello di volare. Sì, ma non dentro la pancia di quella rumorosa e pericolosa ferraglia che solca i cieli; volevo farlo autonomamente, come gli uccelli.


Crescendo, con degli artifizi cercai d’imitare il loro silente volo. Lanciandomi dall’alto di una rupe con il parapendio, un giorno provai l’ebrezza di volare accanto a un falco. Il volatile pareva guardarmi, a un certo punto, udendolo stridere, pensai persino che provasse a interloquire; il falco pellegrino accompagnò le mie evoluzioni per una decina di minuti, poi non riuscendo a comunicare con me, si stufò e virando alla mia destra si allontanò.
“Ciao amico falco, è stato un piacere volare con te” pensai immalinconendomi. Il falco mi salutò sbattendo l’ala destra e velocemente sparì alla vista.
Chiamatemi pure pazzo, ma io da quel gesto capii che ero riuscito a farmi comprendere dal falco usando la sola forza del pensiero.
“Forse un giorno, usando l’immensa potenza racchiusa nella mente, potrò davvero imparare a volare” riflettei nei giorni a venire rivivendo quell’esaltante momento.
Sentivo d’avere dentro di me la forza per farlo, ma non sapevo come liberarla. Mesi e mesi a leggere tutto quel ch’era stato scritto sul comportamento, sull’anatomia e il volo degli uccelli non condussero a nulla, se non alla follia. Ormai gran parte del mio tempo lo trascorrevo facendo esercizi fisici e mentali da volatile.
Appollaiato sulla pediera del letto, sbattendo le braccia provavo a staccarmi dal bordo, finendo inevitabilmente con lo sbattere il muso sul pavimento; ingurgitavo il cibo, preferibilmente carne cruda macinata, usando solo la bocca e tenendo le braccia ripiegate appoggiando le mani all’altezza delle clavicole; e poi altri comportamenti strani che non mi portavano da nessuna parte.
E fu così che il desiderio di librarmi nell’aria mi portò ad abbandonare ogni altro progetto di vita per dedicarmi all’unico obiettivo che mi ero prefisso: volare come fanno gli uccelli.
V’è da dire che potevo tranquillamente permettermi di non fare altro. I miei genitori, scomparsi prematuramente in un incidente aereo, avevano lasciato in eredità una fiorente attività e un cospicuo patrimonio, mobiliare e immobiliare, a me e mio fratello. Un patrimonio la cui gestione avevo lasciato volentieri nelle mani di mio fratello; un affermato commercialista che, alla fine di ogni anno fiscale, si premurava di mostrarmi i bilanci, a cui dedicavo una rapida e distratta scorsa, e a trasferire parte del dividendo sul conto corrente a me intestato; un bel gruzzoletto che, con un gesto metaforico, ringraziandolo mettevo in saccoccia infilando una mano dentro la tasca dei pantaloni.


Faceva parte del lascito testamentario anche lo chalet in legno nel quale trascorrevamo le vacanze agostane (sin da bambini assieme ai nostri genitori e gli ultimi cinque anni da soli), l’immobile, sito in un borgo fiabesco in quel dei monti pallidi, era ubicato appena sopra il limitare di un’abetaia, all’interno di una radura con straordinaria vista sulle alte vette. Era da lì che, con il binocolo puntato, perlustravo le vette in cerca del volatile che più aveva incantato la mia fantasia: l’aquila.
Avevo smesso di lanciarmi col parapendio il giorno in cui avevo visto un ragazzo sfracellarsi al suolo. Ma se devo essere sincero, lo spavento fu solo una scusa. Il motivo vero era che tornavo a terra sempre più deluso; l’amico falco non si era più visto e altri volatili che per un attimo parevano voler condividere un po’ di cielo con me, nonostante provassi a comunicare telepaticamente con loro, subito dopo volavano lontano senza degnarmi di un saluto.
Mi stavo convincendo che quella di comunicare mentalmente con i volatili fosse solo una pia illusione. Ma presto qualcosa di stupefacente mi avrebbe convinto del contrario.


«Un’aquila!» proruppi incredulo puntando il binocolo su uno sperone di roccia. Il maestoso esemplare se ne stava lì, appollaiato su una guglia, e il suo sguardo rapace ingrandito dalle lenti pareva dirmi di sbrigarmi, che mi avrebbe atteso per insegnarmi a volare.
Non persi un attimo. Calzati gli scarponi e l’imbracatura, attraversai di corsa la radura e iniziai a salire la ferrata che mi avrebbe permesso di raggiungere la base della guglia di roccia.
Salivo più in fretta che potevo, respirando come un mantice, scordandomi persino, in alcuni tratti, di agganciare i moschettoni dell’imbracatura alla fune metallica di sicurezza: il desiderio di raggiungerla era pari al timore di non giungere in tempo.
Impiegai più di mezz’ora per raggiungere la base della guglia. Esausto alzai lo sguardo, lei era ancora là. Piegando la testa verso di me, senza emettere grida m’invitò a salire: questo lo percepii chiaramente nella mente.
“Non ce la farò mai a salire lassù” pensai sconfortato.
L’aquila carpì il mio pensiero: di questo ne ebbi contezza poco dopo, quando compresi di essere entrato in contatto telepatico con la sua mente.
Incredulo udii la voce della sua mente (dal tono soave compresi essere di un esemplare femmina) spronarmi ad osare. E poi m’insegnò come fare; no, non a salire arrampicandomi come un ragno, ma volando come lei, come un’aquila reale!
Mi guardai all’intorno: ero solo, nessun essere umano alle viste. Allora, come ella mi ordinò, mi spogliai, poi mi accostai al dirupo, esitai… lei mi sprono. «Avanti, lanciati, vedrai, ci ritroveremo in volo e sarà bellissimo» percepii chiaramente, ma ancora tentennavo.
«La metamorfosi è compiuta. Ora sei quello che hai sempre desiderato essere. Guarda il tuo corpo e poi lanciati» insistette in tono accorato.
Abbassando lo sguardo, dove prima c’erano i miei piedi ora osservavo stranito gli artigli aggrappati alla roccia, le piume di colore bruno scuro che rivestivano le zampe risalire gli arti inferiori e raggiungere il petto; spalancai le braccia e la meraviglia mi colse: il piumaggio di due immense ali vibrava al vento.
Ma ancora non trovavo il coraggio di lanciarmi nel blu. E questo indispettì la mia istruttrice che, allargando le ali se ne volò via. La guardai allontanarsi imperiosa percependo una voce lontana, che malinconicamente diceva: «Ora hai tutto quello che serve, ma se ti manca il coraggio di sognare, non potrai mai volare.»
Aveva ragione, quel giorno non lo trovai il coraggio di lasciare tutto e tutti e di librarmi in volo. Mi guardai il corpo, ero nuovamente un uomo sul bordo di un precipizio con indosso solamente le proprie paure.
Dopo essermi rivestito scesi mestamente a valle, derubricando il tutto a un’allucinazione dovuta al fatto di essere giunto in cima senza fiato e con la vista appannata dalla scarsa ossigenazione.
Nei giorni a venire, per preservare quel poco di sanità mentale rimastomi, mi costrinsi a credere che fosse stato null’altro che un disturbo psichico provocato dall’enorme e prolungato sforzo fisico, messo in atto per percorrere in poco più di mezz’ora un sentiero verticale che, di norma, prevedeva almeno un’ora di cammino.
Ma dentro di me la fiamma non si era spenta, e quando tornammo a casa ripresi, accentuandole, le mie strane abitudini. Comportamenti che, se scoperti, avrebbero sicuramente allarmato il mio pragmatico fratello.


Quale sarebbe stata la sua reazione il giorno che mi avesse colto ad atteggiarmi ad aquila, lo avrei scoperto da lì a poco.
Dovete sapere che io e mio fratello risiedevamo in due appartamenti separati siti nello stesso stabile: io al primo piano, lui al secondo.
Ora non starò a raccontarvi per filo e per segno quel che accadde, rammentarlo mi fa ancora male, mi limiterò a riassumerlo brevemente: quel giorno mi ero dimenticato di chiudere la porta a chiave, quando lui, arrivando dall’ufficio, entrò e mi vide appollaiato nudo sulla sedia con le braccia piegate, le mani appoggiate all’altezza delle clavicole, la testa abbassata sopra il tavolo e la bocca immersa in una scodella di carne cruda, gli prese un colpo. Allora, urlando come un ossesso buttò all’aria il tavolo, poi prese la tovaglia e me la gettò addosso. Infine mi spinse in camera, la chiuse a chiave e chiamò chi di dovere.
Tre mesi durò il ricovero coatto in una costosissima struttura privata specializzata nella cura delle malattie mentali. Quando ne uscii, inebetito da massicce dosi di tranquillanti, scopersi che il mio fratellone era riuscito, prima a farmi interdire e poi a farsi nominare mio tutore.
Ora che aveva assunto pieni poteri su di me, poteva decidere i periodi di ricovero, cosa dovevo o non dovevo mangiare, cosa dovevo fare durante il giorno… un despota, questo era diventato il mio caro fratello. Ma per quanti sforzi potesse fare, nulla avrebbe potuto contro la potente voglia di volare che, non potendo sfogarla con comportamenti fuori dalla norma perché controllato a vista da lui e da un’infermiera cerbero, dentro me cresceva a dismisura, di pari passo con l’odio avverso il mio caro fratello e la sua sodale cerbero.


Come ogni anno ad agosto, lo chalet attendeva il nostro arrivo, questa volta saremmo stati in tre; oltre a mio fratello ci sarebbe stata l’infermiera cerbero a tenermi d’occhio quando lui fosse uscito per la sua quotidiana passeggiata lungo i sentieri che risalivano la montagna.
L’infermiera cerbero, sopra al tavolo dove campeggiava una brocca d’acqua e un bicchiere, posava una serie di pillole colorate, poi, intrecciando le braccia sotto il voluminoso seno controllava che le ingurgitassi tutte; e se tentavo di sputarne qualcuna, volavano improperi accompagnati da sganassoni: aveva la mano callosa e pesante, più da boscaiolo che da infermiera, la tipa.
Tutto questo solitamente accadeva dopo la colazione, quando mio fratello, che era d’uso incamminarsi alle prime luci dell’alba, era già uscito da un pezzo; ma quant’anche fosse stato presente, com’era in realtà già accaduto, non sarebbe cambiato nulla.
E alla fine, come premio per aver buttato giù tutto quel veleno, ella mi concedeva di passeggiare nella radura; un breve quarto d’ora d’aria, sempre controllato a vista da lei, prima di rinchiudermi in camera.
Le alte vette le potevo gustare solo da lì, tirandole a me con il binocolo, che i miei carcerieri avevano deciso di lasciarmi in uso, considerandolo un oggetto innocuo… ma si sbagliavano, oh, se si sbagliavano, e ben presto ne avrebbero pagato le conseguenze.


Dopo un’intera settimana trascorsa a scrutare le vette, mi stavo ormai rassegnando; lei, l’aquila, s’era andata a posare gli artigli su qualche altro picco, realizzai deluso. Osservai la sveglia sul comodino: erano le otto.
“Fra poco il cerbero verrà ad aprire la prigione per offrirmi la solita colazione, il cui pezzo forte sarà il gran finale a base di pillole colorate” pensai orripilato, decidendo di fare un ultimo tentativo, più per non lasciare nulla d’intentato che per reale convinzione.
«Eccola!» proruppi felice. Tacendomi all’istante temendo di aver allarmato la mia carceriera.
Tesi l’orecchio: nessun rumore di passi proveniva dall’assito del corridoio. Posi nuovamente il binocolo all’altezza degli occhi e ripresi a guardare, fremente, la guglia di roccia.
Ora gli occhi dell’aquila, penetrando i miei, mi spronavano nuovamente ad osare. «Spogliati, esci nella radura, batti le ali e inizia a volare. Vieni a me, ti mostrerò meraviglie che solo volando portai apprezzare» declamava una voce melodiosa nella mia mente.
Posai il binocolo, mi restavano pochi minuti per decidere se perdere quest’ultima occasione oppure provare veramente a volare. Sì, ma come fare, il cerbero, quel donnone alto quasi due metri con braccia da scaricatore di porto, non me lo avrebbe mai consentito. Se volevo avere qualche possibilità, dovevo sbarazzarmi di lei cogliendola di sorpresa.
I passi pesanti sull’assito del corridoio certificarono che il tempo stava ormai scadendo. Iniziai a spogliarmi freneticamente.


La chiave ruotò nella toppa, la porta si aprì e la donna cerbero, venendo a trovarsi al cospetto di un’aquila reale che sbatteva le ali, rimase un attimo interdetta, l’attimo bastante per permettermi di balzarle sulla testa e affondarle gli artigli nel cranio. Poi, mentre lei urlando con voce stridula infilava le mani nei cappelli, piegandomi in avanti sino ad arrivare a guardarla negli occhi, con due colpi chirurgici assestati con il becco le cavai i bulbi oculari. Sbattendo le ali mi staccai da lei e andai a posarmi sulla trave della capriata centrale, e da quella posizione privilegiata mi godetti lo spettacolo.
La cerbero urlava dal dolore tenendo le mani che grondavano sangue premute contro le orbite oculari: erano urla disumane frutto di un dolore straziante. Camminava sbandando, sbattendo contro il mobilio; la vidi passare sotto di me, sbattere con il fianco contro lo scrittoio, arretrare, inciampare nella sedia, cadere all’indietro e sbattere la testa contro lo spigolo del comodino.
Ora giaceva supina sull’assito, le braccia distese come le ali di un grande uccello caduto, dalle orbite oculari vuote tracimava sangue che scendendo lungo gli zigomi andava ad alimentare due macchie rosse che si allargavano ai lati della testa.
Svenendo era caduta sull’assito con un tonfo sordo, dall’alto la osservavo chiedendomi se si sarebbe mai rialzata. Giudicando la cecità una punizione severa ma non sufficiente a placare la mia sete di vendetta, sbattendo le ali mi lanciai su di lei, atterrai piantandole gli artigli nel voluminoso seno, che si alzava e abbassava come un mantice al ritmo dell’ansimante respiro.
Dovevo fare in fretta, se si fosse riavuta mentre ero sopra di lei, afferrandomi avrebbe potuto spezzarmi un’ala, e allora sarebbe stata la fine anche per me. Con rapidi e precisi colpi affondai il becco nella carotide, lacerandola raggiunsi l’arteria e la recisi, il sangue iniziò a sgorgare copioso dalla ferita, e scendendo lungo il collo andò ad imbibire le tavole d’abete dell’assito. Per lei, non ci sarebbe stato risveglio!
Zompettando lasciai la camera e raggiunsi la cucina, confidando nella monotona ripetitività della mia aguzzina, ero quasi certo che prima di venire da me avesse, come ogni mattina, aperto la finestra per arieggiare l’ambiente: se non lo avesse fatto, per me sarebbero stati guai grossi.
Con mio grande sollievo la finestra era aperta, la fresca brezza mattutina mi riempì i polmoni, zompai sul davanzale, volsi lo sguardo al cielo, sbattendo le ali presi l’abbrivio e decollai. Volavo, sì, finalmente ero libero di volare.
La mia compagna m’attendeva là, sulla guglia dove l’avevo conosciuta l’anno prima. La raggiunsi e insieme planammo lungo il costone.


Sarei volato lontano insieme a lei, ma la mia vista d’aquila mi rammentò che avevo un lavoro da finire.
Se non lo avessi visto sul sentiero sotto di me, sarei volato lontano; ma, purtroppo per lui, lo vidi salire un tratto di sentiero esposto e in forte pendenza.
Lanciandomi in picchiata gli fui addosso in un attimo, volgendomi mentre riprendevo quota notai che un colpo d’artiglio gli aveva lacerato la guancia. Mi buttai nuovamente in picchiata, questa volta lo sfiorai appena, ma tanto bastò a far sì che, scansandosi spaventato, perdendo l’equilibrio precipitasse dal dirupo.
Udii l’eco del suo urlo di terrore rimbalzare tra le rocce, poi… solo silenzio.
Volando in circolo vidi il corpo di mio fratello steso supino, inarcato in modo innaturale sopra una roccia.
Udii la mia compagna gridare, era ora d’andare, la seguii, tanto ormai, lì non mi era rimasto nient’altro da fare.


Chiamatemi Aquila… e non per modo di dire, perché da poche ore e per il resto dei miei giorni, questo io sarò.


FINE




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Racconto scritto il 18/06/2018 - 14:37
Da vecchio scarpone
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